(Articolo uscito sul mio Substack il 18 settembre scorso. Puoi abbonarti per ricevere via e-mail i miei articoli una settimana prima dell’uscita sul blog)
Le metafore non sono solo roba per artisti, anzi contengono alcune risposte a domande che ci riguardano tutti quanti. E poi c’entrano un bel po’ con la psicoterapia.
Di cosa parliamo quando parliamo di metafore
Essendo la psicoterapia un’attività che vive nel linguaggio, capirete che le espressioni metaforiche costituiscono una questione di enorme interesse per il terapeuta. Lo si capisce anche solo facendo una ricerca superficiale su Google (metafora in psicoterapia), da cui escono un bel po’ di pagine di ricerca. Dalle quali si capisce anche un’altra cosa: che il linguaggio metaforico in terapia è pensato generalmente come una strategia linguistica. Nei titoli che emergono, infatti, ricorrono espressioni come “la metafora come strumento”, “l’utilizzo della metafora”, persino “lo scopo della metafora”. In alcuni vecchi articoli al riguardo, su riviste scientifiche, ho letto liste di metafore terapeutiche consigliate, quelle che sono “efficaci” in un contesto e quelle che sono “d’effetto” in un altro. Così, a priori, a prescindere da chi le pronuncia e dai significati che si costruiscono in quella specifica e unica relazione.
Eppure, a leggere gli autori che ci hanno detto qualcosa di utile sulla natura del pensiero metaforico non emerge mai qualcosa che legittimi a pensarlo come un armamentario buono per un uso strumentale, per dire delle cose che non si sa dire diversamente, o per dirle in un modo più comprensibile o più persuasivo. Anzi, più ci si addentra nella questione, più sembra che il pensiero metaforico sia un’attività mentale che governiamo ben poco. Spingendo all’estremo, non siamo noi a “fare metafore”: semmai sono le metafore a “fare noi”.
Vorrei spiegare con calma quello che intendo, e — per chi ci sta — scrivo questo articolo che sarà diviso in più parti: non so ancora bene quante, ma intanto comincio e grazie anticipate per la fiducia. Procederò seguendo il filo dei pensieri, in modo non necessariamente ordinato. La metafora, d’altra parte, è un po’ anarchica. Funziona in modo alquanto diverso dalla logica formale, e la sua logica è tutt’altro che ineccepibile.
“Non so dirlo con parole diverse”
Vi parlerò di alcuni degli autori che mi hanno dato delle idee per capirci qualcosa, ma provo a partire da uno spunto che molti di noi conoscono. Anzi, quando mi capita di domandare a un’aula “cosa vi fa venire in mente la metafora?”, non pochi alzano la mano e citano Il postino di Michael Radford, l’ultima interpretazione di Massimo Troisi (1994, dal libro di Antonio Skármeta Il postino di Neruda). Nel film c’è quel famoso scambio di battute fra il poeta Pablo Neruda (Philippe Noiret) e Mario Ruoppolo (Troisi, appunto) in cui il poeta domanda al suo timido ammiratore perché se ne stia “lì ritto come un palo”. Segue un botta e risposta in cui i due si rimpallano citazioni dalle Odi elementari di Neruda.
“Inchiodato come una lancia”, ribatte Mario.
“No: immobile come la torre degli scacchi”, rilancia l’altro.
“Più quieto di un gatto di porcellana”.
Finché il poeta protesta: ho scritti libri assai migliori, dice, “è indegno che tu mi sottoponga a queste similitudini e metafore”.
A Mario che gli chiede spiegazioni su quest’ultima parola, Neruda risponde: “è quando parli di una cosa paragonandola a un’altra”.
”…che è una cosa che si usa… nella poesia?”
”Sì, anche”.
Occhio: dice “anche”.
Nel seguito della conversazione Mario gli chiede spiegazioni su alcuni suoi versi. In risposta Don Pablo dice una cosa che riguarda la poesia perché calza perfettamente anche alle metafore. Dice: “Io non so dire quello che hai letto con parole diverse da quelle che ho usato. Quando la spieghi, la poesia diventa banale”.
Più tardi, sulla spiaggia, il poeta declama dei versi e poi domanda a Mario cosa provi. “Le parole andavano di qua e di là”, risponde il postino, quasi in estasi.
“Come il mare?”, domanda Neruda.
“Come il mare. Infatti mi è venuto il mal di mare. Mi sono sentito come una barca sbattuta in mezzo a tutte queste parole”.
Neruda resta in silenzio. Poi: “Tu lo sai cosa hai fatto?”, gli domanda.
E Mario, intimorito e preoccupato: “No, che ho fatto?”.
“Una metafora!”.
Un attimo: lo so, qualcuno di voi vorrebbe osservare che il poeta ha fatto di tutt’erba un fascio, e che se dico “come una barca” non faccio una metafora, faccio una similitudine. E io gli do ragione: nella metafora io non sono come una barca, io sono una barca. Emily Dickinson dice “la speranza è la cosa con le piume”, mica “è come la cosa con le piume”. È in quel grado in più di identificazione, di coincidenza fra i due termini — me e la barca — che sta il miracolo di una metafora. Ci torno.
Mario, incredulo, si schermisce: “Ma veramente?”. Nasconde la testa nel cappello, poi diventa serio: “vabbè, però non vale, perché… non la volevo fare”
“Volere non è importante, perché le immagini… le immagini escono casuali”.
Mario si fa ancora più serio: “Cioè, voi che volete dire allora? Che, per esempio, non so se mi spiego, che il mondo intero, no?, il mondo intero proprio dico col mare, col cielo, con la pioggia, le nuvole, eccetera eccetera, cioè il mondo intero allora è la metafora di qualcosa?”
Quattro punti importanti
Un appunto, soprattutto: non credo di cercare il pelo nell’uovo se dico che la metafora non è parlare di qualcosa paragonandola a un’altra, come dice il poeta nel film. La metafora è parlare di qualcosa parlando di un’altra. Non è descrivere il colore degli occhi dell’amata paragonandolo a quello del cielo.
Prima dicevo: non è solo essere come. Vorrei aggiungere: c’entrano le emozioni e la posizione di chi parla. Non sono gli occhi della ragazza ad essere come il cielo, sono io-che-guardo-quegli-occhi ad essere come io-che-guardo-il-cielo, perché per me — per me: non è una esperienza oggettiva, e non vale per tutti! — a un certo livello occhi e cielo si identificano, mi danno lo stesso smarrimento. Ecco, dovrei pensarci ma questo mi sembra un modo di dire la differenza fra una similitudine e una metafora.
Ma intanto, dallo scambio fra Noiret e Troisi annoto alcuni spunti utili, per enunciare alcune idee che conto si chiariranno in questa prima parte dell’articolo e nelle prossime:
- “Volere non è importante”: è vero, in un certo senso l’immagine metaforica arriva non cercata (ma non “casuale” come dice il personaggio, quello direi proprio di no); che vuol dire? Se devo mettermi a pensarci per inventare una metafora, la devo considerare non proprio una metafora? Sì e no. Forse più sì che no.
- Non è solo per gli artisti: “si usa nella poesia?”, “anche”, risponde il poeta. In realtà noi umani siamo animali metaforici, siamo tutti costruttori di metafore e ne produciamo in misura enormemente maggiore di quanto immaginiamo.
- Tanto ci riguarda tutti che c’entra niente di meno che col “mondo intero”: “il mondo è la metafora di qualcosa?”, domanda Mario. Volendo sì, ma non solo. Qualcuno ha detto che l’intero mondo vivente funziona come una metafora (magari lo vediamo la prossima volta); ma soprattutto se non fossimo capaci di metaforizzare ci perderemmo una parte enorme del mondo.
- E infine, è vero: non si “traduce” una metafora. Non si fa, per nessuna ragione. Per motivi che interessano i poeti ma, come vedrete, riguardano direttamente anche i terapeuti.
È il corpo a parlare
Mettiamola così. Noi abbiamo a che fare tutti i giorni con un mondo fisico, che è fatto di sedie, tavoli, valigie, automobili, strade, alberi, bottiglie, sacchi, mare, cielo, pioggia, nuvole, lance, torri degli scacchi, barche e una quantità di altri oggetti. Ci viviamo, lo descriviamo, abbiamo un vocabolario per farlo. Di una strada diciamo che è lunga, di una valigia diciamo che è pesante, di un cielo diciamo che è cupo, eccetera.
Poi abbiamo a che fare con un mondo non fisico. Abbiamo a che fare con pensieri, sentimenti, relazioni, moti dell’animo. Anche in quel mondo viviamo, anche quello lo descriviamo, ma — sorpresa! — non abbiamo un vocabolario per farlo. Anche di una storia d’amore diciamo che è lunga, di una conferenza diciamo che è pesante, del nostro umore di un dato momento diciamo che è cupo. Ma una relazione non la misuriamo col metro, una conferenza non possiamo metterla sulla bilancia, e il nostro umore non ha un colore così come ce l’ha il cielo — anzi, così come lo attribuiamo al cielo: per favore, non entriamo nella questione “i colori non esistono in senso letterale”. È vero, ma non è questo il punto; non stiamo parlando del mondo com’è, ma della nostra percezione di esso; di come cioè lo sperimentano i nostri muscoli, i nostri organi di senso, il nostro sistema nervoso. E questo sì che è il punto.
Perché non avremmo alcun modo di concettualizzare pensieri, sentimenti, relazioni e moti dell’animo, se non con il pensiero che applichiamo a strade, oggetti, esperienze fisiche. È la grande intuizione e il grande contributo di George Lakoff, studioso di linguistica cognitiva. I suoi libri come Metaphors We Live By (Metafora e vita quotidiana nell’edizione italiana) sono fra quelle letture dopo le quali è impossibile vedere il mondo come prima.
Come costruiremmo la nostra esperienza del tempo, se non avessimo esperienza dello spazio? Se non sapessimo cosa significa percorrere una distanza misurabile? Come faremmo se non sperimentassimo continuamente il moto di oggetti? Come metteremmo in fila gli eventi se non come mettiamo in fila oggetti? Come avremmo un’idea di passato e di futuro senza avere un’idea di quello che sta dietro e quello che sta davanti? Potremmo pensare il tempo se non potessimo immaginarlo come un vettore che arriva da un punto all’altro nello spazio (“è arrivato Natale!”) o come lo sfondo sul quale noi stessi ci muoviamo (“siamo arrivati a Natale!”)?
Lo so: 1) tutto questo è del tutto controintuitivo e per niente ovvio; e 2) non è ovvio nemmeno il fatto che una gran parte del nostro linguaggio sia metaforica. Se vi proponessi di contare le metafore che stanno in questo articolo, restereste sorpresi.
Tutto questo infatti accade nella sostanziale inconsapevolezza del fatto che parliamo di una cosa per dirne un’altra: per noi quello che diciamo è vero in senso letterale. Tanto siamo ignari della natura metaforica di quasi tutto quello che diciamo che l’avverbio “letteralmente” è diventato un tic linguistico che dice una cosa diversa da quella che vorrebbe la parola, cioè “in senso letterale e non metaforico”. Infatti, se il nostro linguaggio fosse letterale come pensiamo, che senso avrebbe chiarire che una certa parola è usata in senso letterale? Così l’avverbio viene usato con grande frequenza per fare altro, per rafforzare o rimarcare un concetto. Diciamo cose come “quel cantante è letteralmente esploso ed è salito in classifica”. Ma, con ogni probabilità, se è esploso, per fortuna lo è solo metaforicamente. Se fosse esploso letteralmente, la classifica sarebbe l’ultima delle sue preoccupazioni (e per completezza di informazione vorremmo sapere le cause del raccapricciante fenomeno, e se hanno raccolto i pezzi).
Ma in fondo, chi di noi sta lì a far caso che quando diciamo cose come “nel tuo discorso ho trovato delle buone idee” stiamo pensando che un discorso è una specie di sacco e le idee sono degli oggetti che puoi trovarci in fondo? O che quando descriviamo stati psicologici dicendo “non ci sto dentro” o “è fuori di sé” usiamo concetti che conosciamo dall’esperienza di “dentro” e “fuori” nel mondo fatto di cose e di contenitori?
Tutti i giorni, grazie a questa facoltà della mente, diciamo che un discorso è profondo, se lo apprezziamo, o che è vuoto se non ci desta interesse; che una persona è vicina, se mostra affetto, e sennò che è distante. E un pensiero ci può sembrare dolce o, al contrario, amaro. Di un amore diciamo che è grande, ma talvolta, se concettualizziamo i sentimenti come cose che si muovono, che è al capolinea. Ancora, della fiducia verso qualcuno diciamo che è salda, ma se viene delusa diciamo che si rompe.
E siccome abbiamo esperienza di cose che messe una sopra all’altra fanno una pila sempre più alta, diciamo di un numero che è alto o basso. E della casa che fu della nonna diciamo che “è andata a Giovanna”, sebbene notoriamente le case non si muovano e la proprietà stia nel mondo delle cose astratte e delle convenzioni, anche se ci piace attribuirle uno statuto di concretezza ed oggettività. Una eredità è in effetti un “movimento”, con le virgolette, è quando qualcosa che apparteneva a qualcuno che non c’è più cambia posto, per così dire, e viene “spostata” presso qualcun altro (un autore, peraltro piuttosto divertente, che vi svela simili aspetti dell’attività metaforica, è Steven Pinker, per chi ha voglia di investire qualche ora nell’argomento).
Si capisce meglio ora perché “volere non è importante”? Non è importante perché non funziona così, non parliamo di scelte espressive deliberate, parliamo di un funzionamento del pensiero che non ha niente a che vedere con una nostra scelta consapevole.
Se è vero che pensiamo alle cose astratte come pensiamo alle cose concrete, e che non potremmo pensare se non attraverso l’esperienza del corpo, non stiamo parlando di un modo più o meno persuasivo di parlare per immagini, di un modo di esprimerci “carino” o strategicamente efficace. Stiamo niente di meno mettendo in questione l’effettiva separatezza di mente e corpo. Detta in un altro modo, stiamo parlando di buoni argomenti per affermare che pensiamo col corpo. Roba da vertigini.
Se è così, capite che non parliamo di trucchi linguistici, anche a fin di bene, parliamo di qualcosa di maledettamente serio. E se avete la pazienza per aspettare la seconda parte, proverò a spiegarmi meglio. Quanto scritto fin qui non arriva ancora a render conto della poesia, dell’arte e della metafora terapeutica, ma è una cornice necessaria: dobbiamo considerare la metafora come un’attività non (necessariamente) cosciente e finalizzata. E soprattutto che non è appannaggio di qualche categoria di persone creative, ma è una forma del pensiero.
P.S.: ah, vi avevo proposto di contare le metafore contenute in questo articolo. Ecco, io — a parte quelle usate come esempi, naturalmente — ne ho trovate una cinquantina e poi mi sono perso. Dunque consideratelo un conto ampiamente sottostimato. E “ampiamente” è una metafora: lo vedete? Non c’è niente da fare, non se ne esce. E anche “non se ne esce” è una metafora, e insomma siamo in un loop e allora meglio chiuderla qui. (E anche “chiuderla” ecc. ecc.).




