Grazie di cuore a Laura Benedetti, docente della Georgetown University di Washington, che ha reso possibile a L’Aquila – il 4 e il 5 giugno 2010 – il convegno “Dopo la caduta. Memoria e futuro”.
Quello che segue è il testo del mio intervento, tenuto il pomeriggio di sabato 5 giugno (che qui ricostruisco grazie agli appunti e alla memoria). Chi volesse, può sfogliare la presentazione in Power Point qui di seguito. Grazie a tutti quelli che c’erano e a quelli che vorranno leggerlo.
Come ha detto chi mi ha presentato, sono psicologo; e in quanto tale, la mia materia sono le relazioni interpersonali; così mi interessa il modo in cui Internet, la grande rete “orizzontale”, riconfigura le relazioni fra le persone e – privilegiando la dimensione orizzontale a quella verticale – fra esse e il potere: ad esempio, il potere di informare. Dal 6 aprile dell’anno scorso mi interessa dunque osservare il modo in cui il terremoto è entrato in Internet, e il modo in cui Internet è entrata nel terremoto.
Dopo la sciagura, L’Aquila è diventata laboratorio di alcune rivoluzioni: parte di queste rumorose ed evidenti, altre più silenziose.
– Certamente la città è stata un laboratorio di un modello di intervento. Una tragedia sociale, culturale, identitaria è stata ridotta a problema edilizio: gran parte della popolazione è stata allontanata da casa per molti mesi (moltissimi sono tuttora lontani) per poter organizzare soluzioni quasi definitive che cambiano radicalmente e irreversibilmente il volto della città e di un territorio.
– Più silenziosamente, è stata il laboratorio di un nuovo vocabolario politico. Una rivoluzione discreta ma dall’impatto importante. Le vecchie categorie di “consenso” e “dissenso” hanno lasciato il posto a “gratitudine” e “ingratitudine”, tanto da ribaltare il rapporto fra cittadini e politica. Se la posizione dei cittadini è connotata in senso morale, non sono più soltanto questi che valutano e giudicano i politici, ma sempre più spesso anche viceversa.
– Infine, L’Aquila si è trovata al centro di una rivoluzione importante, alla quale sono stati dedicati alcuni titoli di giornali nelle prime ore (sul “primo terremoto di internet”: sull’informazione, sulle foto del terremoti, sugli appelli per gli sms da un euro…), ma di cui si è ben presto rinunciato a valutare la portata, anche in termini di democrazia.

Voglio illustrare questo passaggio con una foto scelta da una serie di scatti della fotografa romana Sara De Vita, che è stata anche lei protagonista di uno sguardo da internet su L’Aquila: nei suoi scatti le fratture della terra sono in continuità con le fratture dell’anima, gli squarci dei muri con gli squarci autobiografici. E anche la Rete, essendo il luogo delle connessioni (quando navighiamo mettiamo in connessione dei testi; e per farlo dobbiamo saltare al di là di distanze e separazioni fra storie e testi) lo è anche delle discontinuità; delle continuità come delle fratture. Forse anche per questo è diventata il luogo ideale per raccontare il terremoto.
Da parecchio tempo penso a L’Aquila come a una città ipertestuale. L’Aquila è stata disegnata anche dai terremoti, dalle sue fratture. L’impressione che avevo sin da bambino nell’entrare nella Basilica di S. Maria di Collemaggio, metà tardomedievale, metà barocca, era che in quella frattura c’era il link fra due storie, fra due mondi.
Una donna che vedo nel mio studio mi ha detto giorni fa, verso il termine di un periodo trascorso a conversare con me della sua vita: “ho deciso che voglio trovare un’estetica della cicatrice”. Le persone cercano spesso un modo di cancellare le cicatrici, e con esse il ricordo di una ferita. L’Aquila nella sua storia ha trovato un’estetica della cicatrice, ha dato un senso alle proprie fratture e a volte è riuscita a farne la cifra della sua bellezza.
Forse per questo L’Aquila è Internet si sono capite da subito. Si sono riconosciute.
Da allora per molti mesi i blog sono diventati una rete informativa che racconta il terremoto dall’interno.
Quando il paese non capiva la reale portata dell’accaduto, perché non capiva la peculiarità di una città come L’Aquila, con un centro storico abitato e vissuto, con centinaia di ettari di arte che andavano in polvere, quando c’era da rendere conto delle differenze dei punti di vista sul G8 a L’Aquila, la rete suppliva all’incomprensione dei media con una narrazione quotidiana e da dentro degli eventi dal 6 aprile in poi. Questo grazie a persone che hanno avvertito come un proprio dovere quello di scrivere la loro verità: il dovere di testimoniare voci che rischiavano di restare marginalizzate. E grazie alla rete e ai social network che – diversamente, ad esempio, dalla tv – favoriscono una comunicazione bidirezionale e “da molti a molti”.
Così la rete è stata insostituibile nel garantire una informazione alternativa a quella che arrivava dai grandi mezzi di comunicazione; nel conservare in qualche modo, mentre la gente veniva sparpagliata lontano dalla propria terra, la coesione di alcune fasce della popolazione (per lo meno, quelle più avvezze all’uso del computer); nel permettere a tanti di coordinare tavoli di discussione virtuali e iniziative di partecipazione che mai, data la condizione di disgregazione dele comunità, sarebbero state possibili senza Internet. Ma non è tutto.
Tutte queste voci, insieme, hanno scritto – scrivono tutti i giorni – una narrazione collettiva: ma per far emergere questa voce collettiva c’è bisogno dell’intervento umano, un intervento creativo.
Come quello del collettivo di “Animammersa”: dalle narrazioni on line, insieme a materiale originale e altro tradizionale, nascono uno spettacolo e un cd. “Animammersa” è un esempio di narrazione collettiva, di aggregazione di punti di vista e storie per far emergere una storia polifonica sulla città e sul terremoto. Internet e la musica popolare si incontrano nella loro comune vocazione a raccontare la realtà da dentro, dalla voce di chi c’era, senza chiedere il permesso, come dicevo qui.
Mi interessa dunque approfondire il tema dell’intelligenza collettiva che emerge da questa storia raccontata in rete.
Per farlo, mi appoggio al pensiero di Pierre Lévy (1994), un filosofo che ha contribuito in misura notevole a spiegarci il virtuale e la rete.

Un collettivo è un “noi”: e un problema di difficile soluzione per la filosofia politica è a quali condizioni si possa dire “noi” a pieno diritto e cosa si perda dicendo “noi”.
Perché il prezzo del dire “noi” è quello di rinunciare alla ricchezza delle sfumature, di mascherare le differenze, di non tener conto dell’unicità di ciascuna persona.
Dunque, la sfida per un collettivo che possa legittimamente dire “noi” è quella di rispettare le differenze al proprio interno, di non sovrastare l’identità e il punto di vista dei singoli in nome del collettivo stesso, di una parola d’ordine.
L’esperienza di OUT Facebook di Ibridamenti vuole far emergere una intelligenza collettiva attraverso l’aggregazione del flusso delle informazioni contenuto negli status di Facebook. Clicca per leggere “Il terremoto versione Facebook” su Ibridamenti o su questo blog.
Fino ad oggi il “mediatore” del gruppo era un soggetto che il suo ruolo ha posto in una condizione di “superuomo”. Un re, un capo di stato, un divo, un eroe.
“Nell’agorà virtuale il mediatore è uno strumento elettronico nelle mani di migliaia di persone. Questo genere di democrazia è un gioco dove vincono i più collaborativi, quelli che sanno mettersi in ascolto e produrre narrazioni che abbiano senso per gli altri, non quelli più abili a imporre il loro punto di vista, a impadronirsi del potere e a inquadrare masse anonime in categorie molari” (Pierre Lévy).
Il “noi” che emerge dalla narrazione collettiva del sisma è un “noi” che non rinuncia alle differenze e alle peculiarità dei singoli: la forza di questa narrazione collettiva viene dal fatto che ciascuna delle singole voci ha un nome, un cognome, una faccia, una storia.
In conclusione, vorrei raccontare una storia. È una storia antica, in realtà. Viene da Genesi XVIII e XIX, a cui Pierre Lévy dà una interessante interpretazione, come dire?, laica.
Dio vuole distruggere Sodoma, divenuta insieme a Gomorra simbolo di dissolutezza e violenza.
Abramo tratta col Signore la salvezza della città. Così gli domanda “se ci saranno soltanto cinquanta giusti in città, la distruggerai?”.
E lui: “no, per cinquanta giusti perdonerò tutta la città”.
Abramo capisce che c’è margine di trattativa: “e per quaranta?”
“Non la distruggerò per riguardo a quei quaranta”.
Abramo incalza: “scusa se ho l’ardire di insistere, ma per trenta giusti?”. “Anche trenta”.
La trattativa continua fino a venti, e poi dieci. Anche lì il Signore accetta: “non la distruggerò per riguardo a quei dieci”.
Qui succede una cosa importante, che fa dire a Lévy che quel giorno a Sodoma nasce l’idea di intelligenza collettiva: è interessante che la storia dell’intelligenza collettiva cominci proprio con una città da salvare dalla distruzione!
Sebbene Abramo sappia che Dio è in giornata buona, sebbene abbia capito che vuole stare al suo gioco, decide di non scendere oltre il numero di dieci: perché dieci, spiega Lévy, è un collettivo. Non cinque, non tre. Su tre uomini, prima o poi uno spicca e diventa famoso: ma dieci è l’inizio di un collettivo!
Solo un collettivo salverà la città dalla distruzione. Cos’è un collettivo? È un gruppo di persone che ascoltano e si ascoltano, che lavorano lontano dai riflettori con la mente rivolta alla comunità. Dove tutti sono importanti allo stesso modo e nessuno lavora per una gloria personale.
Poi, nonostante la fatica di Abramo, la situazione precipita.
Due angeli vanno in visita a Sodoma (i giusti non li trovi sui giornali; non sfilano fra ali di folla festante seguti dalle telecamere: devi andare a cercarli lì dove vivono e lavorano). Lot li ospita in casa sua e li rifocilla, ma nella notte un gruppo di cittadini va a casa di Lot e gli intima di consegnargli gli stranieri: vogliono abusarne. In tutti i modi Lot cerca di dissuadere i concittadini, propone loro persino di prendersi le sue figlie al posto degli ospiti!
Sodoma non si salva. Ne può aver combinate di tutti i colori, ma il peccato che infine la condanna è di aver rifiutato l’ospitalità agli stranieri, ai diversi.
Così Lot e la sua famiglia – la moglie, le figlie, i generi – possono solo cercare scampo nella fuga. Come arrivano a Zoar, su Sodoma si scatena la pioggia di fuoco e zolfo. E lì la moglie di Lot si volta a guardare. Subito dopo viene tramutata in una statua di sale.
Allora, se dovessi fare un augurio a L’Aquila, il mio sarebbe un augurio triplice:
– di essere una città intelligente, che confida nella sua intelligenza collettiva più che nell’intervento di un “superuomo”;
– che questa intelligenza la aiuti ad essere una città ospitale: verso l’altro, lo straniero, certo, ma anche verso il nuovo: verso la cognizione che, qualunque cosa questa città sarà, sarà anche un’altra cosa da prima;
– di avere il coraggio di non voltarsi indietro come fece la moglie di Lot. Di conservare, certo, la memoria della città di prima – com’era e dov’era – per farne una mappa per quella prossima ventura: ma di avere il coraggio e l’immaginazione per cominciare a sognare la città futura.




