Binario (triste e mercenario)
Massimo Schinco (psicologo e psicoterapeuta, www.massimoschinco.it)
Massimo Giuliani (psicologo e psicoterapeuta)
Gli autori e le stazioni
Noi abbiamo in comune diverse cose. Il nome di battesimo, certo. La professione, che ci ha portato a passare molte ore insieme nelle stesse aule e nelle stanze, e con grande intensità… jam session a margine di convegni scientifici ed avventure editoriali con alti e bassi da brivido. Una storica trasferta a Cracovia, nel 2014. E poi la passione per l’approccio estetico applicato alla terapia e al cambiamento, nonché un debole per la stessa marca di birra. E certamente abbiamo anche differenze, nel modo di vedere, pensare e “sentire”. Però, nella vita di ognuno dei due c’è una presenza comune talmente importante per cui tutte le differenze e i distinguo rimpiccioliscono fino quasi a sparire.
Il treno.
Se uno fa il mestiere che facciamo noi, e abita in luoghi come quelli in cui abitiamo noi, ovvero non precisamente in centro a una metropoli, sviluppa un rapporto intenso e duraturo con i treni. Sul treno passa veramente tante ore, con tutto quello che comporta prendere il treno in Italia, in termini di costi, insicurezza, disagi, senso di anacronistica sudditanza a un’autorità che non si cura di te e spesso ti beffa. E ci sono pure problemi igienici e di sicurezza personale. È inutile girarci intorno, purtroppo è così, e negli anni non è migliorato, è peggiorato.
Comunque sia, se non è guasto o non è temporaneamente fermo per la salita e la discesa dei viaggiatori, per la pulizia e la manutenzione, in re ipsa il treno è un mezzo in movimento. Ma per poter rimanere se stesso e adempiere alla sua funzione il treno ha bisogno di mezzi statici, che infatti si chiamano stazioni.
Le stazioni sono uno degli aspetti della vita ferroviaria in cui il peggioramento sopra accennato si avverte in modo evidente. Noi sosteniamo che non si tratta solo di un peggioramento all’interno di premesse che sarebbero giuste in se stesse. Si tratta di una distorsione delle premesse di fondo, tale per cui la qualità dell’attuale permanenza in stazione si configura come un sintomo, un sintomo di una patologia grave e di portata eco-sistemica, che non riguarda solo le stazioni. Riguarda ciò che c’è là fuori, prima e dopo, tutt’intorno alle stazioni. E anche se abbiamo iniziato scherzando, perché nonostante le migliaia di ore passate in treno e in stazione non abbiamo perso l’allegria, ora non scherziamo più. Parliamo seriamente di cose gravi.
Sorvoliamo per un momento sulle differenze tra stazioni grandi e stazioni piccole, su cui ritorneremo più in là. Prendiamo come esempio una stazione medio-grande. Intanto è divisa in due, da un punto di vista esistenziale e umano.
Siamo tutti “smart”
Andiamo ad esempio nel nocciolo duro, ovvero la zona in cui la gente dovrebbe sostare in attesa dell’arrivo di un treno. Magari la sosta è lunga, perché si tratta di una coincidenza (non di rado perduta) fra un treno e l’altro. In questo luogo la gratuità è quasi inesistente. L’unica cosa che puoi fare gratis, nella maggior parte dei casi dipendente dal fatto che, comunque, hai acquistato almeno un biglietto ferroviario, è sostare in piedi. Panche e sedie sono solitamente del tutto insufficienti. Le sale d’attesa non esistono più. Le fontanelle non esistono più. Fare pipì (o anche un bisogno più grosso, può succedere) costa almeno un euro. Se il telefono è scarico, non puoi ricaricarlo. Beh, con un macchinoso sistema di password, username e sms di controllo ti registri al wifi gratis. Ma intorno a te esistono solo esercizi commerciali. Bar, caffè, luoghi di ristorazione, negozi. Magari la libreria ammette che tu possa sederti un po’ senza comprare nulla, bontà sua. Infatti ci vanno in tanti. Per il resto tu esisti se spendi dei soldi. In questo luogo la gratuità è quasi inesistente. L’unica cosa che puoi fare gratis, nella maggior parte dei casi dipendente dal fatto che, comunque, hai acquistato almeno un biglietto ferroviario, è sostare in piedi. Panche e sedie sono solitamente del tutto insufficienti. Le sale d’attesa non esistono più. Le fontanelle non esistono più. Oppure se hai a disposizione una qualche carta che ti certifica come membro di una élite di viaggiatori privilegiati: se hai un biglietto piuttosto costoso, puoi entrare in un salottino con divani imbottiti; se sei titolare di una card, che si conquista attraverso una quantità cosiddetta “qualificante” di chilometri percorsi, accedi a quello accanto che ha persino le prese della corrente. Uno di noi, avendo superato i sessant’anni, ha una di quelle carte, però non entra lo stesso nella saletta riservata, l’età non basta a garantire l’accesso. Cioè, non ti siedi perché hai bisogno di sederti, ma perché sei un cliente fedele e possibilmente abbiente. Comunque, prima o poi, per disperazione qualche soldo lo spendi, perché l’essere umano ha bisogno di conforto, foss’anche un caffè o una scatolina di tic-tac.
Non ce l’abbiamo con il fatto che in stazione ci siano negozi ed esercizi commerciali. Anzi, meno male che ci sono. Non è bene però che ci siano solo quelli, perché se un eccesso diventa sistema, vuol dire che la norma è stata ritarata, magari nella inconsapevolezza dei più.
È la norma è diventata che ormai, o sei “smart” o non sei.
E “smart” ha preso un senso peggiorativo: furbetto, sempre con i soldi in tasca, capace di predare e pronto a passare per primo tutte le volte che si può. Naturalmente, come in algebra, davanti a tutto ciò si può mettere anche il segno meno. Ci spostiamo verso strati più esterni della stazione, frequentati da una popolazione che il politicamente corretto non l’ha mai conosciuto o se l’è scordato da tempo. Per cui, la gratuità e il diritto di sostare se li ripigliano più per forza che per amore. E qualcuno tra loro anche a spese del tuo portafogli, se non stai attento. Questi però, non avendo o quasi mezzi economici, per qualcuno non dovrebbero proprio esistere. Ci chiediamo però se una simile bramosia di far sparire, alimentata strumentalizzando paure, disagi e indignazione che hanno anche aspetti legittimi, in fondo non obbedisca alla stessa logica applicata a chi ha, pochi o tanti, dei soldi in più: se non hai soldi da spendere non ti vogliamo vedere. A molti verrà subito in mente l’episodio recente che ha visto come teatro la principale stazione milanese, ma su questo torneremo brevemente in chiusura. Per ora guardiamo l’ordinaria quotidianità dell’ordine pubblico: ci sono i soldati armati fino ai denti, c’è la polizia. Qualche volta queste presenze allarmano, soprattutto quando si intensificano repentinamente (e ci si chiede che cosa stia per succedere), altre volte tranquillizzano, perché grazie a loro il viaggiatore è meno esposto a molestie e borseggi, per non parlare di borse e pacchi bomba. Peraltro, l’ambiente è stato già abbondantemente sterilizzato con l’introduzione dei controlli agli ingressi: in alcune delle stazioni maggiori per entrare nell’area dei binari bisogna esibire da qualche anno regolare titolo di viaggio. Si è persa traccia di alcuni regolari frequentatori della stazione, di cui chi prendeva treni abitualmente conosceva le facce e non solo, ma con loro si è persa anche traccia di parenti accompagnatori, di fidanzate in lacrime e di saluti dai finestrini a chi resta (come dice Ada Piselli qui).
In tutto questo, ci sono stazioni, che per scaramanzia non nominiamo, dove si accede liberamente al binario, ci sono ancora servizi igienici gratuiti, fontanine e sale d’aspetto. Ma scommetteremmo i biglietti della nostra prossima trasferta che non esisteranno ancora per molto.
Mondi paralleli
Tutto quello sfoggio di mezzi e tecnologia che caratterizza la parte commerciale delle stazioni a noi non pare avere sempre una effettiva utilità: sembra piuttosto una marca di contesto, un richiamo al lusso e insieme un mezzo per mantenere la tensione fra bisogno e soddisfazione, fra possibilità e impossibilità. Nella stazione di Roma Tiburtina una dozzina di video a parecchi pollici irradiano per tutto il giorno i notiziari di Sky Tg. In qualunque momento capiti di passarci davanti, non c’è un solo spettatore che segua le notizie. E dovrebbe seguirle in piedi, naturalmente: ti invitano a guardare la tv, ma non ti danno da sedere. Per tacere del fatto che, a fronte di questo largo sperpero di immagini digitali, i monitor che informano su orari, arrivi e partenze sono sempre più piccoli e rari.
La stessa stazione Roma Tiburtina mostra come tutto il sistema si distingua per una spiccata propensione alla comunicazione psicotica, o per lo meno alla reiterata confusione di messaggi e contesti. Dal piano dei negozi (la “Galleria Vetrata”) si accede ai binari attraverso scale piuttosto defilate e nascoste in angoli marginali e spogli: nella già netta divisione in due, questo è un chiaro segno della posizione gerarchica in cui sono posti la funzione che si presume principale della stazione e l’esigenza di chi la frequenta (cioè prendere il treno): che, per un tempo definito, lascia il suo status di viaggiatore e accetta quello — non richiesto — di consumatore. E lo accetta perché finché è consumatore, e abitante della dimensione commerciale della stazione, è assistito e indirizzato al soddisfacimento di tutte le sue necessità: quando invece entra nei panni di viandante, entra in una dimensione in cui lo spazio impazzisce e il disorientamento è la regola.
Quando raggiunge quegli accessi nascosti ai treni (che partono dal livello inferiore), trova coppie di scale mobili sovrastate da un cartello giallo che indica due binari: uno a sinistra, l’altro a destra. Inevitabilmente è indotto dal cartello a pensare che una scala scenda verso il primo, l’altra verso il secondo. E invece molti scoprono a proprie spese (dopo un capitombolo sulla scala mobile, per esempio) che tutt’e due le scale sono collegate allo stesso marciapiede e dunque a entrambi i binari, ma una va verso di essi (in discesa) e l’altra torna su. Così, il viaggiatore carico di bagagli che dovesse recarsi al binario di sinistra spesso sarà convinto dal cartello a scendere su una scala mobile che invece all’incontrario va, proprio come il treno dei desideri della canzone: cioè sale verso di lui! Basta appostarsi un’oretta a monte di quelle scale mobili per fare un calcolo di quanti incidenti, lievi se tutto va bene, tutto questo possa causare ogni giorno.
Basta appostarsi un’oretta a monte di quelle scale mobili per fare un calcolo di quanti incidenti, lievi se tutto va bene, tutto questo possa causare ogni giorno.La piaga della segnaletica incomprensibile è argomento familiare agli utenti della stazione di Bologna centrale. Con il nuovo terminal il mondo di chi viaggia in regionale e quello delle Frecce sono due universi finalmente separati e incomunicabili: il problema nasce se arrivi, per dire, da Piacenza e cerchi la coincidenza per Roma: scendi da un treno di pendolari e attraversi barriere spazio temporali fatte di cartelli incomprensibili e contraddittori per accedere alla dimensione più nobile dell’Alta Velocità. La distanza è notevole e la segnaletica folle: il risultato è che molto spesso perdi il treno successivo. Se invece arrivi in auto, il posto dove fermarsi per lasciar scendere il congiunto che si imbarca si chiama “Kiss and Ride”: chi di voi, leggendo il cartello con quel nome leggiadro pensa che quello è il punto in cui scaricare il figlio col trolley, e non un bar col toro meccanico?
Tempo per te
Un altro esempio preclaro di confusione di contesti è ben visibile ad esempio lungo i binari della Stazione centrale di Milano, dove la società Grandi Ferrovie affigge manifesti che ritraggono una giovane donna con l’aria trasognata nell’atto di sorseggiare un tè, con la didascalia: “Pensavo di prendere un treno, invece ho preso venti minuti per me”. Che è ovviamente un capolavoro di ricontestualizzazione attraverso il quale i ritardi dei treni diventano “tempo per sé”. Così come il sito di Roma Tiburtina si apre con lo slogan “un luogo da vivere”. Insomma: se i treni non sono più in grado di garantire quello a cui sono chiamati, cioè portarti da un posto all’altro in un tempo definito e prevedibile, se insomma non puoi liberare il tuo tempo dalle attese alla stazione, tanto vale portare il tuo tempo e la tua vita dentro le stazioni. Gli orari sono inattendibili? Che fortuna: hai una grande opportunità di berti qualcosa che costa il trenta per cento in più che fuori e di leggerti una rivista (in piedi), mentre sgomiti per consultare gli orari e i ritardi sui due piccoli monitor, giacché gli schermi giganti e quelli in capo ai binari ormai mandano solo pubblicità a rotazione. A proposito di schermi: se uno volesse ricavare informazioni sulla vera vocazione di quei posti, misurando il rapporto in metri quadrati fra le informazioni sui treni e quelle sui prodotti commerciali, il risultato sarebbe illuminante.
Parlando di Milano centrale: una volta arrivati alla stazione, raggiungere il binario richiede un tempo insolitamente lungo. Se hai davvero fretta, c’è la strettissima scala mobile che attraversa a metà la stazione; se sei in età gagliarda, ti fai a lunghe falcate lo scalone monumentale; altrimenti sistemi di scale mobili e tapis roulant che seguono la via più lunga fra due punti ti conducono in un ampio zig-zag fino al piano dei binari, ma solo dopo averti fatto passare davanti a tutti gli esercizi commerciali. Una volta avvicinato ai binari, poi, scopri che i vecchi ingressi sono quasi tutti chiusi: ora ci sono i “gate”, pochi accessi e sparuti nei quali, come dicevamo, si transita solo col biglietto in mano. Se arrivi coi secondi contati, devi sperare che la tua scala mobile ti lasci davanti a un “gate” funzionante; se invece arrivi con un certo anticipo, passi il tuo “gate”, ti separi dal mondo di fuori e puoi solo aggirarti per altri negozi ancora, dal momento che non c’è alcuna possibilità di attendere seduti.
Uno sforzo di umanizzazione è il pianoforte verticale ormai presente al centro delle più grandi stazioni: chi vuole, si siede e suona; chi lo desidera, si ferma e ascolta. E noi mai e poi mai protesteremo per la presenza di uno strumento musicale in un luogo pubblico: ma anche quello diventa un elemento standardizzato, ripetitivo e onnipresente, come i negozi in franchising e le vetrine tutte uguali da una città a un’altra. Anche quello partecipa alla progressiva serializzazione delle stazioni ferroviarie: in questo momento, anche quelle storiche, ospitate in edifici in stile, stanno subendo questo processo di assimilazione, tutte simili fra loro e simili a centri commerciali (non sono forse i centri commerciali l’ultima frontiera anche dei concerti pop?). Tutte “macchine per abitare” E poi ci sono le piccole stazioni. Spesso la biglietteria non c’è più, c’è la macchinetta. In alcune nemmeno quella. (per usare l’espressione di Marc Augé) dove il viaggiatore sbarcato in una città che non conosce si affida alle certezze del mercato e alle insegne che gli sono familiari, ma sperimenta in modo ancora più profondo l’anonimato e l’impossibilità di riconoscersi in un contesto.
E poi ci sono le piccole stazioni. Spesso la biglietteria non c’è più, c’è la macchinetta. In alcune nemmeno quella. C’è il bar, di solito, e qui le situazioni possono essere diverse. Uno di noi per anni ha frequentato intensamente una stazioncina piccola di campagna, per il semplice motivo che, da una certa ora in poi, parcheggiare dalle parti di quella del capoluogo è diventato praticamente impossibile o molto costoso. Beh, in quella stazione il bar è molto accogliente. Ti vendono il biglietto, il caffè è fatto bene, i panini sono grandi il doppio e costano quasi la metà. Siamo in campagna, e l’ospitalità è proverbiale. Una volta — faceva un freddo cane — il barista ha detto “aspetti pure qui, non è obbligato a consumare niente se non ne ha voglia”. È chiaro che il caffè lì lo prendi volentieri. Ma non sempre va così. Altrove, in centri piccoli ma già un po’ più grandi e di passaggio, la situazione è più tesa. Se vuoi usare la toilette c’è obbligo di consumazione oppure paghi un euro. Di nuovo, non ce l’abbiamo col gestore, che a gestire un bar ce la fa, ma a gestire un servizio sociale magari no. Perché in queste realtà di periferia, dove il treno è indispensabile (per esempio porta a scuola centinaia di ragazzi, che perderanno regolarmente la prima ora), la funzione sociale di presidio e salvaguardia di questi spazi necessari (dove un’insegna accesa può essere più efficace di una pattuglia che staziona) è affidata alla creatività di qualche privato: le Ferrovie dello Stato ne hanno affidato porzioni a gestori di bar o altro, che così hanno tenuto vivi lembi di centri abitati che altrimenti sarebbero diventati reperti archeologici a cielo aperto frequentati quotidianamente. E qualche volta ne hanno fatto centri di produzione di cultura e di iniziative sociali.
O di qua o di là
“Uno spazio per vivere” – dice il sito della grande stazione. Uno spazio sintomatico nel contesto di un sistema patogeno, diciamo noi. Sì, perché la vita in stazione ormai ha la struttura del sintomo, che afferma e nega nello stesso tempo. Afferma, anzi ostenta e celebra uno stile di vita fondato unilateralmente sul possesso, sulla competizione e sull’apparenza, negando quegli aspetti dell’umanità che sono caratterizzati dal bisogno, dalla stanchezza, dalla vulnerabilità, dalla paura, dall’urgenza degli affetti e dalle vicissitudini dei legami (eh già, viaggiando ci si separa e ci si ricongiunge, tra l’altro). Ma qualsiasi clinico, perfino un principiante, sa che queste negazioni non funzionano. Ciò che si butta fuori dalla porta rientra dalla finestra, e senza tanti complimenti. In un sistema, ci sarà sempre qualcuno che se ne farà carico, perché nessun aspetto dell’umanità, bello o brutto che sia, si lascia annullare impunemente. Fino a qualche tempo fa, questo ruolo toccava soprattutto a senza fissa dimora (i classici “barbùn” di Jannacci) e altre figure note di emarginati e perdenti. Ora è un fenomeno molto più vasto che coinvolge enormi masse di persone in movimento. Solo un accenno al recente blitz, con grande dispiegamento di mezzi, verificatosi di recente in stazione Centrale a Milano. Non è il luogo questo per aprire una lunga discussione. Ci sarà chi ne sottolineerà gli aspetti più legittimi legati all’ordine pubblico e all’igiene, e chi ne stigmatizzerà quelli più inquietanti legati, per esempio, al modo in cui le persone sono state trasferite; c’è chi dello spettacolo (eh già, purtroppo) che si è creato dirà che era inevitabile, e chi dirà che è stato voluto o enfatizzato. …ci va che le nostre stazioni, quel luogo di incontro fra persone che si spostano e fra umanità diverse, stiano diventando — coi loro confini, le loro barriere da attraversare, le loro separazioni — i luoghi della divisione fra chi ha la forza di stare al gioco e chi ne è tagliato fuori?E ci fermiamo qui, perché parliamo di confronti tra persone che ragionano. Ma appunto, ragionando: ci va che le nostre stazioni, quel luogo di incontro fra persone che si spostano e fra umanità diverse, stiano diventando — coi loro confini, le loro barriere da attraversare, le loro separazioni — i luoghi della divisione fra chi ha la forza di stare al gioco e chi ne è tagliato fuori? Sul serio pensiamo che l’umanità ritroverà giustizia, sicurezza, autenticità e salute agendo, in modo sensato o discutibile, giusto o sbagliato che sia, esclusivamente sugli aspetti più appariscenti di un sintomo — e contro chi ne è portatore? E continuando, nello stesso tempo, a rinforzare gli altri aspetti del sintomo, più “civili” certo, meno grezzi, più seducenti e con un odore migliore, ma forse per questo più subdoli ancora perché agiscono sott’acqua e dietro le tue spalle?
Intanto, la stazione è attraversata dai viaggiatori, come tutti alle prese con l’esigenza di mettere d’accordo dentro di sé, o perlomeno non troppo in disaccordo, le varie istanze e aree della loro vita: quelle legate al possesso e quelle legate alla condivisione, quelle legate alla tutela di sé e dei propri cari e quelle legate all’accoglienza, quelle legate alla riuscita e al successo e quelle fatte di sconfitta, debolezza e vulnerabilità. Si è in tanti, viene da pensare che sarebbe naturale trovare nel vicino, magari proprio in quello che non conosci, un possibile compagno di strada con cui dialogare, passare il tempo, confrontarsi e sostenersi un po’ a vicenda. I pendolari, che viaggiando tutti i giorni si conoscono tra loro, si riuniscono in gruppetti e compagnie che durano, dove conflitti, inclusioni e esclusioni lasciano tracce durature e profonde. Gli studenti si raggruppano per affinità. Ma il contesto non aiuta, anzi ostacola, e i più rimangono soli, cercando conforto in quel tanto di vicinanza che i contatti dello smartphone possono assicurare.
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