psicoemergenzaGiovedì 27 aprile 2017 ho partecipato al workshop su “Terremoti e salute mentale: dall’impatto alla ricostruzione” (clicca sulla locandina) organizzato dall’Unità di Psicologia dell’Emergenza dell’Università Cattolica di Milano. Ringrazio il prof. Fabio Sbattella, che mi ha invitato a partecipare per via del lavoro che ho svolto sulle narrazioni online del terremoto dell’Aquila. Nell’occasione ripubblico qui un articolo del 2012 su un progetto che realizzammo l’Associazione Animammersa e io a L’Aquila tre anni dopo il terremoto.

L’articolo uscì allora sul numero Autunno 2012 di “La parola e la cura”, rivista dell’Istituto Change di Torino (le annate pubblicate si trovano qui). Ringrazio Silvana Quadrino e Giorgio Bert che all’epoca mi chiesero questo contributo per un numero dal titolo “Il counselling: conversazione, narrazione, scoperta”. Scelsi questa esperienza per il mio contributo proprio perché nasceva da una sensibilità clinica ma esulava dal contesto di terapia.
(Naturalmente un pezzo scritto cinque anni prima, e per un supporto diverso, necessita sempre di un po’ di manutenzione: oltre a integrare nel testo o risolvere con link esterni le note a fondo pagina, ho apportato al testo qualche correzione marginale).

Il trauma e il racconto del futuro. 
Tecniche sistemico narrative in un contesto non terapeutico

Per chi ha vissuto un trauma collettivo poter raccontare il passato significa saldare la frattura provocata dall’evento traumatico. Ed è importante poter raccontare il presente, soprattutto quando la sofferenza subita viene negata da altri: curare le ferite richiede il loro riconoscimento e la presenza di testimoni che le vedano.
Racconto l’esperienza che segue – che si svolge a L’Aquila fra il marzo e il giugno 2012, tre anni dopo il terremoto – perché la immagino come un piccolo contributo a un dibattito sui modi in cui quel che abbiamo imparato a fare nella nostra pratica terapeutica può – nel rispetto dei contesti e senza autorizzare confusioni – suggerire delle idee per ascoltare la sofferenza laddove essa chieda accoglienza, sebbene la cornice non sia connotata come terapeutica e non sia richiesto di fare psicoterapia.
Dunque, la notte del 6 aprile 2009 L’Aquila fu colpita da una scossa sismica di 6.3 gradi Mw, l’ennesima di una serie iniziata oltre quattro mesi prima. La città e molti dei suoi borghi storici furono distrutti in gran parte. 309 persone morirono.
L’intervento della Protezione Civile sin dalle ore successive seguì princìpi radicalmente diversi da altri eventi simili (verrà citato spesso e impropriamente il Friuli come modello dell’intervento condotto a L’Aquila): mentre venivano allestite numerose tendopoli fuori dalla cinta dell’abitato, la città e i centri distrutti (circa settantamila i cittadini coinvolti) furono totalmente evacuati. Il capoluogo fu posto sotto controllo militare. La parte della popolazione che non fu ospitata nelle tende fu distribuita negli alberghi fuori provincia, perlopiù al mare.
Intanto l’esteso centro storico dell’Aquila (il cuore della vita cittadina con i suoi tre ettari di monumenti ed edifici di valore storico e artistico) era interdetto alla gente e si sbriciolava per effetto delle intemperie e dell’abbandono.La priorità non fu mettere mano alle case crollate, ma edificare diciannove new town su aree verdi a decine di chilometri fra loro e dalla città: stranianti non-luoghi senza servizi, con le vie intitolate ai cantautori, che avrebbero ospitato quasi quindicimila terremotati. Intanto l’esteso centro storico dell’Aquila (il cuore della vita cittadina con i suoi tre ettari di monumenti ed edifici di valore storico e artistico) era interdetto alla gente e si sbriciolava per effetto delle intemperie e dell’abbandono. La cattedrale, scoperchiata, si riempiva di neve d’inverno. Gli affreschi delle numerose chiese antiche si scioglievano mescolandosi con la polvere e la pioggia. Una quantità di opere d’arte e di testimonianze storiche spariva per sempre.
Sette mesi di tenda piegarono fisicamente e psicologicamente buona parte dei cittadini. Per molti altri la vita in hotel lontani dalla città durò per buona parte degli anni successivi. Molti rimasero senza lavoro e altri, per conservarlo, affrontarono viaggi quotidiani dalla costa al capoluogo e ritorno. Una gran parte degli esercizi commerciali chiuse. Qua e la, crepe si aprivano anche fra gli aquilani che erano rimasti in tenda e quelli che avevano ricevuto ospitalità al mare.
La depressione diffusa (medici di famiglia e psichiatri la stimarono aumentata del 70%) trovò risposta soprattutto farmacologica.
In tutto questo, l’associazione Animammersa portava in giro un lavoro teatrale (nato nelle tendopoli e cresciuto nelle piazze e nei teatri d’Abruzzo e d’Italia) dal titolo “Lettere dall’Aquila” in collaborazione col gruppo di musica antica Il Passagallo. Lo spettacolo intesseva musica tradizionale e testi narrativi pubblicati in Internet – talvolta riveduti per la dimensione teatrale – in un grande racconto collettivo della scossa.

La gente dell’Aquila che partecipava allo spettacolo scopriva che dall’isolamento si poteva uscire sperimentando che la propria storia era la storia di tanti. Non solo: vedere la propria angoscia rappresentata sul palco aveva l’effetto di una grande esternalizzazione del dolore, che permetteva di metterlo a distanza, guardarlo e addomesticarlo, e anche sentirlo condiviso. Quello spettacolo ebbe una parte importante nel preservare un senso di comunità e di appartenenza.
Alla fine del 2011 Animammersa (Patrizia Bernardi e Antonella Cocciante, attrici, Rita Biamonti, drammaturga, Maria Luisa Serripierro, responsabile della comunicazione del gruppo) mi propose di lavorare a un progetto comune – col patrocinio del Comune e della Provincia dell’Aquila – che vedesse al centro un gruppo di donne aquilane e facesse emergere nuove storie.

anime

Prima ancora di domandarci in che modo gente di teatro e un terapeuta potessero mettere insieme le rispettive risorse, partimmo dal presupposto che c’erano dei buoni motivi per farlo. Come se la nostra comune pratica in qualche arte di “costruire mondi” potesse dire qualcosa di interessante proprio dove c’era da costruire e da ricostruire. Ci interessava capire in che modo la capacità di narrare di Animammersa potesse diventare cura (diventarlo ancora una volta: perché nella dimensione curativa del racconto il gruppo si muoveva dagli inizi) e la mia esperienza nella cura – nel condurre una conversazione in cui le domande generano nuove domande, le ipotesi partoriscono nuove ipotesi – mettersi al servizio di un racconto.
La gente dell’Aquila che partecipava allo spettacolo scopriva che dall’isolamento si poteva uscire sperimentando che la propria storia era la storia di tanti. Non solo: vedere la propria angoscia rappresentata sul palco aveva l’effetto di una grande esternalizzazione del dolore, che permetteva di metterlo a distanza, guardarlo e addomesticarloCi siamo convinti che, dopo che anche grazie ad Animammersa – e ai blog, ai social network, ai libri – il passato e il presente erano stati ampiamente raccontati, fosse il momento di raccontare il futuro. Futuro che nelle conversazioni delle persone era spesso un buco nero: il ricordo della città che non c’era più e le difficoltà attuali della ricostruzione occupavano tutto lo spazio dei pensieri, diventavano una narrazione troppo ingombrante.

Nella pratica clinica sistemica siamo abituati a pensare che il tempo non è solo quella freccia che va dal passato al futuro passando per il presente: è anche quello psicologico, un anello ricorsivo in cui i tre tempi si influenzano fra loro. Certamente c’è un passato che costruisce i significati che attribuiamo al presente e al futuro, certamente esiste una condizione presente che influenza il modo in cui vediamo l’avvenire. Ma non poter immaginare un futuro – non possedere uno script per affrontarlo – determina in gran parte il carattere di irreversibilità che attribuiamo al trauma e il peso della sofferenza presente. Il senso di sé non è più legato all’essere soggetto della propria vita: la possibilità di gestire il mondo e gli eventi appare un’ingenua illusione.

Nel mio mestiere il futuro si introduce attraverso la conversazione e le domande: qui avremmo provato a farlo anche con la forza della messa in scena. Le partecipanti al gruppo sarebbero diventate autrici e personaggi di quel futuro. Un futuro non solo immaginato, ma presentificato in mezzo al cerchio. Chiamammo il progetto “Officina Futuro”: officina aiutava a pensare che il futuro non è qualcosa che arriva quando è il momento giusto. È anche qualcosa a cui si lavora prima.
Otto donne scelsero di partecipare: la proposta era di far parte di un gruppo per mettere in comune delle storie sul terremoto. La presenza di uno psicologo legittimava l’aspettativa di veder accolto qualunque grado di sofferenza. Venne spiegato al primo incontro che in ogni caso non si trattava diun gruppo di psicoterapia e che lo psicologo non si poneva come uno che sa dare risposte, semmai come uno che ha una certa esperienza nel fare domande. Questa premessa fu piuttosto tranquillizzante e generò curiosità.
officina-giulianiserriPer aiutare le partecipanti a distanziarsi dalla pesantezza delle macerie e del presente nell’arco degli incontri (dieci, settimanali), avremmo chiesto a ciascuna di inventarsi un personaggio. Un piccolo tavolo nella sede dell’Associazione “Ricostruiamo Insieme” che ci ospitava sarebbe diventato la panchina: un oggetto attorno al quale le persone passeggiano, sul quale si fermano a riposare, e a volte conversano. Sullo sfondo, una città del 2017: cinque anni dopo i nostri incontri.
L’emigrante, il giardiniere, la straniera, la “cacciatrice di automobili” (è un mestiere vero nato dopo il terremoto: una figura che gira per i paesi e i quartieri evacuati per censire le auto abbandonate o ricoperte di macerie e di erbacce), l’indecisa, la signora col cane, la single, la donna col coniglio, sono diventati gli avatar delle donne del gruppo. Le domande iniziali dello psicologo hanno contribuito a dotare di una storia ciascun personaggio: da dove viene l’emigrante, quanto tempo ha passato fuori, come vede il luogo dove è tornato? Cosa pensa la donna col coniglio, come vedono le persone questa specie di straniata Alice in un paese che di meraviglie ne offre ben poche? E perché la straniera si sente così arrabbiata con questa città tanto da sentirsi sempre, appunto, straniera? E quanto questa rabbia c’entra con la delusione (questa, in fondo, è la città che non ha saputo proteggerla dall’orrore)?
Abbiamo lavorato con un copione molto leggero, decidendo di volta in volta in che modo avremmo perturbato e provocato il gruppo.

Le donne del gruppo toccano con mano l’impossibilità (che non sempre era così consapevole) di vedere qualcosa di diverso dal trauma passato e dalle macerie del presente…Ad esempio una sera Rita e Antonella prendono in prestito il tassista di Victoria Station di Harold Pinter che dialoga col centralinista. Quest’ultimo gli chiede conto del rifiuto di effettuare una corsa, e quello resta nel vago, non sa come giustificare la sua insubordinazione. Già: perché non voglio andare? Allora la Londra di Pinter diventa la nostra città del 2017, e il tassista chiede aiuto al gruppo, che gli offre delle scuse: la città è chiusa, è buia. E perché è buia? Perché c’è stato un terremoto, l’hanno abbandonata. Nasce una storia in cui la città del 2017 non cessa di essere lei, la città ferita dal 2009! Le donne del gruppo toccano con mano l’impossibilità (che non sempre era così consapevole) di vedere qualcosa di diverso dal trauma passato e dalle macerie del presente, e cominciano a farci i conti.
Un’altra sera, mentre fingo di iniziare a fare domande al gruppo, irrompe nel cerchio una donna trafelata, con un vaso in mano: devo partire all’improvviso, dice. Non posso portare con me la mia pianta, vi ho viste da lontano e ho pensato che potevo fidarmi di voi. Lascia il vaso nelle mani della donna più vicina e si dilegua.
A quel punto il gruppo, sollecitato da me, comincia a fare ipotesi su quella donna che se n’è andata lasciando qualcosa di importante. Ne scaturisce un dialogo sullo stare e sull’andare, sul prendersi cura, su quel che ti trattiene in un luogo e quello che ti chiama altrove; sui limiti e le impotenze. E nel confrontarsi sulle emozioni di quella donna misteriosa, i personaggi del gruppo si dicono che c’è qualcosa nei sentimenti altrui che non è comprensibile né giudicabile.

Alla fine di Officina Futuro: conferenza stampa nel tendone in Piazza Duomo.
Conferenza conclusiva nel tendone in Piazza Duomo.
Foto Simona Iovane. Grazie a Donatella Mecchia.

Così, chi si sente dominato dalla nostalgia comincia a comprendere le ragioni di chi si sente tradito dalla città; chi è arrabbiato può a sua volta vedere la città attraverso il rimpianto degli altri e ammettere il proprio. Due anime emerse dal gruppo, che nel corso degli incontri si sono anche scontrate.
Lungo le dieci settimane le donne scoprono che le angosce sono condivise, e alla fine ci racconteranno come questa consapevolezza faccia sentire meno sole.

Dopo i dieci incontri alcune di loro ci diranno di come la costruzione della nostra storia sia stata una spinta per uscire di casa nella città buia. Di come il predisporsi a pensare al futuro abbia aperto uno spiraglio sulla possibilità che ne esista uno.
Ci diranno, anche, che riconoscere le proprie parole nel testo che Animammersa ha composto dalle conversazioni dei loro avatar, e letto davanti a un pubblico nella conferenza conclusiva del progetto (clicca per la brochure), è stato commovente: e che il loro dolore diventato creazione appare nobilitato e meno brutto.

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