[Leggi tutti i miei commenti ai film della rassegna “Luoghi, Ritorni, Appartenenze” organizzata dall’Associazione Animammersa]

Per il film di stasera siamo debitori del consiglio di una collega che si chiama Ada Piselli. Ada è una dei colleghi con cui condivido da tempo una riflessione sul rapporto fra le persone e i loro luoghi.  Con Ada, poi, ho conversato spesso su come alla sopravvivenza e alla rinascita dell’Aquila abbia giovato una forma di resistenza “artistica” (in particolare quelle che ho chiamato “strategie narrative di resistenza”). Tante persone dopo il 6 aprile hanno scritto, girato film, suonato e raccontato – in modi più o meno ispirati – la storia recente della città e quello che è accaduto alla sua comunità.

Proprio perché da un po’ di tempo vado pensando a quello che lega le persone e i luoghi, ho scoperto che una città è per le persone una specie di “pelle”. Una pelle è quello che circonda e chiude ma nello stesso tempo mette in comunicazione con l’esterno. Come persone abbiamo una pelle individuale, e come comunità una pelle collettiva. La città, le sue mura, sono la nostra pelle collettiva che racchiude un “noi”, le nostre appartenenze.

Anche questo film, come quello di ieri sera, è un film su persone che “ci tengono”. Jimmy e Ernie, all’inizio, devono decidere cosa conta veramente: in un momento in cui è necessario tirare la cinghia, la banda fa parte delle cose essenziali o no? Dare ascolto alle mogli e chiudere con la musica, o restare (tanto più che è appena entrata nel gruppo la giovane Gloria Mullins)?
Sono tante le cose che contano, e alcune sono vitali: la miniera sta per chiudere e questo cambierà la vita dell’intera cittadina di Grimley. I minatori sono chiamati a votare: rinunciare alla miniera, accettare l’indennizzo della proprietà e stare al caldo per un po’, o accettare che venga sottoposta a una severa valutazione della produttività e augurarsi che venga tenuta aperta?
Il vecchio Alvin di “Straight Story” partiva perché aveva qualcosa di importante da salvare lontano da casa. Qua ci sono i lavoratori, che restano. Piantano tende, alzano la voce. Quello che devono difendere è la loro casa, la loro identità e la loro storia.
Dove “identità” non significa restare sempre uguali, che non sarebbe possibile, e nemmeno – come capita talvolta – è una rivendicazione di purezza che esclude qualcun altro: significa poter continuare a riconoscersi anche quando la realtà intorno cambia e noi stessi cambiamo. Continuiamo a pensare a noi stessi come a una continuità, anche se ci trasformiamo. Chi ne sa più di me mi assicura che c’è un tempo entro il quale sostituiamo ogni singola cellula del nostro corpo. Se è vero quello che mi hanno detto, quel tempo ammonta a circa sette anni. Significa che nessuno di noi, in questa stanza, è lo stesso che era la notte di quel 6 aprile: eppure possiamo continuare ad essere testimoni di quell’evento; e tutti siamo abbastanza certi di essere quelli di allora. È come se avessimo una pelle, che tiene dentro tutto questo cambiamento. Come se percepissimo che quello che cambia, cambia dentro un contenitore che rimane costante e affidabile. Un contenitore mentale, psicologico, che è fatto di storie, di luoghi, di relazioni, di tutti quegli elementi in cui ci riconosciamo e ci rispecchiamo.

Abbiamo un profondo bisogno di sentire che fra quello che siamo oggi e quello che eravamo ieri c’è continuità e identità. Di sapere che ci possiamo riconoscere, ecco.
E a proposito di riconoscersi: parlavamo ieri di personaggi che si riconoscono senza parlarsi. Ci sono delle condizioni in cui ci si guarda e ci si riconosce in qualche modo fratelli, senza bisogno di aggiungere altro. Quando Phil vede Danny tossire nero nel fazzoletto, capisce, è straziato ma non fa domande. E Danny sa che capisce, gli racconta la bugia che ha dovuto riparare la catena della bicicletta, ma lo sa. Il fantasma della pneumoconiosi è la minaccia della comunità che vive della miniera. Insieme alla miniera stessa, è quello in cui tutti si rispecchiano. In un certo senso, è la loro identità, o un tratto importante di quella. Un tratto cupo e spaventoso, senz’altro: e proprio nel peso di quella minaccia sulle loro vite i minatori trovano una ragione di vicinanza e di identificazione reciproca.
E anche la storia delle miniera è la loro identità: e lo è la lotta che tutti (almeno, questo sperano i protagonisti della storia…) conducono per salvare la loro fonte di reddito, quando il thatcherismo sta portando a conclusione la sua opera sistematica di smantellamento dell’industria del carbone.

Questo c’entra con le ragioni per cui Danny non ci sta a liquidare la banda dei minatori. È vero che ama troppo la musica per poter solo pensare di abbandonare, ma nello stesso tempo sente che proprio in un frangente così drammatico, la possibilità di continuare a suonare non può essere messa in discussione:

“Il vostro problema è che non avete orgoglio. E sapete cosa più di tutto rappresenta l’orgoglio, qui da noi? È questa dannata banda, ecco cos’è. Chiedetelo a chiunque. Potranno zittire i sindacati, zittire i lavoratori. Ma io vi dico una cosa: non riusciranno mai a zittire noi! Noi suoneremo. Più forte che mai!”

La banda è vitale, e non solo perché è un’opportunità di aggregazione e di amicizia.
La miniera potrà pure chiudere, ma non la sua banda: Danny difende la possibilità che i minatori di Grimley possano raccontare di sé anche un’altra storia. La cittadina si identifica tutta con la sua miniera. La miniera è inscindibile dalla sua identità: ma se è tutta la sua identità, ora che la miniera chiude l’unica storia che resta da raccontare è quella di una città morta. La banda è un’altra identità che si affianca alla prima. Ogni identità è una possibilità di sopravvivenza, e la banda è la possibilità che Grimley possa raccontare la storia di una città che crea e che resiste. Che quella della miniera e della sua fine non sia la “storia unica” di Grimley. Che le persone possano riconoscersi non solo nella tosse da pneumoconiosi, che – senza un’altra buona storia – rischia di restare l’unica eredità concreta di cent’anni di miniera.

Per una città produrre cultura, garantire la buona salute dell’arte e della creatività, è un modo di tenere aperte tante storie.
A L’Aquila le orchestre e i gruppi rock sono preziosi quasi quanto i cantieri. Animammersa è importante quanto le gru.
I manifesti dei concerti e degli spettacoli che non sono mai mancati lungo le vetrine del corso – sia quelle aperte che quelle impolverate – sono parte della ricostruzione.

Spero che da quello che so dicendo si capisca che i luoghi sono ben più che lo spazio nel quale succedono le cose che ci riguardano. Quando uso la metafora della pelle, voglio suggerire anche che essi fanno parte di noi in un modo più profondo e decisivo di quanto riusciamo a immaginare.
Citavo in un’altra occasione uno psicoanalista che suggerisce che, come noi diamo una forma alla città, anch’essa con la sua forma in qualche modoci modelli. Faceva l’esempio di Napoli e dei suoi mille cunicoli sotterranei (en passant faccio osservare quanto sia facile, parlando di quello che ci lega profondamene alle città, imbatterci in metafore del “profondo”: parlavamo di miniere, ora di gallerie: e sappiamo quanto la storia dell’Aquila sia segnata da quel che si muove nel suo sottosuolo). Quanto c’entrano quei chilometri di buchi, si domanda (da napoletano egli stesso), con la teatralità e la capacità di rappresentare, di dare forma all’informe, che conosciamo come inseparabile dalla cultura di quei luoghi?

Così, pensando a L’Aquila e a un suo tratto che ho sempre trovato quanto mai peculiare, mi sono domandato quanto contribuisca, quel tratto, a disegnare le persone. Mi riferisco al fatto che è una città costruita anche dai suoi terremoti, dove gli stili architettonici si affiancano uno all’altro a mostrare le fratture della storia. E così, pensando a quel che mi dicono ancora oggi tanti aquilani, che guardano alla città con amore ma anche con spiccato senso critico: quanto c’entra questa incredibile sovraesposizione alla differenza, all’imprevisto, alla discontinuità estetica, con la disponibilità al nuovo e alla creazione che caratterizza da sempre tanti che sono cresciuti qua e che si impegnano nelle varie forme della creatività? E magari: quanto questa sovraesposizione al nuovo e alla differenza agisce su un altro tratto che pure è tipico, quasi endemico, della provincia, cioè il rapporto non sempre sereno con la diversità e la novità?

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