di Ada Piselli e Massimo Giuliani

Questo è il testo della conversazione che Ada Piselli e io abbiamo tenuto al Convegno nazionale degli Allievi del Centro Milanese di Terapia della Famiglia lo scorso 20 novembre.

1dkwwn1dr-s-danielle-macinnesAda: la genitorialità, le relazioni genitori e figli, sono state fin dall’inizio oggetto di analisi e studio per la psicologia. I terapeuti di qualsiasi orientamento, ed i terapeuti familiari in un modo particolare, da sempre esplorano le relazioni familiari alla ricerca di significati, di storie, di identità.
Le persone che si rivolgono ai nostri studi si aspettano che prima o poi, quale che sia la questione che li ha portati in terapia, dovranno parlare anche della mamma.
L’atteggiamento della psicologia generale e della terapia è – fortunatamente – cambiato profondamente, abbandonando progressivamente le istanze lineari e deterministiche (un minuto di silenzio e contrizione per le madri schizofrenogeniche, coccodrillo, frigorifero…), che pure  tuttavia sopravvivono prepotentemente nella cultura popolare. Parlando con i genitori di bambini piccoli, si avverte una forte ansietà per tutte le scelte compiute per i figli, dai vaccini ai giocattoli, passando per il ciuccio (oh, il ciuccio!), come se da ogni singola ed isolata scelta dipendesse l’intero futuro benessere della creatura. Si assiste ad una parcellizzazione della genitorialità, che sembra non essere una relazione complessa, articolata nel tempo ed inserita in un contesto più ampio, quanto la somma algebrica di tante piccole decisioni, e tutte ovviamente devono essere “giuste”.  E se è vero che quando incontriamo in terapia famiglie con bambini piccoli facciamo domande sul ciuccio, sul pannolino, sul linguaggio e sulla nanna, quando incontriamo adolescenti o giovani adulti quelle questioni diventano molto meno rilevanti, perché osserviamo una vicenda più ampia, più complessa, in cui le decisioni prese nella prima infanzia sono solo un pezzo di una storia più grande. E ancora, come terapeuti, quando facciamo domande sulla nanna o sul linguaggio, probabilmente non ci interessa davvero sapere quante parole diceva il bambino a 2 anni, quanto piuttosto esplorare la relazione, ascoltare gli affetti, le aspettative, le preoccupazioni. E infine, quando facciamo domande su chi si è occupato del bambino o di chi gestisce le mattane del figlio adolescente dobbiamo avere molto chiari quali sono i nostri modelli, quelli a cui siamo affezionati, per non rischiare di veicolare inconsapevolmente anche noi modelli normativi. Insomma, le nostre devono rimanere domande legittime, aperte alle storie degli altri.
Osservare la relazione nel suo insieme implica quindi anche un altro livello di riflessione, che ci chiede di allargare il contesto dell’osservazione stessa e di riconoscere come noi ci collochiamo dentro a quello stesso contesto. Sulle relazioni genitoriali gravano praticamente sempre aspettative, premesse, norme di tipo familiare, culturale, sociale, spesso implicitamente considerate “universali” e “naturali”: una famiglia funziona così, e basta. E ciascun genitore risponde e si colloca rispetto a queste aspettative (a volte decisamente pressioni) come può e come sa, spesso inconsapevolmente: obbedisce senza sapere di obbedire, si ribella senza saperlo (ma ne avverte la fatica). La terapia può diventare il luogo per riconoscere queste premesse e per sviluppare con queste una relazione più consapevole e meno dolorosa.
Non tutti i terapeuti sono genitori, ma tutti sono figli.
Ed è proprio quando le cose ci sono più familiari che l’esercizio della consapevolezza, dell’interrogarsi sulle proprie premesse e sui propri pregiudizi diventa necessario, per non farci complici inconsapevoli di un sistema che assume premesse locali a norme universali, che prescrive comportamenti e buone prassi senza un’assunzione precisa di responsabilità.
Quello che abbiamo fatto in queste settimane è stato raccontarci storie, di terapie, ma non solo. E ci siamo fatti delle domande. Storie e domande su padri (e madri) che si connettono ricorsivamente con un contesto più ampio, che interrogano e da cui sono interrogate. Contesto in cui abitiamo tutti. Oggi vi raccontiamo un po’ di quelle storie.

Massimo: Qualche lustro fa cominciai a lavorare privatamente nella provincia lombarda. In particolare, una provincia la cui economia era esplosa in breve tempo in virtù di una progressiva industrializzazione, ma era nata col lavoro nei campi. Anche i modelli di vita familiare erano nati intorno al lavoro dei campi e si erano trasformati attraverso i ritmi dell’industria.
Già allora le richieste più frequenti venivano da coppie in crisi. Coppie con pochi anni di matrimonio, per di più.
nj0mcm6niki-caleb-jonesPer lo più queste coppie si sposavano e andavano a vivere nella cascina dove lui era nato e dove lavorava la terra del padre. Qualche volta quel padre non c’era più, e la nuova famiglia si appoggiava alla madre di lui. La giovane moglie spesso era casalinga e per gran parte della giornata aspettava il marito che lavorava fino al tramonto; se non lo era, ben presto avrebbe avuto un bambino che l’avrebbe tenuta in casa, a collaborare con la suocera per la cura della casa e del figlio stesso.
Succedeva che dopo due o tre anni di questa vita lei diceva a lui: “senti, è tutto molto bello qui e tua madre è tanto cara, ma quando ce ne andremo a stare in una casa nostra?” E lui cadeva delle nuvole: “che intendi per una casa nostra? Questa è casa nostra.”
A ciò si univa il fatto che lei vedeva lui magari poco attento alla cura del figlio e a lei, e molto più alla madre e ai fratelli.
Ho parlato finora di matrimonio: non è una generalizzazione politicamente scorretta. Che le coppie fossero regolarizzate in chiesa era un dato praticamente generale. Osservavo che anche pianificando un progetto di vita con un certo grado, diciamo, di irreversibilità e di vincolo, mai ai due era balenato in testa di confrontare i rispettivi modelli di famiglia e le rispettive visioni delle relazioni familiari.
Questo era molto esaltante per me, che ero all’inizio della carriera. Avevo l’impressione di essere testimone di un fenomeno sociale che si svolgeva proprio in quel momento sotto i miei occhi: il passaggio dalla cultura agricola della cascina a quella “urbana” dell’appartamento. Lui e lei venivano ciascuno da una delle due culture, in quella fase di transizione in cui esse coesistevano una accanto all’altra, e davano per scontate alcune idee che evidentemente non lo erano. Queste idee avevano a che fare soprattutto con i confini della famiglia: per lui, cresciuto nella famiglia allargata in cui il padre e gli zii condividevano la terra e gli animali, e i figli vivevano a contatto di gomito coi cugini, il segno di matita che scontornava la famiglia era molto più largo e inclusivo che per lei, cresciuta con mamma e papà nelle case popolari o in una villetta a schiera tirata su coi risparmi del lavoro in fabbrica.
Difficilmente trovavo situazioni speculari a questa: era il figlio maschio — il futuro padre — a portarsi appresso il copione del conservatore della tradizione e della continuità della famiglia.
Quegli uomini erano descritti dal proprie mogli come padri concreti e attenti ai beni materiali, attraverso i quali esercitavano la propria presenza in casa e per i figli. Ed effettivamente questo aveva pure un fondo di verità: erano spesso mariti e padri poco allenati a comunicare sulle proprie emozioni e ad usare il linguaggio dei sentimenti. Ma, ancora di più, direi che quegli uomini avevano una percezione del proprio ruolo come meno centrale. Che non era il padre che chiamiamo periferico: era un padre che si percepiva completamente dentro, ma dentro un sistema in cui la rilevanza dei membri gli uni per gli altri era distribuita su un’area più grande. Erano nati in famiglie policentriche e non nucleari, in cui i ruoli erano anche parzialmente intercambiabili e in cui nessuno era insostituibile. In cui, oltretutto, l’assenza da casa non era regolata dalla sirena della fabbrica e dagli orari contrattuali, ma dai cicli giorno – notte e dalle esigenze degli animali. Le donne, in casa, alle prese con la cura dei bambini piccoli, non potevano aspettare sera per avere il supporto dei mariti, e pertanto facevano tutto da sé.
Quei giovani padri, ad ogni modo, da una parte dovevano rispondere a una aspettativa che comprendevano e alla quale erano stati allevati, e dall’altra ad una che chiedeva loro tutto il contrario, cioè di considerarsi centrali. Oggi si direbbe che quello a cui assistevo era un conflitto fra modelli di “famiglia naturale”. Entrambi naturali, entrambi ovvi per chi ci era cresciuto dentro.
Quella mia osservazione riguardava un contesto molto circoscritto: ma credo che, semplicemente, quel contesto costituiva la possibilità di osservare quel processo in quei modi e in quel momento: quel processo, però, forse aveva implicazioni più ampie.
Leggo le conversazioni online sul congedo parentale degli uomini. Non mi aspettavo che la notizia fosse presa con tanto livore da una parte dei commentatori (anzi, delle commentatrici soprattutto): tanto quando è stata accolta con favore da altri. Commenti del tipo “in quel periodo il padre è inutile, è più una rottura che altro” oppure “in quel periodo ci deve pensare la madre” sono frequenti ed espressi con la rabbia di chi si ribella a qualche trappola dell’ennesima “casta”.
Il mio punto di vista è che, sebbene per ragioni di vario genere abbia più in simpatia provvedimenti che aprono possibilità rispetto a procedimenti che “obbligano”, alla fine — vincolo per vincolo — meglio il vincolo ad esserci che quello a non esserci.
Ancora, il mio punto di vista è che non c’è ragione per cui quella funzione così preziosa come il contatto con la pelle del neonato non possa essere condivisa dal padre; e non c’è ragione perché il padre non possa condividere, oltre al piacere, anche la responsabilità di esserci. E poi la presenza di un terzo fa da sfondo a ogni relazione duale: questo vale per il padre in confronto al rapporto madre – bambino così come per la madre per il rapporto padre – bambino.
Osservo però che questi padri se sono lontani vengono criticati, se sono vicini vengono scacciati. Dovunque stiano, non è mai il posto giusto.

Ada: Negli ultimi anni mi è capitato molto spesso di ricevere richieste di consulenze e terapie da parte di padri separati o divorziati, in difficoltà nella relazione con i figli pre-adolescenti. Alcune volte le consulenze avvenivano dopo separazioni turbolente o anche molto conflittuali, in cui i rapporti con i figli minori erano stati oggetto – tra gli oggetti – di aspre battaglie legali. Altre volte le separazioni erano state effettivamente consensuali, sia negli affetti che nei modi, eppure questi padri ugualmente avvertivano la necessità di un sostegno di tipo clinico per stare in relazione con i figli.
bi4szxgccam-giu-vicenteIn alcuni casi ho incontrato anche i figli e le ex mogli, sia in colloqui congiunti che separati, in percorsi che si sono evoluti in consulenze familiari vere e proprie. Questa è ovviamente la scelta di elezione per una terapeuta familiare, che tuttavia richiede un grande lavoro preparatorio prima, la costruzione di un contesto di fiducia e spesso la contrattazione di un armistizio legale.
Indipendentemente dal contesto e anche dalle caratteristiche sia dei matrimoni sia delle separazioni queste situazioni avevano un filo conduttore: i padri e i figli si sentivano estranei. Nonostante in quasi tutti i casi i padri avessero sempre vissuto a casa e nella maggior parte fossero anche stati descritti come padri “presenti” anche dalle ex mogli più risentite (a casa tutte le sere, spesso coinvolti ed attivi nella gestione domestica e magari anche nelle attività sportive dei bambini…), la relazione con i figli era avvertita e raccontata da tutti come “debole”.
Quasi tutti mi hanno raccontato, ad esempio, di non aver mai consumato un pasto da soli con i figli prima della separazione e di essere in difficoltà non tanto nella preparazione del cibo (il mito dell’uomo che non sa cuocere nemmeno un uovo sembra più una leggenda metropolitana), quanto nella gestione della conversazione: di cosa di parla a tavola con un alieno?
I figli pre-adolescenti spesso “agivano” questa estraneità, riproponendo copioni della vita familiare precedente la separazione, arrivando a rifiutare di incontrare il padre anche per lunghi periodi, senza spiegazioni: in seduta raccontavano episodi contraddittori e fumosi che avrebbero dovuto confermare che al padre non importava nulla di loro, spesso ripresi dalle narrazioni amareggiate delle madri e dei nonni. Ma alla fine restavano affetti sospesi e il timore di una intimità nuova e fredda: cosa vuole questo qui da me adesso? Si aspettavano spesso che questi padri facessero qualcosa in risposta, magari anche una mossa “dura”: sgridarli, punirli… Provocavano o cercavano di provocare una reazione, con risposte insolenti e comportamenti irritanti. Reazione che puntualmente non arrivava. I padri sembravano spaventati da questi figli, apparentemente così determinati nel rifiuto: in seduta non sapevano se descriverli come bambini capricciosi o adulti a cui chiedere un confronto in merito alle ragioni di tutti, oscillando tra la tentazione del pugno di ferro e quella dell’invito al dialogo. La relazione era comunque percepita come troppo fragile per reggere un conflitto esplicito. Lo scontro frontale veniva evitato con tutte le forze, o magari era dirottato sulle ex mogli, spesso accusate di non fare abbastanza per favorire la relazione o addirittura di ostacolarla.
Le madri dal canto loro mostravano sovente una buona dose di ambivalenza: il dispiacere ed il  risentimento per la separazione erano freschi, le querelle legali in sottofondo estenuanti e lunghe. Da una parte invitavano i figli ad un’obbedienza formale (“rispondi a papà”), dall’altra negavano qualsiasi coinvolgimento nella relazione tra il padre e i figli (“se la devono vedere loro”), in un rovesciamento e in una negazione della triadicità della relazione che spesso portava esiti molto dolorosi per tutti.
Sono situazioni che contengono un sacco di impliciti circa le funzioni genitoriali e quelle paterne in particolare. Sembra che ci siano un sacco di aspettative su cosa debba essere un padre prima nel contesto della famiglia unita nel matrimonio e poi dopo la separazione.
Sebbene molte cose siano cambiate a livello della coppia in direzione di una maggiore condivisione, la cura delle relazioni appare ancora in queste famiglie – ma non solo in queste – una prerogativa femminile molto forte, tramandata di generazione in generazione, e diventa un aspetto critico solo quando il contesto cambia in maniera radicale.
I padri possono anche preparare anche l’arrosto per cena, lavare i piatti e accompagnare i figli a calcio, in una gestione familiare moderna e complessa, ma le mamme chiedono come è andata a scuola, le mamme sanno i nomi degli amici e conoscono tutte le vicissitudini di bisticci e pacificazioni, le mamme sanno quanto è stato difficile imparare il corsivo o la tabellina del 7 (e naturalmente ricordano i nomi di tutte le maestre e le supplenti fino dall’asilo nido), le mamme sanno persino quali giochi della playstation e quale musica appassionano i figli.
Si potrebbe anche ipotizzare, fuori dal contesto della consulenza e forse anche di questa conversazione, che questa conformazione della relazione coniugale non sia estranea alla separazione: coppie con una forte condivisione degli aspetti pratici dell’esistenza, in grado di essere buone team per affrontare e risolvere i problemi, ma con una scarsa comunicazione affettiva e una cura unilaterale delle relazioni e delle emozioni. Non reggono.
Ascoltando le storie familiari di questi padri si incontrano “vecchi padri”, per dirla come Matteo Selvini, periferici ed assenti non tanto sul piano pratico (anche se in alcuni casi anche su quello), quanto su quello della relazione e del contatto. Madri presenti, in alcuni casi anche troppo, al limite dell’intrusività, che diventano poi spesso super-nonne, che quando la moglie/mamma non c’è intervengono in aiuto dei figli automaticamente per accudire i nipoti, perpetuando l’implicito che è meglio che ci sia una donna ad occuparsi dei piccoli. Ed infatti spesso questi padri separati ricorrono all’aiuto dei propri genitori nella prima fase della separazione e portano i figli a pranzo dai nonni, alimentando inconsapevolmente la distanza.
La separazione offre quindi un’occasione terribile, ma preziosa per costruire relazioni significative con i propri figli in contesti familiari in cui le funzioni paterne non comprendono e non contemplano gli aspetti relazionali ed affettivi.
A proposito di funzioni paterne. Sembra proprio che da questi padri, vecchi e nuovi, ci si aspetti comunque qualcosa di molto preciso: i padri devono in qualche modo dare degli strumenti per stare al mondo, sia pratici che psicologici.
edward-mani-di-forbice-vincent-price-999x561A questo proposito il lavoro del regista Tim Burton offre diversi spunti di riflessione: i suoi film sono pieni di padri che fanno o non fanno cose determinanti nella crescita dei figli. In “Edward mani di forbice” (1990) il padre/inventore amorevole muore prima di aver terminato le mani della sua creatura, “condannandolo” a ferirsi e ferire, in un dolore che non trova parole. Edward confonde l’approvazione con l’affetto, il desiderio con l’amore, suscita pietà, ma non compassione autentica, nelle donne e diffidenza negli uomini.
In “La fabbrica di cioccolato” alla figura del padre di Willy Wonka viene assegnato uno spazio ed una rilevanza maggiore che nel romanzo di Dahl o nella precedente versione cinematografica, con una connessione forte tra la mancata approvazione da parte del padre e la ricerca di un “erede” all’altezza delle aspettative.
I padri devono quindi dare mani in grado di fare senza ferire e dosare saggiamente regole e approvazione, per permettere ai figli di crescere, innamorarsi e diventare padri a loro volta.
“Big Fish” sembra invece raccontare un sottotesto diverso. Mostra un cambiamento molto forte nel figlio adulto (che sta per diventare padre a sua volta): dal rancore verso il padre che non ha avuto al riconoscimento pieno del padre che invece il protagonista è stato, comunque, a suo modo. Un’ipotesi, azzardatissima: a differenza di altri film di Burton qui c’è una madre. È una figura costante e discreta in tutta la narrazione del rapporto tra il padre ed il figlio, i protagonisti. Si può quindi pensare che qui la madre, con la capacità affettiva di entrare ed uscire da piani narrativi diversi, si sia posta sempre come lato del triangolo, senza conflitti di lealtà, proteggendo probabilmente il figlio dalla eccessiva follia del padre senza mai squalificarlo o tradirlo, anzi, restando sempre sua moglie e partner, tenendo insieme e dando profondità tutte le trame di questa famiglia.
Eccolo, il mio pregiudizio forte quando si parla di padri e di famiglie in generale.
Io cerco il terzo, sempre.
Così come Winnicott non vedeva il bambino come una monade isolata, allo stesso modo io fatico a vedere i padri senza i figli, e senza le madri.
Cerco la coppia (non la coppia tradizionale per forza, ma una coppia reale od immaginata la si incontra sempre), e con la coppia l’intreccio delle generazioni, e con le generazioni via via anche i contesti più ampi, fino a quello sociale.

Massimo: Se devo definire il mio pregiudizio, dunque, direi che ha a che fare con il cercare il contesto culturale.
C’è una storia che ho già raccontato da qualche parte. A volte mi cercano genitori preoccupati per qualche problema di rapporto coi figli. A volte la preoccupazione nasce per comportamenti aggressivi di questi ragazzi. In quel contesto di cui parlavo prima, quello della fabbrica che prende un po’ alla volta il posto dei campi, mi è capitato che questi problemi si presentassero con una frequenza più alta del solito. Un figlio che sfascia i mobili litigando con la madre, o la picchia addirittura, o ha comportamenti aggressivi verso gli insegnanti, o verso gli stranieri, o le donne.
Se lavori i campi, hai una ragionevole certezza di uscire da casa la mattina e trovarli ancora lì. Invece la fabbrica no. La fabbrica chiude. O delocalizza. O resta lì dov’è, ma fa fuori te. I periodi in cui quelle specifiche richieste d’aiuto si facevano più frequenti coincidevano con momenti, drammatici per la comunità e per le singole famiglie. In quei periodi i padri di quei ragazzi avevano perso il lavoro, o erano stati costretti a inventarsene un altro in proprio e avevano fallito, o si erano ritrovati con lavori alternativi e stipendi più bassi. Tutto questo costituiva una ferita profonda alla loro identità. Ne soffrivano in silenzio, si commuovevano parlandomene ma facevano in modo che non si vedesse troppo.
Quando penso a quei padri – al loro senso di rifiuto e di inutilità, a come si ritrovavano privati del proprio ruolo in società e in famiglia, della rete di relazioni che avevano intessuto nel mondo del lavoro – penso a un concetto che nel campo della psicologia sociale è stato teorizzato da Adriano Zamperini. Secondo Zamperini l’ostracismo è “…qualsiasi atto volto a ignorare, respingere e escludere individui o gruppi (…). In tal modo, coloro che, per diversi motivi, sono ostracizzati subiscono una dissociazione relazionale: vengono privati dei comuni contatti interpersonali, evitati e respinti ai margini dell’attenzione. Ampia è la letteratura scientifica che evidenzia quanto il nostro benessere dipenda dal sentirsi inclusi e accettati dagli altri. E come l’essere ostracizzati nei rapporti umani si traduca in una condizione gravida di sofferenza“.
6hrrvnnaz-a-nick-wilkesMi pareva che quei figli fossero profondamente sensibili all’ostracismo e alla sofferenza dei padri. Come se con la loro ribellione offrissero un modello differente ai propri arrendevoli genitori: “fai come me!”.
Quando i padri, nella loro perdita di status e di identità, si ritrovavano soggiogati dalle mogli, la violenza dei ragazzi sembrava a volte accompagnarsi a comportamenti aggressivi verso l’autorità del corpo insegnante, che era prevalentemente femminile.
In questo articolo ho provato a dare una chiave di lettura  del nuovo terrorismo urbano delle banlieue come risposta a un contesto che ostracizza i padri: quelli dell’esperienza migratoria degli anni 80-90 dai paesi africani e arabi. Vi invito a leggerlo per non dilungarmi qui.
Osservando quelle famiglie pensavo che quei padri fossero ostracizzati dal mondo del lavoro. Oggi penso lo fossero anche dalle norme sociali (e psicologiche!) che imponevano loro un modello rigido fuori dal quale non avevano altra possibilità che sentirsi falliti come adulti e come padri.

Ada: A proposito della questione delle famiglie vivono in un contesto agricolo e del conflitto cascina/appartamento o nucleo allargato/nucleo ristretto. Dalle mie parti c’è stato un prepotente ritorno alla campagna nelle ultime generazioni. In particolare perché campagna equivale a vino, quindi ad un prodotto che ha portato, negli ultimi 20 anni, un benessere diffuso in zone che prima erano quasi depresse e dunque ad un ritorno dei figli alle cascine. Al di là degli aspetti sociologici, che non ho gli strumenti per approfondire, c’è un aspetto che mi colpisce molto sul piano clinico.
Ricevo, e non credo di essere la sola, molte richieste di aiuto da parte di queste nuove famiglie rurali: si tratta spesso di giovani coppie, in cui il maschio ha studiato materie inerenti all’agraria o all’enologia ed è rimasto a lavorare nell’azienda agricola di famiglia e la compagna – quasi sempre moglie- ha invece un lavoro fuori casa. Spesso hanno bambini piccoli, in età prescolare. Chiedono una consulenza per questioni di coppia (a volte si parla già esplicitamente di separazione, altre volte di estrema litigiosità, difficoltà nella gestione dei figli…), ma poi il focus della conversazione  in terapia non è sulla coppia, quanto sulla famiglia di origine di lui e sulle vicissitudini dell’azienda agricola e su come queste si ripercuotano sulla vita familiare.
Come è noto, sono spesso aziende a conduzione familiare, con un impianto nominalmente e formalmente patriarcale, anche se poi le donne hanno ruoli attivi e di potere effettivo. I figli maschi, che hanno studiato, vorrebbero modificare le prassi dell’azienda mentre i padri (e pure le madri) vorrebbero proseguire nel solco della tradizione. L’aspetto interessante è che la conflittualità è quasi assente nel nucleo dell’azienda/famiglia, mentre è molto accesa nella coppia. I mariti portano a casa tutta la loro frustrazione, i loro dubbi: sono mariti e padri involontariamente periferici, perché assenti fisicamente molte ore presi dal lavoro e perché assorbiti da una battaglia per il riconoscimento dai loro genitori che lascia poche energie per altro. Le spose sembrano quasi dei sindacalisti: vedono i “torti” subiti – a loro dire – dai mariti sia sul piano professionale che su quello economico e li incitano a farsi le ragioni con i propri genitori, spesso arrivando a minacciare trasferimenti, separazioni, a chiedere cambi di lavoro, con esiti dolorosi e talvolta drammatici sulla vita delle famiglie.
La conflittualità qui non sembra tanto essere tra due modelli di famiglia, come nelle famiglie descritte da Massimo: i coniugi sembrano in sintonia sulle questioni relative alla coppia, alla gestione dei figli, alle scelte importanti. Il motivo del conflitto sembra essere piuttosto la regolazione dei rapporti non tanto con la famiglia di origine, quanto nella famiglia di origine.
Sembra che un pregiudizio diffuso sui rapporti tra i padri e i figli (specie maschi) sia che il conflitto sia inevitabile. I padri temono la ribellione dei figli come se fosse ineluttabile come la pubertà e talvolta cercano di prevenirla, con esiti disastrosi, i figli spesso proteggono i padri dalla loro ribellione portandola altrove.
Anche osservando i contesti allargati sembra che i modelli competitivi/conflittuali di lettura del reale godano di un maggiore successo di quelli cooperativi/dialogici. Dall’orda primordiale di Freud fino alle più recenti revisioni del mito di Ulisse e Telemaco (che, occorre ricordare, era figlio anche di Penelope), pare proprio che padri e figli adulti non possano cooperare, ma solo confliggere.
Le implicazioni di una simile premessa, specie se indiscussa ed implicitamente tramandata come fatto incontrovertibile, sono preoccupanti. Escludono completamente il terzo, sia a livello di relazione che a livello di contenuti. Le madri sono assenti nel racconto di questa conflittualità, al limite ne sono testimoni. Ma anche le posizioni mediane o cooperative sono escluse: uno vince e l’altro perde, nell’impossibilità di significare in termini evolutivi il conflitto stesso.

Massimo: Riparto in particolare da un punto che hai sottolineato.
Parli di un atteggiamento che è cambiato e che si è allontanato da visioni lineari e punitive, e di come queste visioni sopravvivono nella cultura popolare.
Me ne accorgo ancora di più nell’ultimo anno. Ho pubblicato l’anno scorso con Luca Casadio un libro che parla di madri. Promuovendo in giro questo libro, abbiamo incontrato donne, madri giovani e meno giovani, che ci dicevano che la prima impressione strana era quella generata da due uomini che parlavano di mamme. In alcuni casi questo generava sospetto e ostilità. L’impressione successiva era di sorpresa perché si aspettavano un libro che spiegasse come si fa la madre, e invece sentivano raccontare storie di madri diverse, in una cornice in cui tutte queste storie erano rispettate.
Un allievo mi raccontò di quando un’amica lo vide leggere questo libro. “Cosa leggi?”, gli domandò. “Madri”, rispose. E lei: “e perché lo leggi tu?”. Lui fu colto di sorpresa dalla domanda e riuscì soltanto a intimare bruscamente all’amica di attendere alle sue proprie occupazioni, diciamo. Tanto è radicata l’idea che la psicologia serva ad insegnare qualcosa alla gente. Un libro di psicologia sulla madri si legge per ricavarne insegnamenti su come fare la madre, no?
Mi colpisce sempre di più il successo mediatico di una psicologia imbronciata e normativa. Noi lo sappiamo che le cose non funzionano come dice quella psicologia. Cioè, qualche volta funzionano in quel modo, ma non è l’unico modo.
Ad esempio, pensavo a quelle famiglie di cui parlavo, quelle della cascina col padre che ara tutto il giorno. E mi domando dove sia nata la famosa semplificazione della madre che fornisce l’affetto e il padre le regole. Probabilmente da una psicologia nata in centro Europa dalla classe borghese, che guardava la realtà circostante e la scambiava per il mondo intero.
Quel modello vede la mamma passare la giornata ad abbracciare i figli e a fare i compiti con loro, e quando uno di loro sgarra, lei gli dice “quando torna il papà glielo dico”. Ma penso a mio padre che è cresciuto in una famiglia di un borgo del centro Italia. Se sua madre gli avesse detto qualche volta “quando torna tuo padre ne parliamo”, avrebbe dovuto aspettare anche quattro o cinque anni. Era una famiglia di emigranti, e la funzione paterna (quella che chiamiamo di solito “paterna”, dico: quella di fornire norme e di vigilare sul rispetto di esse) era svolta da una rete di persone, e non necessariamente tutti maschi. Eccola, la famiglia “tradizionale”! E per di più, forse, stiamo parlando di qualcosa che vogliamo immaginare separabile come un oggetto discreto (la “funzione paterna”) e che non sia mescolata con quell’altra. Di qua l’affetto, di là le regole.
Vedo in terapia una coppia che litiga spesso perché lei ricorda a lui che deve fare il padre, cioè dare le norme. L’altro giorno mi fa: “ieri sera a una conferenza questo dottore diceva che per educare i figli bisogna avere la stessa linea e pensare le stesse cose, perché i figli ci guardano e se non capiscono qual è la strada giusta si perdono. Poi vengo qua e mi viene da pensare che i nostri figli riescano a reggere bene il fatto che io e mio marito siamo diversi. Ma allora a chi credo? Non potreste mettervi d’accordo almeno fra di voi??”.
In effetti eravamo partiti da quell’idea che i genitori dovrebbero mettere i famosi “paletti”. Ma quei due genitori si sentivano paletti sbagliati perché erano paletti molto distanti. Allora abbiamo pensato che due paletti vicini segnano i lati di una strada certa; ma due paletti distanti come loro, invece, segnano i confini di uno spazio di esplorazione larghissimo. In questo c’è un costo e un vantaggio. Il costo è che non c’è una strada sicura buona per sempre, e dunque tocca accettare un certo grado costante di disorientamento. Il vantaggio, beh: vuoi mettere avere tutto quello spazio di sperimentazione di modi di essere? padre_e_hijo_14082006bycmeL’importante è che i paletti non li usino per darseli sulla testa. Quello sì, sarebbe difficile spiegarlo ai figli.
I figli ci guardano, è vero. Ma non ci guardano per sapere se in noi ritrovano quei modelli dei manuali.

Ada: Sui padri se ne dicono tante: che si sarebbero liquefatti, dissolti, evaporati. Che comunque siano passati da uno stato solido, col libro della legge in una mano ed il bastone nell’altra, ad uno meno definito, quasi gassoso, più sfumato nei ruoli, addirittura “troppo” materno, come se la cura degli affetti e delle relazioni implicasse una qualche forma di perdita di virilità. Ed infatti, non riuscendo a chiamarli padri, ci siamo inventati l’orrenda, terribile definizione di “mammo” per indicare quei padri che si occupano dei figli sia su un piano pratico che su quello affettivo.
Eppure, se uno guarda bene, sono sempre lì. Sono sempre stati lì, anche senza cinghia e libro delle regole e cesoie per separare i bambini dalle madri. Sono lì, confusi: da una parte richiamati costantemente a tutelare l’ordine e la disciplina, dall’altro invitati – timidamente, va detto – a connettersi con le proprie emozioni e ad usarle nelle relazioni. Come se regole ed affetti, ma anche autonomia ed indipendenza, appartenessero ad ordini distinti e separati, e non ad aspetti differenti ma connessi dell’esperienza umana.
Forse ad essere tramontate, liquefatte, evaporate sono delle narrazioni che si credevano e si desideravano universali intorno ai padri. Cristallizzate, rigide, forse talvolta anche ingannevoli.
Quando tramontano le narrazioni universali ci si sente un po’ persi. Eppure, il tramonto delle grandi storie permette l’emergere delle storie locali, più sfaccettate, meno stereotipate, più vere.

Massimo: Ecco, mi domando come potrebbe essere un modo di spostare l’attenzione dall’ossessione verso come i padri (e le madri) dovrebbero essere a quello che sono, al modo in cui le loro storie parlano ai figli. Perché spiegare le storie dei figli di padri ostracizzati come l’effetto della violazione del principio per cui i padri dovrebbero essere forti e normativi, non mi basta. Anzi, non mi piace proprio.
Ho l’impressione che non si consideri mai abbastanza come la felicità dei genitori, o la loro serenità, o la loro realizzazione, siano fattori protettivi nei confronti dei figli.
Ho talvolta il sospetto che certe volte le nostre stesse teorie, nella loro prescrittività non solo di cose da fare, ma di modi di essere, facciano sentire ostracizzate le persone; e che talvolta i genitori si sentano al margine di quel che è sano proprio dalle teorie di chi dovrebbe aiutarli.

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