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Roberto Pane

Questo è il testo della relazione “Locus Genii” che ho tenuto il 17 settembre 2016 al convegno “Memoria, bellezza e trans-disciplinarietà. Riflessioni sull’attualità di Roberto Pane” (al Monastero del Lavello di Calolziocorte). Il convegno era organizzato dal Dipartimento di Design del Politecnico di Milano e prendeva spunto dalla figura di Roberto Pane (1897-1987), architetto dalle idee oggi ancora fertili e necessarie.
Ringrazio la prof.ssa Anna Anzani del Politecnico di Milano, che ha voluto che dicessi la mia al convegno.
Ringrazio il dott. Carlo Di Stanislao, dermatologo e allergologo già presso l’ospedale San Salvatore dell’Aquila, per la cortesia con cui mi ha ascoltato e ha risposto alle mie domande, e la dott.ssa Tiziana Trapasso (medico aquilano, presso l’ospedale di Sora) per avermi aiutato a tessere contatti e a riordinare le informazioni.

 

Spero davvero che in questo incontro fra professioni differenti quello che ho da dire sia utile alla collaborazione fra chi si occupa di restauro e chi si occupa di psicologia. Lo spero, ma comunque andrà, dal canto mio mi porterò a casa un sacco di cose utili. Perché da una parte c’è il vostro bisogno di incontrare il sapere psicologico, ma anche dall’altra c’è qualcosa di cui invece noi abbiamo bisogno e che voi possedete.
Noi psicologi e terapeuti, secondo la definizione che vige da qualche anno in qua, siamo quelli che si occupano di storie. Delle storie diciamo comunemente che hanno luogo: eppure noi, dei luoghi, sappiamo ancora molto poco. Sul tempo, devo dire, abbiamo alcune buone idee, ma sui luoghi stiamo cominciando ora a raccoglierne.
sagrada-familia-antoni-gaudi_sfpassioStamattina ascoltavo la prof.ssa Crippa che raccontava come Roberto Pane fosse contrario alla continuazione dei lavori della Sagrada Familia: ho fatto un salto sulla sedia e ho pensato che dovevo capirne di più! Quando ho visitato la basilica di Antoni Gaudí a Barcellona ho vissuto l’esperienza unica non di una cosa finita, ma di un oggetto in evoluzione, costantemente incompiuto; e questo mi ha riportato ad alcune delle questioni che nella mia professione sono molto dibattute: ad esempio, il Sé, l’identità, dovremmo pensarli come cose, come essenze compiute, o piuttosto come processi? Ecco, allora non so quale pensiero ci fosse dietro alla presa di posizione di Pane sulla Sagrada Familia, ma quello che capisco è che è un pensiero che mi riguarda. E così penso che cercherò di approfondire la questione. Ma insomma, cresce l’impressione che noi e voi ci occupiamo di problemi simili.

Naturalmente fino a qualche tempo fa non sapevo nulla di Roberto Pane. Poi grazie a Anna Anzani ho letto questo articolo in cui Pane dichiarava la volontà di introdurre uno sguardo psicologico nella cura del territorio e dei luoghi, cercando lo spunto nell’immagine onirica junghiana della casa a più piani come metafora dei livelli di coscienza. Scrive Pane:

“…Dunque la coscienza è rappresentata dal salotto, con il suo aspetto di luogo abitato, mentre con il pianterreno ha inizio l’inconscio vero e proprio. Più sotto Jung trova, e qui cito le sue parole, «il mondo dell’uomo primitivo in me stesso»; e poi ancora: «fu la mia prima intuizione dell’esistenza nella psiche personale, di un a priori collettivo», nel quale egli riconobbe più tardi «quei modi di agire delle forme istintive, e cioè degli archetipi»”

Jung era piuttosto indispettito dal fatto che Freud, che conosceva quel sogno, insistesse a volerne interpretare dettagli che per lui erano del tutto secondari. Jung infatti era interessato piuttosto alla dimensione della profondità nella quale il sogno lo conduceva.
Peraltro non solo nel sogno notturno Jung cercò una connessione metaforica fra la casa e la psiche. Bollinger era la sua casa delle vacanze, ma anche il rifugio nel quale trovava le condizioni per scrivere e per pensare. Leggete cosa scriveva di Bollinger alla fine degli anni 50:

“(…) mi resi conto a un tratto che la piccola sezione centrale, così acquattata, così nascosta fra le due torri, rappresentava me stesso o il mio io. Perciò, in quell’anno stesso, aggiunsi a questa sezione un altro piano. Prima non avrei potuto farlo: l’avrei considerato una presuntuosa ed enfatica affermazione di me stesso; adesso invece rappresentava la superiorità della coscienza raggiunta con la vecchiaia.”

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Carl Gustav Jung a Bollingen

Guardate come il luogo e l’interiorità rispondono l’uno all’altra, come si identificano (in un senso forse ancora più radicale e più reciproco di quello in cui Norberg-Schulz parla di “identificarsi”).
Però Roberto Pane sentiva che la dimensione verticale era sì, utile a rappresentare la stratificazione storica, ma “per il più profondo occorre rinunziare alla verticalità dell’immagine simbolica e spostarsi, come dire, qua e là”. Sembra paradossale, cercare la profondità nello spazio di qua e di là, su una dimensione orizzontale.
Ad ogni modo, Pane non si imbatté nel pensiero di Gregory Bateson probabilmente anche perché non ne ebbe il tempo (la traduzione italiana delle opere dell’antropologo di origine inglese arrivarono tardi, e fino ad allora di lui si aveva in Italia una conoscenza di seconda o terza mano che ne distorceva lo spirito).  Ma credo che sarebbe rimasto colpito dall’idea “orizzontale” che l’antropologo aveva della mente. Con lui, peraltro, condivideva l’insofferenza per la separazione delle discipline, ed entrami le attribuivano più un senso burocratico-accademico che epistemologico e scientifico.
L’idea che Bateson aveva della mente è in quella famosa domanda che pone su Verso un’ecologia della mente: “Supponiamo che io sia cieco e che usi un bastone e vada a tentoni. In quale punto comincio io? Il mio sistema mentale finisce all’impugnatura del bastone? O finisce con la mia epidermide? Comincia a metà del bastone? O alla punta del bastone?”, rispondendosi infine: “Tutte queste sono domande senza senso.”
batesonEra senza senso qualunque tentativo di descrivere il mondo scindendolo nelle sue componenti singole.
Così Bateson non riusciva ad immaginare che l’evoluzione dell’individuo potesse essere studiata indipendentemente da quella del suo ambiente. Faceva l’esempio dell’eohippus, antenato con cinque dita dell’odierno cavallo: è l’eohippus ad essere evoluto nel cavallo per l’effetto del territorio sul quale si muoveva, o è il territorio ad essersi trasformato ad opera del nascente zoccolo del cavallo? Un’altra domanda insensata, giacché questa “non è la storia dell’evoluzione del cavallo, e non è il cavallo la cosa che si è evoluta. Quella che si è evoluta in effetti è stata una relazione tra cavallo ed erba.”
È l’unità individuo-ambiente che evolve come una cosa sola.
Marshall McLuhan outside St. Michaels College, University of Toronto. (CP PHOTO) 1999 (Stf-P.J. Salkovitch)Non era uno psicologo Gregory Bateson, eppure ha esercitato un’influenza ingente su una parte importante della psicologia. E un altro autore che psicologo non era, ma la cui letteratura è densa di metafore per una lettura del mondo come fatto di parti connesse è Marshall McLuhan.
Conosciamo McLuhan per affermazioni come “il mezzo è il messaggio” o intuizioni come il villaggio globale. Ma McLuhan si interessava alla radio, alla televisione e al cinema perché li vedeva come una sorta di seconda pelle. I media sono tutti quei manufatti che costituiscono un prolungamento della nostra pelle: per proteggerci, per arrivare a toccare l’altro, per connettere e insieme separare. Così sono media la trasmissione via etere e la stampa, ma anche l’abbigliamento, le case, le mura, le città. Tutte queste creazioni umane sono involucro: sono pelle individuale o pelle collettiva. In McLuhan il “mezzo”, il “medium”, non è propriamente qualcosa che sta “in mezzo”: è lo strato più esterno di pelle che ci mette in connessione col mondo. Un nostro prolungamento. D’altra parte cosa fa una casa, se non espandere il meccanismo di controllo della temperatura del corpo cui presiede la nostra epidermide?
Anche McLuhan, qui, richiama all’unità che non siamo più in grado di percepire:

“L’uomo alfabeta, che ha accettato una tecnologia analitica di frammentazione, non è certo vicino ai modelli cosmici come l’uomo tribale. Al cosmo aperto preferisce la separazione e la divisione degli spazi in compartimenti. È sempre meno disposto a considerare il proprio corpo un modello dell’universo  o vedere nella propria casa (…) un’estensione rituale del suo corpo.”

Christian Norbert-Schulz sul “genius loci”, cioè quell’insieme di caratteristiche che costituiscono il “carattere”, lo “spirito” di una città, ci ha scritto un libro importante. Nel suo saggio cita Goethe che parla di quanto siamo influenzati da quello che i nostri occhi vedono da sempre. Ma è possibile che la relazione coi luoghi sia così profonda da andare oltre quello che si vede.
Quello che non si vede, ad esempio, è il sottosuolo di Napoli. Ne parla Domenico Chianese, uno
psicoanalista napoletano – molto napoletano e molto psicoanalista, da essere stato presidente della Società Psicoanalitica Italiana dal 2001 al 2005. auto-tunnel-borbonico-vitt-sciosia-foto-600x399E sebbene mi abbia sorpreso leggere da uno psicanalista una riflessione simile sulla connessione fra le persone e i luoghi, non mi meraviglia che uno psicoanalista sia attratto da ciò che si cela nel profondo. Chianese parla della città “porosa” (citando Benjamin), coi suoi mille cunicoli e gallerie. Non fanno parte del panorama, non si impongono allo sguardo dell’abitante, eppure Chianese si interroga sul modo in cui quegli aspetti nascosti della città diventino costitutivi della personalità di chi abita il suolo partenopeo. Fa rispondere Carlo Cecchi: “(…) i napoletani, attraverso dei procedimenti inconsci, recitano sempre (…). Danno forma alle loro azioni, le rappresentano, (…) è come se avessero una tale consapevolezza e un tale orrore dell’informe, che è in fondo la morte, che per sottrarsi a questa coscienza devono rappresentarla”.
Ora potrebbe sembrare che un’avanguardia di psicologi, dopo che la disciplina si è occupata per tanto tempo delle astrattezze dell’interiorità o al massimo delle relazioni con altri esseri umani, abbatta un muro e decida di allargare lo sguardo fino ad abbracciare escher-printgallery1956il nostro rapporto con le cose. In realtà già uno psicologo della fine dell’800, William James, era interessato al Sé come costituito da “tutto quello che in un modo o nell’altro posso chiamare mio”, e dunque alle cose che ci circondano non soltanto come elementi di un contesto, ma come parti di noi, del Sé. Ma negli sviluppi successivi della psicologia le tracce di questo interesse si sono perse ben presto.
Dunque non solo la personalità dà vita al luogo, non solo lo spirito dà forma ai posti, ma anche viceversa. I luoghi prendono anima e forma da un carattere, ma anche i caratteri prendono la forma del luogo. Se ogni luogo ha un genio, ogni genio ha un luogo. Come in una stampa di Escher, noi siano nei luoghi, i luoghi sono in noi. Siamo fatti di quei muri, di quelle pietre.

Uno degli inneschi della conversazione fra Anna Anzani e me sta nel fatto che mi è toccato di essere testimone della vicenda dell’Aquila. Ho seguito e criticato lo storytelling della ricostruzione nei primi anni dopo la tragedia. E nei mesi successivi al disastro mi sono imbattuto in una cosa che mi avrebbe suggerito di cominciare a pensare in termini di continuità fra le persone e i luoghi. Quella devitacosa non era un saggio scientifico né qualche articolo di psicologia, ma una collezione di scatti, rielaborati, di una giovane fotografa romana, Sara De Vita. La serie di foto aveva come titolo “Macerie sulla pelle”, e sovrapponeva le immagini di mura fratturate all’epidermide di persone ritratte dal suo obiettivo. Quelle foto dicevano con un linguaggio visuale che quando succede qualcosa alle case, succede qualcosa anche alle persone, al loro involucro.
Questa che vedete a sinistra, in particolare, l’ho utilizzata e proiettata in molte occasioni, perché mostrava (e mi mostrava) qualcosa che sarebbe stato molto complicato spiegare a parole.
Di lì (anche da quella foto, intendo) ho cominciato a interessarmi a come le fratture del terremoto diventassero fratture narrative e anche fratture del senso di sé.
Di questa continuità fra le case e le persone ho sentito accennare in alcuni degli interventi di oggi: dunque Roberto Pane questa continuità ce l’aveva in mente!
Ecco, a un certo punto pensai che se questa continuità, questa identità fra muri e pelle non era solo, per così dire, una suggestione letteraria, doveva avere delle implicazioni nella clinica psicosomatica. E così mi sono messo in cerca. E infatti…
E infatti ho trovato una notizia pubblicata qua e là, in sordina, da alcune testate online, che guardacaso riguardava ancora L’Aquila. Avrei saputo poi che quei dati per cause legate al momento non avevano trovato la via della pubblicazione scientifica, ma i numeri erano molto interessanti e reperibili qua e là in rete: se l’incidenza media delle patologie della cute in condizioni di stress legato a catastrofi è del 48%, nei mesi successivi al terremoto dell’Aquila arrivava al 68%! Come poi mi ha confermato il dottor Di Stanislao (che col dottor Giovanni Flati, direttore dell’Unità Operativa complessa di Dermatologia, condusse la ricerca), su 6.000 pazienti ricevuti all’ospedale San Salvatore e sottoposti a test per la Sindrome Post traumatica, 4.080 presentavano sintomi (orticaria, psoriasi, dermatite atopica e forme acute di vitiligine, alopecia e acne) associati allo stress post sismico. Insomma: dove si fratturano i muri, si lacera la pelle.
E tutto questo mi sembra sommamente importante per capire come i muri, i luoghi, le strade facciano parte di noi in un modo che va molto oltre l’essere una cornice separata da noi dentro la quale succedono le cose.

Dunque, se questa giornata serve anche  far incontrare le professioni dell’abitare con la professione psicologica, quello che posso dire è come minimo che abbiamo in comune un oggetto e una preoccupazione.
L’oggetto è l’unità individuo-ambiente.
La preoccupazione è quella che, nel mio specifico, mi pongo quando restituisco a una persona la mia idea sulla sua vita: l’imperativo etico che mi guida è quello di essere rispettoso del suo punto di vista, della sua lingua, della sua esperienza. Non gli impongo una visione del mondo da sovrapporre alla sua, o che gli sia estranea o che sia per lui senza senso. Trasportando tutto questo nel dominio dell’abitare, penso a un ottantenne che non ha più la sua casa e le sue cose, che ha perso i riferimenti alla sua vita di prima e alla sua biografia, e a un certo punto si  ritrova a svegliarsi in una neocittà e ad affacciarsi su una via che si chiama via Lucio Battisti.
Questi due casi mi sembrano due declinazioni dello stesso problema, che è quello del rispetto della storia e delle appartenenze dell’altro.

Bibliografia

  • Barbetta P., Casadio L., Giuliani M. (2012), Margini. Tra sistemica e psicoanalisi. Antigone Edizioni, Torino.geniusloci-norbergschulz
  • Bassi R. (2013), Psiche e pelle. Introduzione alla dermatologia psicosomatica. Bollati Boringhieri, Torino.
  • Bateson G. (1972), Verso un’ecologia della mente. Adelphi, Milano, 1977.
  • Chianese D. (2015), Come le pietre e gli alberi. Alpes, Roma.
  • Giuliani M. (2012), Il primo terremoto di Internet (e-book). Durango Edizioni, Trani, ried.2015.
  • Giuliani M. (2013), “Blog, social network e strategie narrative di resistenza nel post-terremoto dell’Aquila”. In Rivista di Psicologia dell’emergenza, 11.
  • Giuliani M. (2016), Corpi che parlano. Psicoterapia e metafora (e-book). Durango Edizioni, Trani.
  • Jung C. G. (1961), Ricordi, sogni, riflessioni. Rizzoli, Milano, 1978.
  • McLuhan M. (1964), Gli strumenti del comunicare. Il Saggiatore, 1967.
  • Norberg-Schulz C. (1979), Genius Loci. Paesaggio, ambiente, architettura. Electa, Milano, 1992.
  • Pane R. (1978), “Urbanistica architettura e restauro nell’attuale istanza psicologica”. In Rivista di Psicologia analitica, n. 18.
  • Piselli A. (a cura di) (2015), Alteridentità (e-book). Durango Edizioni, Trani.
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