Banksy: Monet con carrello della spesa (dalla locandina del convegno)
Banksy: parziale di Monet con carrello della spesa
(dalla locandina del convegno “Gioco d’azzardo: viaggio al centro della trappola”)

Sono stato al convegno organizzato dall’AUSL di Piacenza “Gioco d’azzardo: viaggio al centro della trappola” (qui il programma).
Hanno parlato soprattutto esperti della cura nei servizi, io ho portato l’esperienza dello studio di terapia familiare: al pomeriggio di lunedì 30 maggio, nella sessione su azzardo e relazioni familiari, ho tenuto la relazione “La famiglia. Metafore per la cura”.

Riporto qui gli appunto della relazione, integrati con parte degli inserti “estemporanei” che negli appunti non c’erano e che raccoglievano stimoli seminati nella giornata da altri relatori.
Grazie al dott. Maurizio Avanzi.

Prologo: Daniele e l’oppressione

Il mio punto di osservazione è un po’ diverso da quello di molti di voi. Il contesto nel quale lavoro è quello dello studio professionale di terapia della famiglia. A volte mi chiedono aiuto le famiglie, altre volte le famiglie spingono un congiunto a chiedermi aiuto.
Direi che mentre voi studiate il gioco d’azzardo e vi occupate dei suoi effetti sulle relazioni familiari, io studio le relazioni familiari e di lì mi capita di osservare i loro effetti sul gioco d’azzardo…

Comincio dalla storia di Daniele, 26 anni, che viene da me perché la famiglia è preoccupata per certi suoi comportamenti. Dopo alcune sedute familiari lo vedo individualmente per un periodo.
Daniele salta una seduta su due. Le salta senza preavviso, o tutt’al più mi manda un sms all’ultimo momento: parte la mattina, senza prevederlo nemmeno lui, per fare il giro delle macchinette mangiasoldi della sua regione. Queste partenze improvvise gli costano un sacco di soldi.

Non vi ho detto una cosa: Daniele le macchinette mangiasoldi le installa.
Spesso alla mattina gli arriva la telefonata del capo: stanno per arrivare dei controlli! Allora lui lascia tutto e parte per fare il giro dei locali e sostituire una scheda dentro le macchinette, credo quella che contiene i dati delle giocate e che evidentemente non è regolare.
Il suo danno economico sta nel fatto che le sedute che salta le paga.
La preoccupazione della famiglia non c’entra col suo lavoro: il padre e la madre sono convinti che Daniele sia troppo “remissivo”. Dovrebbe essere più virile e più assertivo.
E assertivo effettivamente Daniele non è: semmai appare lamentoso e rivendicativo. Credo che nemmeno capisca bene cosa vada a fare quando parte: sa che deve smontare una scheda e sostituirla con un’altra, ma lui è un ingranaggio in un meccanismo di cui sa poco e niente. In questo senso mi appare oppresso. Se devo definire qui cosa intendo per oppresso, penso a quella condizione di impossibilità di partecipare alla costruzione di un senso: come se ad imporre un senso fosse sempre qualcun altro.
La sua famiglia è immigrata, vivono in un quartiere difficile di una periferia urbana. Daniele è carico di rabbia inespressa, sostiene che non sono lui e la sua ditta a rovinare le persone (lo sostiene senza che io gli abbia mai chiesto di giustificarsi!), ma che sono quelle, che decidono di rovinarsi. Lavora in nero, ma naturalmente non ha responsabilità al riguardo: è pagare le tasse che è ingiusto. Chissà se anche col suo modo sgangherato di gestire le sedute mette me nel ruolo del suo oppressore. E d’altro canto, col denaro che ha per le mani, si prende il lusso di decidere quando e se lasciarmi ad aspettarlo. Come se Daniele non riuscisse a vivere se non in dinamiche di oppressione. O di qua o di là.
Non ha una relazione affettiva e quando esprime fantasie su quando si sposerà, si immagina picchiare la moglie per meglio controllarla.
Però col suo lavoro (in cui è oppresso, effettivamente) guadagna molto, e con tanti soldi in tasca si sente forte e adulto. Sa che non durerà per molto ancora, e non vuole pensare a come sarà dopo.
Marco Dotti (si veda 2013) dice che siamo passati dall’Homo Ludens all’Homo Illudens. Che non è più l’uomo che gioca, ma l’uomo che è nel gioco: che è giocato da qualcun altro e che si illude di esercitare un potere – sul caso, sulla macchinetta, sul prossimo. È così anche Daniele. E io penso a come nelle dinamiche di oppressione, a cascata, vivono Daniele, le persone che giocano e le famiglie dei giocatori, oppresse dal problema comune.
Più siamo oppressi, più reagiamo all’impotenza aggravando l’illusione, cioè la convinzione di poter controllare tutto.
Stamattina si ricordava che dopo il terremoto dell’Aquila la prima misura fu quella di rastrellare fondi attraverso il gioco d’azzardo. Bene, siccome a quel terremoto ho dedicato qualche attenzione, lasciatemi aggiungere che L’Aquila in questo momento è la città col maggior numero di slot machine: una ogni ottantatré abitanti, e in questi giorni sta aprendo una nuova sala giochi da 1500 metri quadri. Con la stessa logica con cui esporta bibite gasate nelle regioni calde, l’industria esporta gioco d’azzardo nei posti dove le persone cercano di ritrovare senso (e sui diversi livelli di responsabilità nella questione leggi Barbetta, 2014).

1. Dipendenze e dipendenze

La metafora della “dipendenza” applicata a realtà di recente emergenza è presa in prestito dalle tossocodipendenze: non mi convince del tutto il suo utilizzo nelle cosiddette “dipendenze” da tecnologia, mentre mi pare più adeguata nella dipendenza da gioco. Qui c’è il comportamento impulsivo, dopo il quale la persona si ritrova con un danno che non ha potuto evitare: fosse anche solo in termini di senso di colpa, di “cosa ho fatto?”. È il fallimento della certezza di poter controllare i propri comportamenti: come nell’abbuffata della ragazza con un disturbo alimentare, come nella ricerca e nell’assunzione di una sostanza chimica per chi dipende da droghe.
Diverso è il comportamento di chi passa dieci ore davanti allo schermo del computer: lì mi pare che sia rilevante piuttosto il progressivo ritiro dalle relazioni: tanto che per mettere la cosiddetta “dipendenza da Internet” nel Manuale diagnostico statistico, essa viene sovrapposta al gioco d’azzardo via internet.

Anni fa, all’inizio del mio lavoro nelle dipendenze (Giuliani, 2002), mi incuriosii al modo in cui nella storia del tossicodipendente si susseguissero due fasi – a pensarci oggi, forse la separazione non è così marcata e le due fasi non sono rigorosamente discontinue e successive, ma anche parzialmente sovrapposte: ma insomma, descrivevo una fase “privata”, in cui la sostanza, con la sua funzione antidepressiva, permetteva di continuare a resistere una situazione relazionale difficile, e in questo senso era “omeostatica” perché evitava al dipendente di aver voglia di mettere in discussione lo stato delle cose (dunque privata sì, ma dalle forti implicazioni relazionali); la seconda “scoperta”, in cui il potere antidepressivo della sostanza non era più sufficiente, e la rivelazione in famiglia della tossicodipendenza provocava una trasformazione delle relazioni in senso di una maggiore stabilità: una stabilità per niente salutare, ma pur sempre stabilità.
Ad esempio: un figlio che si trovava a fare da equilibratore nel conflitto grave fra i genitori perseverava nel suo compito infelice aiutandosi con l’eroina. Quando però superava un limite di sofferenza, la sua dipendenza esplodeva pubblicamente e quel ragazzo cominciava a vagare fra servizi pubblici e comunità, con la madre che si dedicava a lui totalmente ventiquattro ore al giorno: un salto di qualità nel compito del figlio di tenere i genitori a distanza di sicurezza l’uno dall’altro.
In qualche modo anche nell’anoressia vediamo una fase rivolta al controllo di sé – del proprio corpo, della propria fame, dei propri comportamenti – e una fase rivolta al controllo di tutti quelli che, intorno, tentano do convincere la digiunatrice o il digiunatore a cambiare vita. In un certo senso la “dipendenza” si instaura in quella fase: nel momento in cui il comportamento “privato” incide sulle relazioni.
A volte ci capita di venire a conoscenza a posteriori di un comportamento a rischio che non è diventato una dipendenza, o di un digiuno radicale che è cessato dopo sei mesi. Probabilmente né l’uno né l’altro hanno avuto modo di diventare determinanti nelle relazioni – o magari hanno svolto una loro funzione senza aver bisogno di aggravarsi.

2. Il giocatore nello studio del terapeuta

Ci sono diversi studi interessanti sul denaro nella coppia e nella famiglia e sul valore simbolico che esso assume nella relazioni (v. per esempio Coria, 1994). In campo sistemico Valeria Fassi (si veda 2015), che lavora nella mediazione del conflitto, ci ragiona da anni.
Nella mia pratica incontro giocatori o dissipatori una volta “scoperti”: la famiglia si rivolge a me o intima al giocatore di chiamare un terapeuta per sé, una volta che il problema è diventato noto in famiglia.

Convegno-Nazionale-Gioco-dAzzardo-CMTFCome nell’evoluzione della dipendenza di cui parlavo prima, la sensazione di potere, di disponibilità di risorse, il forte investimento sulla sensazione di controllare gli eventi “compensa” una ferita relazionale, e in questo senso il gioco è omeostatico: la persona che esercita questo potere lo fa metaforicamente, e in questo modo non turba lo stato delle cose. Dallo studio sulle motivazioni al gioco (Avanzi, 2013) emerge bene questo intreccio di eccitazione, sfida e rivalsa. Se, o quando, questa soddisfazione metaforica non è più sufficiente, il gioco diventa conclamato e la sfida si attualizza sulla scena familiare: inizia la coda infinita di “ho smesso”, “domani smetto”, “ancora una volta e smetto”, eccetera.
Va da sé che quella che ho punteggiato come la “prima fase” la ricostruiamo a posteriori.

2.1. Quando è la famiglia a chiedere aiuto

A volte, dunque, la famiglia nel suo insieme si rivolge allo studio di terapia.
Ho trovato somiglianze interessanti fra le famiglie di un giocatore che chiedono aiuto e certe famiglie provate dal fatto che un membro ha segretamente dilapidato un patrimonio: per dire che non trovo una specificità del gioco d’azzardo, quanto piuttosto una centralità del denaro come oggetto metaforico attraverso il quale, ad esempio nella relazione di coppia, un membro esprime il proprio bisogno di decidere, di aver voce in capitolo. Anche non attraverso comportamenti di dissipazione deplorevoli: qualche volta persino facendo versamenti molto generosi, ma segreti, a istituzioni caritatevoli. Ma qualche altra volta non pagando l’INPS e accumulando debiti col commercialista, e lasciando consapevolmente che i debiti crescano esponenzialmente. Tutto questo senza nemmeno sparire da casa al sabato per andare al casino. Come in molte storie di gioco, dapprima emerge in famiglia una piccola parte del problema, il membro della famiglia che ha dilapidato i soldi assicura che comunque è pronta anche la soluzione, poi si va insieme da un consulente ma l’appuntamento slitta di settimana in settimana (perché in realtà non c’è nessun appuntamento) e piano piano il “buco” emerge in tutta la sua drammaticità.
In altre occasioni incontro il gioco come parte di una costellazione di problemi relazionali e di controllo reciproco, ed emergono in una terapia iniziata per un problema generale di conflitto. Per esempio possono essere parte di una serie di comportamenti stigmatizzati dai genitori in un figlio in grave crisi di svincolo.

Nelle storie di cui sono stato testimone diretto ho trovato centrale il tema dell’”oppressione”.
Un padre di sessantasette anni piangeva come un bambino in seduta, dopo che la famiglia aveva scoperto dall’estratto conto un paio di prelievi importanti (somme, diciamo, non enormi ma certamente assai significative nell’economia di quella famiglia) che il pensionato aveva utilizzato nell’arco di qualche settimana per acquistare vari “Gratta e vinci”. Nella seduta, parlando del momento attuale dell’evoluzione della famiglia, emerse come quell’uomo vivesse con incontenibile e inesprimibile dolore i preparativi del matrimonio della sua ultima figlia, e come sentisse che il suo dolore era del tutto marginale: sentiva di non avere voce, di non essere ascoltato.
Trovo che la sovrapposizione di questi episodi con l’uscita di un figlio non sia rara (il problema può persino essere aggravato dal fatto che i soldi volatilizzati avrebbero dovuto costituire il gruzzolo necessario per l’indipendenza e per la nuova famiglia). Magari quello che si svincola è il figlio con cui il giocatore ha una relazione privilegiata (in questo caso c’erano un padre anziano e la giovane quartogenita), e così quest’ultimo si trova a fare i conti col fantasma di un futuro di isolamento nella sua stessa famiglia.
Il padre di cui vi racconto trovava attraverso il gioco il modo di lenire il proprio vissuto di marginalità e di inutilità (e forse sognava di salutare la figlia con una somma più cospicua di quella che le aveva messo a disposizione), ma in seduta ammise come, da quando il pasticcio era venuto a galla, essere al centro dell’attenzione della moglie, dei figli, delle nuore e dei generi, lo riempisse di orgoglio, nonostante il dolore e la vergogna.
Quella terapia cominciò con le lacrime del padre e finì nelle lacrime di tutta la famiglia, soprattutto di papà e figlia abbracciati e col fazzoletto in mano.

Certe volte il giocatore o il dilapidatore vive in uno stato che avverte come di subordinazione nella coppia, ma per varie ragioni non ha voce per dirlo. Un uomo di cinquantacinque anni, che faceva un lavoro che non sopportava, aveva all’inizio del matrimonio rinunciato a un incarico prestigioso all’estero. Una vita passata a fare un mestiere che non amava, e imposto dalla moglie, lo faceva sentire deluso, inutile e soprattutto fallito come marito e come padre.
Nel periodo in cui i debiti erano segreti l’uomo viveva un’eccitante condizione di potenza e di rivincita. Una irrazionale fiducia nel fatto che “succederà qualcosa che sistemerà le cose” (magari una vincita ingente e decisamente improbabile) gli permetteva di rinviare la rivelazione del disastro sotterraneo. Nelle strategie continue e febbrili del periodo successivo, invece, viveva un costante braccio di ferro con la moglie che quel gioco impari rendeva fragile come non era mai stata.

Nel mantenimento del segreto, nel lavorare febbrilmente per rinviare il disastro, nella fiducia indefessa che la prossima vincita sistemerà le cose, il giocatore tenta di controllare se stesso e gli altri, e in tutto questo si illude confidando nella consolazione di quel potere che arriverà. Bateson (1976) parlò del problema dell’alcolista come di un problema epistemologico che risiede nella certezza di poter controllare anche se stesso; l’uscita dal problema comincia con l’accettare che quel potere non esiste: quel potere è una metafora, e prendere alla lettera le metafore è un errore gravido di guai. Il dipendente pensa di dover insistere nel proprio comportamento per controllare meglio l’evoluzione delle cose, e invece proprio questa convinzione – questo modo di essere sobrio – è il problema: laddove invece la sbronza – il fallimento della convinzione di poter dominare la bottiglia – è l’esperienza correttiva.

Lavorando con la famiglia, se quella che era la funzione del gioco viene detta con le parole, e condivisa con le persone che sono i destinatari di quella comunicazione, usare quel linguaggio cifrato non ha più senso. E le speranze di abbandonare la trappola sono buone.

2.2. Quando la famiglia spinge il giocatore dal terapeuta

Altre volte, invece, la famiglia (il partner, in particolare) intima al giocatore di farsi curare. Se si rivolge a uno studio privato, può trattarsi di famiglie di livello sociale anche alto, preoccupate delle ripercussioni pubbliche del problema di un membro.
Il giocatore magari accetta di andare a consultare un professionista, ma l’invio genera una situazione paradossale in cui la persona viene in terapia senza avere motivazione per cambiare e senza la cognizione di avere un problema (e in un certo senso ha ragione: il gioco è solo uno dei modi in cui la coppia porta avanti questioni non risolte e non affrontate) ma piuttosto per continuare la contesa: “se vuoi vado, ma ti dimostro che è del tutto inutile e che anzi il mio problema sei tu”.

pokerDiego, professionista di 58 anni sposato con una collega di 36, passa gran parte del tempo in cui non c’è la moglie (la notte, durante il lavoro di lei) a giocare a poker via internet. Nella vacanze parte per la sale giochi oltre frontiera.
Da quello che racconta della coppia, sua moglie lo richiama spesso a considerare che un giorno non lontano resterà vedova per via della differenza di età: questo lo spinge a investire denaro per garantirle sicurezze future, e a permettere a lei di prendere decisioni che a lui non piacciono, per esempio di acquistare una casa al mare: d’altra parte, come negarle la consolazione di un bene che peraltro sarà costretta a godere da sola, in futuro? Diego prova una frustrazione che non sa dire, e – dapprima segretamente – coltiva quello svago che sente che lo fa riappropriare del diritto di utilizzare a piacere il proprio denaro. Poi il gioco viene alla luce, e tutto diventa una prova di forza sul controllo vicendevole. Diego accetta di venire alle sedute ma con tutt’altro desiderio che abbandonare il gioco. Anzi, parleremo a lungo del suo rapporto di coppia.

3. Considerarlo un problema relazionale?

Dunque, alcune ragioni che mi sembrano utili per proporre di lavorare con la famiglia sono:

  1. È probabile che la relazione simmetrica con il gioco (con la siringa, con la bottiglia eccetera) metaforizzi le relazioni che il giocatore vive con le persone vicine;
  2. Spostare l’attenzione sul palcoscenico delle relazioni familiari ridimensiona l’illusione del controllo e dirige l’attenzione al modo in cui la persona sta nel mondo, al modo in cui tutti stanno nelle relazioni e nessuno esercita davvero un potere, per quanto ritenga di farlo.
  3. Rompere la designazione e l’isolamento. In una ricerca che si riferisce al lavoro con gruppi di donne (Prever e Locati 2012) le autrici mostrano come dissolvere l’identità di “giocatrice patologica” e recuperare quello di donna, madre, figlia, sia un passaggio necessario.
  4. Uscire dal paradosso di cui sopra, quello del paziente che chiede una terapia per non fare la terapia. È però probabile che il partner non accetti, o che il giocatore stesso remi contro, e che si interrompa anche il lavoro individuale. La terapia è diventata un elemento della schermaglia. Per quanto sia difficile aiutare le persone in una situazione del genere, anche non accettare di fare una terapia che diventa parte del problema è un modo di essere meno dannosi possibile.

Si parla molto nella letteratura (si veda Capitanucci e Carlevaro, 2004), e molto si è detto in questo convegno, del lavoro con la famiglia nella cura del gioco d’azzardo: molte voci mettono l’accento sulla necessità di coinvolgere i familiari o la coppia per recuperare le relazioni colpite.
È un aspetto fondamentale. A volte, anche una volta che ci si è lasciati alle spalle un problema, ci si accorge che la distruzione che ha causato impedisce di ricominciare e di avere la fiducia sufficiente nell’altro.
Credo che proprio a questo proposito che la terapia della famiglia possa dispiegare la propria utilità. Ma vorrei sottolineare che la terapia con la coppia o la famiglia mette al centro la salute delle relazioni colpite proponendo ai familiari di sentirsi “dentro” al problema, più che spettatori o vittime del membro patologico della famiglia. Leggere i problemi individuali come legati alle relazioni importanti dà a ciascuno una responsabilità e una speranza. Nelle storie che ho portato come esempio, il comportamento distruttivo del giocatore emergeva come risposta a quello che sentiva un rapporto di forze sbilanciato e perdente per lui. Nella terapia della famiglia liberare le persone dalle gabbie del problema e rivitalizzare le relazioni familiari non sono due momenti distinti: una cosa accade perché accade l’altra.
Nelle dipendenze, ancora, o nei disturbi alimentari (Giuliani e Barbetta, 2013), il lavoro con la famiglia – per liberare le relazioni dalle incrostazioni che si sono create durante il problema ma anche per capire insieme il contesto relazionale nel quale esso è nato – può essere addirittura propedeutico a qualunque altro aiuto al singolo. Può essere la possibilità per la famiglia di riconoscere l’oppressione del giocatore, e per quest’ultimo di assumersi la propria parte di responsabilità per l’oppressione della famiglia. In questo reciproco riconoscimento si può trovare, se esiste, la speranza residua di far guarire le relazioni.

Riferimenti

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