Massimo Schinco: Henri Bergson e lo splendore del reale
Massimo Schinco vive nei pressi di Cuneo, è uno psicoterapeuta, è un musicista (suona il violino nell’Orchestra Sinfonica Amatoriale Italiana) ed è docente nella Scuola di Specializzazione del Centro Milanese di Terapia Sistemica. Da parecchio tempo cerco di invitarlo sul mio blog per una conversazione nello stile di quelle che facciamo via e-mail o – quando l’occasione lo permette – davanti a un succo di mirtillo. Passa spesso da queste parti e qualche volta ne avete ammirato la finezza dell’argomentare nei suoi commenti ai post, ma speravo di convincerlo, prima o poi, a raccontarci qualcosa sugli autori che studia da tempo nella sua personale ricerca: durante la quale esplora nuove metafore per la terapia sistemica e riconsidera criticamente il suo amore originario per Bateson e Maturana per cercare riferimenti in autori più vicini al suo percorso umano e scientifico. Si è lasciato convincere in virtù del fatto che oggi, 18 ottobre 2009, ricorre il 150esimo compleanno di uno dei suoi autori preferiti, Henri Bergson…
M.G.: Allora, Massimo, chi era Henri Bergson?

M.S.: Henri Bergson era un professore francese di famiglia ebrea, nato nel 1859 e morto nel 1941, un uomo di per sé poco appariscente, che viveva in una villetta insieme alla sua famiglia (sua moglie era cugina di Marcel Proust). Bergson passò la sua vita studiando, insegnando e scrivendo. Le sue opere, all’epoca – siamo nella prima metà del XX secolo – fecero scalpore. Fu nominato accademico di Francia, fu insignito della Grand’Croix de la Légion d’Honneur e poi vinse il premio Nobel per la letteratura nel 1927. Un fatto singolare per uno che era matematico e filosofo; peraltro conosceva bene le questioni aperte della fisica contemporanea (la teoria della relatività e la meccanica dei quanti), così come la biologia in prospettiva evoluzionista. Era un anticipatore del pensiero cibernetico. Si avvicinò al cattolicesimo (anche se la Chiesa mise le sue opere nell’indice dei libri proibiti) ma decise di non aderirvi ufficialmente per solidarietà con gli ebrei perseguitati. Per lo stesso motivo decise di non approfittare della sua celebrità e di rimanere nella Parigi occupata dai nazisti. Ecco, era un uomo più grande di qualsiasi descrizione rigida, di qualsiasi etichetta. Gli scienziati non potevano accettarlo tra loro per i fondamenti metafisici del suo pensiero (nel 1913 fu perfino nominato Presidente della Society for Psychical Research). I filosofi dell’epoca – inclini al pessimismo e alla crisi del significato – dovendosi confrontare con un pensiero luminoso e pieno di vitalità lo attaccavano. Era ebreo ma volle che la sua preghiera funebre fosse recitata da un prete cattolico, senza farsi troppo impressionare dalla questione dell’indice dei libri proibiti. Gli spiritualisti lo trovavano troppo meccanicista. I meccanicisti troppo metafisico. I cattolici gli davano del panteista… e lui non ci stava. Questo suo modo di essere era l’incarnazione del suo stile di pensiero, per cui la realtà, sempre in crescita, in movimento, sempre nuova e impredicibile, è più grande di qualsiasi descrizione che possiamo darne. Eppure le descrizioni sono importanti, e devono essere ben fatte, perché permettono di differenziare e complessificare il flusso indiviso e perennemente in crescita del reale. Ogni nuovo stadio evolutivo si posa su descrizioni precedenti. Le descrizioni, ciò che potremmo chiamare l’aspetto più statico (o “attualizzato”) del reale, sono il gradino su cui il piede del vivente poggia per salire più su.

1927- Henri Bergson (1859-1941) sign
Inserito originariamente da joankim1
Bergson quindi valorizza la materia senza essere un materialista. Per lui le forme materiali sono come la traccia nella sabbia, quando vi passi la mano attraverso lasciando solchi e figure. E la mano è la vita, intelligente e cosciente, che costantemente deve confrontarsi con le ricadute materiali del suo slancio incessante. Bergson ci presenta un mondo vivente e animato a crescenti livelli di complessità, e decenni prima che Castaneda venda milioni di copie dei suoi libri – un po’ tenebrosi, direi – descrive l’essere umano come un percettore che si muove in un mondo di immagini (e sono sicuro che, a differenza di Castaneda, in quanto a funghi Bergson si sia limitato a boleti e famigliole). Dal punto di vista della conoscenza, in questo insieme indiviso l’intelligenza, ovvero il pensiero “disgiuntivo”, “ritaglia” elementi separati con finalità squisitamente pragmatiche, ma è l’intuizione la chiave di accesso al reale. Quindi le teorie scientifiche sono valorizzate, soprattutto sul piano dell’utile, ma è quell’intuizione largamente mortificata nelle tradizioni di pensiero occidentale che ci mette in contatto con la realtà. Come puoi vedere, per usare una terminologia che senza dubbio ti è cara, Bergson è un Autore alquanto ipertestuale. E per usare una terminologia che è cara a me, è il sostenitore di un mondo ordinato ma non ingenuamente finalistico. Il suo concetto di ordine è, almeno per come lo vedo io, analogo a quello che anni dopo svilupperà David Bohm nei suoi lavori sull’ordine implicito e sugli ordini generativi. A entrambi questi Autori preme molto discutere l’idea del tempo, e anche qui, benché con tagli e accentuazioni differenti, arrivano a conclusioni largamente sovrapponibili: ovvero essi mettono in luce, sia su un piano ontologico che esperienziale, la fondamentale realtà della durata, contrapposta al tempo spazializzato e suddiviso degli orologi. Però Bergson è più fiducioso nell’idea di tempo (“il tempo è efficace”, scrive nelle sue opere). Bohm si pone viceversa in una prospettiva che esalta gli aspetti illusori del tempo e dell’evoluzione. Entrambi però, ci portano in una dimensione metatemporale e anche metanarrativa, ci invitano a confidare nel nuovo che costantemente bussa alla porta, e ci indicano l’urgente necessità di imparare a percepirlo, riceverlo e integrarlo nella nostra esperienza liberandoci dalle pastoie delle nostre credenze statiche.
M.G.: Come sei arrivato a lui?
M.S.: Sfiorai per la prima volta il pensiero di Bergson al Liceo. Gli erano dedicate poche righe e poco tempo, però questa sua immagine dello “slancio vitale”, del fuoco pirotecnico della vita mi affascinava e risuonava positivamente con la mia sensibilità religiosa, probabilmente per una assonanza di radici comuni (io sono cattolico ma il pensiero ebraico mi ha influenzato profondamente). Comunque rimase lì.

Francesco Mina:
“La madre nei sogni del bambino”,
curato da Massimo Schinco
Mi sono accorto solo a posteriori che la sensibilità bergsoniana influenzava una persona che ha avuto grandi effetti sulla mia vita, cioè il mio terapeuta Francesco Mina. Ecco, leggendo Bergson tanti anni dopo per certi aspetti mi è sembrato di ritrovarmi con lui. Comunque, verso la metà degli anni 90 io mi sentivo un po’ scisso da un punto di vista teorico e metateorico. Avevo iniziato l’attività didattica al Centro Milanese di Terapia Familiare e ci tenevo che gli allievi capissero bene la lezione batesoniana. Ero rimasto letteralmente affascinato dal costruttivismo radicale, in particolare nella versione di Maturana e Varela (Luigi Boscolo mi prendeva in giro… diceva che guardavo Maturana come un innamorato guarda la sua bella). Però mancava qualcosa. Nella visione di questi Autori la dimensione del significato e lo splendore del reale tendevano ad offuscarsi, c’era una chiusura (soprattutto in Maturana) che andava oltre la questione della “chiusura organizzativa” dei sistemi viventi. Ecco, questi Autori sono carenti sul piano metafisico, e la dimensione metafisica per me non è accantonabile quando si parla di persone umane. Naturalmente, tenendone conto, come psicoterapeuti ci complichiamo anche la vita, andiamo su un terreno delicato, scivoloso; però dobbiamo andarci, se non altro per rispetto dei nostri pazienti. Il libro “O divina bellezza… o meraviglia” riflette questo travaglio, questa insoddisfazione e il tentativo di uscirne. Mentre scrivevo “O divina…” leggevo Jean Guitton, un Autore che non manca mai l’occasione di dichiarare il suo debito e la sua ammirazione verso Bergson. Comunque, il mio libro attirò l’attenzione di Clara Capello, allora Professore Ordinario a Torino, che da anni lavorava in modo straordinariamente approfondito sul tema della narrazione autobiografica e poetica con una sensibilità alla dimensione “meta” e “oltre” molto simile alla mia, ma più matura e rigorosa. Iniziarono ore di confronto e di lavoro comune che mi stimolarono a procedere più coraggiosamente alla ricerca di autori che potessero aiutarmi su questa strada. Fu così che “strinsi amicizia” con Autori come Gabriel Marcel e Viktor Frankl, mentre altri, come Jean Guitton appunto, erano già vecchi amici. Mi affacciai anche al pensiero di teologi come Von Balthasar e Teilhard De Chardin, che spero di poter studiare più approfonditamente… magari in una prossima vita!
M.G.: Ecco, su Teilhard ci dovremo proprio tornare… sai che è un autore che attrae i blogger, che vedono in lui una specie di profeta della rete…? Ma tornando a noi, che peso hanno avuto i tuoi interessi per la musica e per il sogno?
M.S.: La ripresa degli studi musicali (la sensibilità musicale è una splendida metafora dell’intuizione di cui parla Bergson) e dell’interesse verso il sogno e gli stati straordinari di coscienza hanno avuto indubbiamente un grande peso. La pratica musicale ha cambiato il mio modo di fare il terapeuta e il didatta.

Per quanto riguarda i sogni, è iniziato un fitto dialogo con colleghi di tutto il mondo attraverso la International Association for the Study of Dreams, e per me è stato nuovamente come respirare un’aria più nuova e più libera rispetto alle sabbie mobili del meccanicismo riduzionista e materialista da cui siamo profondamente afflitti qui in Europa. Adesso non ricordo esattamente come è andata quando sono andato a cercarmi i primi volumi di Bergson in biblioteca… però è stato un colpo di fulmine. Bergson rispondeva alle domande che mi facevo quando ero bambino (e che mi tenevo per me perché avevo scoperto che scocciavano quasi tutti) sulla natura del rapporto tra le descrizioni del mondo (in particolare matematiche, fisiche e religiose) e il mondo reale, così come su molte altre cose. Naturalmente il linguaggio di un bambino non è quello di Bergson, però tutti i bambini si pongono domande profonde; peccato che raramente li si stia a sentire.

Bergson – Materia e memoria
Inserito originariamente da suzughia
…Come in tutte le cose, in questo nuovo grande amore c’era anche un aspetto comico: credo che non molti ad agosto sulla spiaggia leggessero “Materia e memoria” e “Pensiero e movimento”… insomma è andata così.
M.G.: Perché, secondo te, un terapeuta dovrebbe avvicinarsi al suo pensiero? Cosa può dire Bergson agli psicoterapeuti
M.S.: Ti ricordi quando qualche mese fa ci siamo trovati a Milano per la seconda edizione di “Frontiere del Milan Approach”? Presentai una slide con due citazioni di Bergson. Eccole qui.
“diciamo che la totalità del reale potrebbe senz’altro essere una continuità indivisibile; ma allora i sistemi che in essa ritagliamo non sarebbero affatto, a rigore, delle parti, bensì dei punti di vista parziali sul tutto”
“un segmento piccolissimo di una curva è quasi una retta. E quanto più sarà piccolo, tanto più somiglierà a una retta (…) e infatti, in ognuno dei suoi punti la curva si confonde con la propria tangente (…) ma in definitiva questi punti non sono altro che le prospettive di una mente che immagina, in questo o quel determinato momento, una stasi del movimento che genera la curva”
Bene. Riesci a trovare qualcun altro che risolva così elegantemente il rapporto tra linearità e circolarità? Tra totalità e alterità? Uno più sistemico di così? Ti ricordi che Pietro Barbetta (che è molto sensibile al pensiero francese… benché noi due abbiamo un taglio diverso) commentò: “ma questo è proprio lo spazio in cui si situa la psicoterapia!”. Infatti. La vita e le sue descrizioni. La vita, che come Bergson ci ricorda “è insinuante…” e tondeggiante, mentre i formalismi del pensiero tendono a rettificare e produrre angoli. E poi ci sono altre straordinarie analogie: il rapporto tra intuizione e intelligenza in Bergson è assolutamente isomorfo al rapporto tra intuizione clinica e teoria nel nostro campo. Le nostre teorie devono essere ben fatte (e non sempre succede…), ma i nostri pazienti, così come le nostre relazioni con loro, sono sempre molto più grandi delle nostre teorie. E poi la conciliazione tra pragmatismo (il nostro pensiero deve condurre all’azione) e poesia… (che tra l’altro è anche la quintessenza della pratica musicale). Bergson può aiutare gli psicoterapeuti a valorizzare nuovamente la verità senza cadere nella rigidità e nei conflitti distruttivi. Valorizza la questione epistemologica senza sacrificare l’ontologia, che poi nel nostro caso è l’irriducibile verità del paziente come altro da me e fratello insieme. Bergson dovrebbe essere letto oggi, e le sue lezioni messe in pratica, anche fuori dagli studi di psicoterapia. E’ uno che ci aiuta ricostruire ciò che oggi manca, ciò che Marcel chiamava “il tessuto infraumano”. La nostra società è troppo divisa anche perché ancorata al passato, a ideologie ormai lontane dal reale scorrere e rinnovarsi della vita. Certo, la lettura di Bergson talvolta è scorrevole, anzi è mozzafiato, ma talaltra è difficile, soprattutto richiede tempo e pazienza: il suo pensiero rovescia le nostre abituali e tacite premesse cartesiane e newtoniane. Però ne vale la pena. Ti ringrazio di avermi dato questa occasione di ricordarlo, oggi che ricorre il 150° anniversario della sua nascita, in un generalizzato silenzio che mi addolora e che invece, nel nostro piccolo, abbiamo interrotto. E questo mi da grande gioia. E grazie anche a tutti coloro che avranno avuto la pazienza di leggere questa intervista.
M.G.: Grazie a te! Per finire, ci dai qualche titolo cui partire per conoscere l’opera di Bergson
M.S.: Conviene iniziare dai suoi saggi più brevi, che si trovano raccolti in volumi che non è difficile reperire, come Pensiero e Movimento e L’Energia Spirituale. L’evoluzione Creatrice è ponderoso ma scorrevole. Materia e Memoria è sicuramente impegnativo. Non debbono essere dimenticati Le due Fonti della Morale e della Religione e L’Umorismo. In rete si trovano diversi siti dedicati a Bergson e alla sua opera che possono senz’altro soccorrere nei momenti di difficoltà o quando si desidera un poco fare “il punto” della situazione.
https://www.massimogiuliani.it/blog/2009/10/18/massimo-schinco-henri-bergson-e-lo-splendore-del-reale/DialoghiPsicologia, psicoterapia e...cura,filosofia,Henri Bergson,Massimo Schinco,musicaMassimo Schinco vive nei pressi di Cuneo, è uno psicoterapeuta, è un musicista (suona il violino nell'Orchestra Sinfonica Amatoriale Italiana) ed è docente nella Scuola di Specializzazione del Centro Milanese di Terapia Sistemica. Da parecchio tempo cerco di invitarlo sul mio blog per una conversazione nello stile di quelle...massimogiuliani SubscriberCorpi che parlano
Mi sento sempre stranamente sollevata e allietata quando un nostro terapeuta esperto e colto mostra aperture e curiosità anche verso autori e pensieri non proprio ortodossi o rigidamente aderenti all’approccio batesoniano. Forse perchè in questo modo sento legittimata la mia voglia di curiosare “altrove” con l’idea di potervi trovare spunti che arricchiscano il mio modo di essere una terapeuta sistemica, forse perchè considero il dogmatismo una specie di prigione del pensiero.
Grazie dott. Schinco di aver acceso in me una nuova curiosità!
Ringrazio la collega per le sue gentili espressioni di stima. Tra l’altro, l’approccio sistemico non avrebbe mai visto la luce se i suoi “fondatori” avessero avuto una mentalità non dico dogmatica, ma anche solo un po’ rigidamente scolastica.
Dove cerchiamo di andare quando ci lasciamo irretire dal dogmatismo e dalla rigidità? Cerchiamo l’approvazione sociale, o del gruppo cui apparteniamo? Quella dei “più grandi”? Ci siamo innamorati di noi stessi? Cerchiamo la verità su una strada che alla verità non ci avvicina? Si può sentire il fascino della verità senza diventare rigidi, presuntuosi e dogmatici, senza chiudere il dialogo? Bergson risponde di sì. Tutto ciò influisce sul nostro modo di fare terapia? Io credo di sì.
Grazie per la tua intervista (all’inizio la lunghezza mi ha spaventata ma poi mi sono fatta coraggio, ho letto tutto ed è stato piacevole)ci sono tante cose su cui riflettere, mi è piaciuto anche il passaggio: “Le nostre teorie devono essere ben fatte (e non sempre succede…), ma i nostri pazienti, così come le nostre relazioni con loro, sono sempre molto più grandi delle nostre teorie.” Mi piace quando i pazienti trovano un loro modo di utilizzare quanto emerso in terapia, e di fare le loro connessioni con il loro mondo; tu parli di sogni, a me sono venute in mente le favole, quando lavoro con i bambini, io nel proporgliele penso a delle connessioni, ma chissà loro in quale modo molto più creativo le sfruttano… ma non so se tu intendevi questo!
Grazie anche per i consigli di lettura e per l’intervista sulla paura. Daiana
Ciao Daiana e grazie per aver avuto coraggio. E’ vero, la mia intervista é un po’ lunga, o meglio sembra lunga, il che può costituire un problema rispetto alle tacite aspettative che talora guidano il nostro pensiero. Quando ci troviamo a dialogare, Massimo G. mi invita sovente ad essere più presente in rete; io gli rispondo che la rete é un po’ troppo veloce per me, ho bisogno di tempo. La velocità del pensiero e del discorso di per sè non sono cose negative dal mio punto di vista, anzi talora sono molto positive, stimolano la creatività (come quando facciamo ipotizzazione in terapia sistemica). Però mi sembra che siano diventate un’abitudine, un obbligo culturale, l’effetto di un apprendimento riflesso di massa attraverso i media; mancano le pause, i respiri, le riflessioni (= tornare indietro sul detto, sul pensato, sul fatto), e questo secondo me finisce per ammazzare la creatività e appiattire la consapevolezza.
Mi piacerebbe sapere di più del tuo lavoro con i bambini. Le favole poi sono formidabili, in quanto utilizzano la struttura narrativa del pensiero per trascenderla e portarci direttamente in una dimensione meta-narrativa, cioé creativa. Quella dimensione per cui Bergson diceva: “il reale precede sempre il possibile”.
Riuscite a concedere alla vostra mente, ai vostri discorsi, alle vostre relazioni – comprese quelle psicoterapeutiche – dei momenti di pausa e di respiro? Come fate? Mica é facile!
Wow… leggendo l’intervista sono persino riuscito a perdere quel poco sonno che mi avrebbe garantito un ingresso da gran signore nel mondo dei sogni. Bella veramente. Un viaggio in tondo, direi.
Un aspetto che trovo interessantissimo è l’attenzione alla metafisica, che è poi lo sguardo (miope) verso l’oltresensibile e la vertigine inevitabile che ne deriva. Credo che eludere quell’aspetto per convenienza, paura, inadeguatezza o altre motivazioni faccia perdere molti spunti ricchi e fondamentali per il dialogo con l’altro. Eppoi c’è una lettura metafisica che si traduce in un qualche atteggiamento gnoseologico, il che la rende ancor più importante. Per chiudere, vado a memoria, una citazione di Aristotele a proposito di metafisica: “Tutte le altre scienze saranno più utili, ma alta come questa nessuna”. Che detto da Aristotele…
Sai Tito, che cosa penso? Che, certo, il nostro sguardo rivolto a trascendere il mondo sensibile fa quello che può. Il nostro tentativo di guardare può essere faticoso. Ma grande serenità proviamo nel lasciarci guardare da quella prospettiva, fino al punto di non guardare più alle cose e alle persone con il nostro sguardo solo, ma anche con lo sguardo che di là proviene. Non siamo soli nella nostra coscienza. Ci sono sguardi che provengono “da lontano” e ci sostengono silenziosamente ma efficacemente.
Ne avete mai fatto l’esperienza?
Ah, mi scuso per la procurata insonnia. Però credo che sia anche un po’ colpa di Massimo G. che ha approntato una veste così bella al tutto.
Caspita… In un’altra pagina io e Massimo Schinco ci stiamo scambiando commenti sull’oltrepassare confini.
Che un blog inviti alla velocità, che possa non favorire il prendersi tempo – come dice nella risposta a Daiana poco più su – è vero. Che però il bello stia nel provare a ridiscutere i confini del “mezzo” per prendere il meglio (farsi leggere da tanti, conversare con loro…) è anche innegabile.
Cose come questo post, e il dibattito che ne segue, mi convincono che non solo è possibile, ma che è anche divertente oltre ogni dire.
P.S.: era una considerazione “meta” che spero non interrompa il dibattito.
… è consolante non sentirsi soli nell’avere in Bergson un punto di riferimento nel proprio sistema di pensiero che si poggia in modo fluido e cangiante su più autori. Bergson tra i punti di riferimento è tra i più solidi, per quanto mi riguarda. Arrivata, molto più tardi, a Bateson ne ho ritrovato, non coincidenze ma come se esistesse un dialogo tra diversità che si incontrano in un nucleo raggiungibile al di là dei propri percorsi e linguaggi. Vari sono i punti che possono essere utili ad uno psicoterapeuta ma, soprattutto, a tutti coloro che cercano di attivare “circoli virtuosi” in un orizzonte umano e sociale che fa l’esatto contrario. In questo Bergson porta un notevole contributo di pensiero. Quanto all’azione…
Grazie Roberta per il tuo richiamo alla dimensione dell’azione. Leggendo qualche anno fa “La rosa dai tredici petali” di Adin Steinsaltz (edito in Italia da “La Giuntina” di Firenze) ho appreso che nel tradizionale pensiero sapienziale ebraico – i cui echi sono potentissimi nel pensiero bergsoniano – questo mondo in cui svolgiamo la nostra vita fisica é il “mondo dell’azione”. Il fatto oltremodo interessante é che – al di là delle reazioni che seguono ad ogni azione – le azioni compiute in questo mondo hanno conseguenze determinanti nei mondi di ordine più sottile e superiore; mondi contestuali,in senso emotivo, formativo, significativo ed etico, rispetto al nostro mondo dell’azione.
Leggere queste cose mi diede da pensare e mi confortò, perché seppure in modo più confuso, qualcosa del genere l’avevo suggerito nel mio modestissimo e avventuroso “O divina bellezza… o meraviglia” (Carabà, Milano, 2002). Avevo poi sviluppato, nella mia personale analisi della creatività, la distinzione tra “mondo descritto” e “mondo non descritto”, laddove le descrizioni, appunto, sono date dalle prima di tutto dalle azioni (e speriamo che entro la fine dell’anno il libro esca…). Quando tre o quattro anni fa ho scritto un contributo per la seconda edizione de “I non-colloqui di Alice”, curato da Capello e Gianone (ISU Università Cattolica Milano, 2007) ho sentito di dover concludere il mio contributo sulla natura dialogica della psicoterapia con un forte richiamo al valore delle azioni in terapia. Ritrovo lo stesso ordine di pensieri in Autori come David Bohm o David Peat, con una specificazione ancora più precisa. Usando la terminologia di Bohm, le azioni compiute nell’ “ordine esplicato” hanno conseguenze dirette non solo nell’ordine “implicato” ma addirittura in quello “superimplicato” che é di natura più elevata e più sottile. E in che modo? Non certo in modo meccanico: l’ordine “superimplicato” é sensibile, “percepisce” le nostre azioni.
Tutto ciò mi aiuta a valorizzare l’aspetto pragmatico della psicoterapia (l’ho scritto dappertutto: la nostra prima di tutto é una pratica) senza cadere nel pragmatismo.
Certe pieghe del discorso mi sono sinceramente estranee (per ignoranza!), ma mi piace la suggestione lanciata. Mi piace pensare a questi sguardi che si con-fondono, lungo la frontiera dell’indicibile, dove le reciproche identità (ma ha ancora senso a quel punto parlare di identità?) lasciano il campo ad altro.
Chiedi se ne abbiamo fatto esperienza. Non è facile dare una risposta. In questo caso, ho sempre la sensazione straniante che la volta in cui rispondessi “sì, ne ho fatto esperienza”, sarebbe la volta in cui in realtà non è così. Come dire: c’è un orizzonte indicibile che se viene detto non è più tale. C’è una dimensione dell’esperienza che, riportata a parole e condivisa, forse non è più quella sperimentata. Forse quella dimensione cui accenni è esperibile ma non condivisibile. Forse, invece, semplicemente siamo in una società che poco tempo e poche energie ha dedicato al costruire un linguaggio fine e sofisticato per descrivere anche quella porzione di esperienza. Ma probabilmente mi sto allontanando dalla tua provocazione.
E allora lascio qui un piccolo esempio, che tanta meraviglia ha suscitato in me e nei ragazzi che ho recentemente accompagnato nel deserto… però ho bisogno dell’aiuto di Massimo Giuliani, perché devo prima caricare una fotografia.. attendo e poi spiego. Bye 🙂
Scrive Tito:
“Forse, invece, semplicemente siamo in una società che poco tempo e poche energie ha dedicato al costruire un linguaggio fine e sofisticato per descrivere anche quella porzione di esperienza”
A me viene da dire che la nostra società ha un linguaggio troppo complicato e inautentico per descrivere quella porzione di esperienza. Con ciò, il linguaggio può essere semplice e autentico solo se lo é anche l’esperienza.
Adesso attendo con molta impazienza la fotografia e le spiegazioni. Grazie Tito!
Provo un po’ di timore, non vorrei si parlasse ora di spiegazioni. Perché, in fondo, quello che sto per fare ha il sapore di una ferita aperta che non merita forse di essere cucita in fretta. Quello che mi piacerebbe lasciare qui è solo uno strappo o uno squarcio…

Riporto sotto la fotografia caricata da Massimo (che per esattezza ha scattato una mia alunna di nome Serena), lo scambio di commenti tra me e un’altra alunna, di rara sensibilità. Prima però, qualche elemento di cornice. Questa fotografia nasce probabilmente da una camminata serale verso una duna alta, un po’ distante dal campo che quella sera avevamo montato. Ogni sera, infatti, i ragazzi ed io migravamo lontano dalle cose e dalle forme della vita del campo, che, strano a dirlo, tanto assomiglialla vita di ogni giorno. E ci recavamo presso qualche altura, dove c’era più silenzio e più spazio. Lì restavamo per un po’ senza nulla… era un’attività della non-attività, del cedere al mondo delle bellezze, del distendersi ad ascoltare. Nulla di più. In quell’occasione specifica – ricordo – dopo una camminata a zigzag, avevo indicato ai ragazzi quella meraviglia. E ne avevamo parlato per metafore, come di un imperatore incoronato. Alla nostra sinistra si distendeva intanto per chilometri un mare di dune rosa, che a me parevano tante donne bellissime. Altro non dico perchè, dopo un confronto in cerchio e tanto vento, scendeva anche lì, come qui, il silenzio.
Sotto la foto, queste battute:
Tito Sartori “Un imperatore ci salutava, incoronato lì da chissà quale dio; per noi là in fondo lentamente se ne andava, perché il nostro sguardo potesse addormentarsi oltre, assieme a lui, seguendo il suo infinito respiro.”
Yesterday at 14:29
Camilla Burelli “Tutti noi siamo stati per un attimo un imperatore incoronato da chissà quale dio..”
Ecco, io credo che che in questo scorcio di dialogo ci sia una bella fotografia di quel che stavamo dicendo… 😉
La struttura narrativa della nostra mente ci obbliga a mettere le esperienze in un ordine temporale caratterizzato dal prima, dall’adesso, dal dopo. E poi bisogna distinguere molto bene gli attori l’uno dall’altro. Per cui é difficile raccontare quei momenti in cui questa cornice diacronica si rivela per quello che é, cioé una dimensione cruciale della nostra vita e della nostra identità, ma non l’unica né l’ultima, né forse la prima. Come quei momenti in cui il mondo diventa uno specchio che ci rivela ciò che non siamo abituati a vedere di noi stessi. Ad esempio che ognuno di noi é anche imperatore incoronato da Dio; oppure che siamo immersi in una femminilità intramontabile e affascinante. Certo l’appartenenza a queste identità sembrerebbe inconciliabile con quella della nostra quotidianità fortunata o sfortunata che sia, con le meschinità, i piccoli grandi abbandoni inferti e subiti. Ha ragione Tito, é una ferita, uno squarcio. Che farne? Più che tentare inutilmente di chiuderla, mi interessa rendere questa ferita accogliente per l’umanità mia e altrui, come per esempio ha fatto Tito condividendo il suo vissuto del deserto.
…che poi da un po’ di tempo ho l’idea che sia proprio questa la questione cruciale di quella interazione umana che chiamiamo psicoterapia: prendere le ferite e farne relazioni, farne link, invece che tentare di richiuderle.
Pensa, Massimo, che proprio oggi abbiamo potuto seguire un seminario di Bertrando sulla terapia individuale. Bene, la discussione ha preso uno slancio quando si è soffermato, quasi senza volerci dare peso, su “che cosa è la psicoterapia”. Infatti, era come se fosse abbastanza semplice capire quali sono le tecniche che usano i terapeuti sistemici e un po’ più difficile capire quale è il modello sistemico e ancor più impegnativo comprendere che cosa è la psicoterapia. Sono entrati in gioco diversi elementi, la maggior parte dei quali convergeva sulla necessità di definire la cornice entro cui matura una interazione: dall’accordo tra le parti, al setting, al codice deontologico, ecc. Per quanto riguarda quello che dici tu (“prendere le ferite e farne relazioni, farne link, invece che tentare di richiuderle”), mi sembra che tu ti riferisca alla psicoterapia che si riferisce al modello sistemico che io adesso sto studiando e non alla psicoterapia in generale. Oppure no?
Dimenticavo: e a quali altri ambiti appartiene, eventualmente, questo “prendere le ferite e farne relazioni, farne link, invece che tentare di richiuderle”???
Beh,secondo me la psicoanalisi “in primis” non ha mai preteso di richiudere ferite e ha sempre dato attenzione al transfert, che é una relazione sostanziata proprio dalle “ferite aperte”. Che poi da questo modello si siano fatte discendere (impropriamente, secondo me)svariate forme di psicoterapia correttiva é un altro paio di maniche.
Io credo poi che né in psicoanalisi né nel modello sistemico ci si aspetta che il terapeuta “richiuda” le proprie ferite per poter effettuare il suo lavoro. Certo che se una ferita é infetta, o fa troppo male o é beante… qualcosa bisogna fare.
Però credo che la questione si estenda a tutte le relazioni umane: una cosa é illudersi di “tornare come prima”, un’altra é avere il coraggio di diventare nuovi, inediti, magari proprio a partire dalle ferite che ci deturpano, ci fanno soffrire.
La psicoanalisi, la psicoterapia sistemica. Ma la cosa si estende a tutte le relazioni umane. La questione, per come la poni tu, è quella di “avere il coraggio di diventare nuovi, inediti, magari proprio a partire dalle ferite che ci deturpano, ci fanno soffrire”. Allora mi chiedo che cosa si fa in psicoterapia di diverso rispetto ad altri contesti?
Siamo all’interno di una conversazione innescata dal pensiero di Bergson, e come punto di partenza prenderei la sua bella affermazione: “la vita é insinuante”.
Quindi direi: la psicoterapia presuppone una relazione molto finalizzata (ciò che non piaceva a Bateson…)e caratterizzata da una rilevante differenza tra cliente e terapeuta. Il cliente sta male e chiede aiuto, il terapeuta deve essere in grado di fornirglielo: é la relazione clinica, la cui forma, almeno da contratto e come cornice generale, é complementare. Ma che differenza c’é tra la relazione clinica come si configura nel modello medico tradizionale (ricordiamo che molte cose stanno cambiando anche lì)e la relazione psicoterapeutica? Direi che nella psicoterapia il terapeuta governa in modo cibernetico la relazione e le narrazioni che in essa trovano spazio affinché “la vita possa insinuarsi” nuovamente, meglio, più riccamente di prima (e questo mi sa che a Bateson piacerebbe). Credo che inevitabilmente ciò comporti momenti di ineffabilità, di sospensione del tempo, momenti in cui il nuovo scaturisce incondizionato.
Che ne pensano i colleghi? E i clienti? Ci sono punti di contatto tra questa descrizione e le loro esperienze?
Sapete che faccio? Prendo queste righe di Massimo Schinco e ne faccio un nuovo post. Questo potrebbe favorire un allargamento della discussione meglio di quanto si riesca in quest’angolo al fondo di un articolo; mi pare che la piega della conversazione – la premesse sulla terapia, dall’eredità del modello medico a quella cornice che sa ospitare anche “momenti di ineffabilità”, come dice Massimo – meriti un “rilancio”…
Datemi solo un po’ di tempo.
Sì, penso che questa discussione meriti un rilancio; o quantomeno ne avverto l’esigenza. Per ora, comunque, mi limito a offrire un punto di vista. Penso che la divisione tra cornice e dipinto sia necessaria. La cornice riguarda il contratto, socialmente riconosciuto, che lega terapeuta e cliente, stabilendo un’asimmetria, delle regole di contesto e delle finalità. Queste ultime credo prevedano soprattutto un cambiamento che faccia star meglio il paziente. Poi su che cosa significhi “star meglio” c’è molto da discutere. Quindi il dipinto, composto a più mani, secondo tecniche innestate in un dialogo giocato nell’improvvisazione jazzistica: le teorie (dai manuali ai romanzi letti, dai film alle conversazioni intrattenute…) aiutano a leggere il processo e suggeriscono l’azione ma vengono anche messe tra parentesi per consentire l’ingresso del momento presente, per vivificarlo, perché “la vita si insinui” tra le varie categorie descrittive. Come diceva Simmel, “la vita è trascendenza di se stessa” e quindi supera in ogni istante le descrizioni che la vorrebbero cristallizzare e comprendere. Disporsi ad abbandonare le proprie e altrui descrizioni, quando inadeguate, è un buon modo – credo – per rispettare la trascendenza del reale (della vita). Credo che il contratto (cornice) sia fondamentale per definire la situazione e distinguerla da altre. Ma quanto al dipinto, non so quante connessioni potremmo trovare con altre forme di incontro: l’arte, la religione, il teatro, la meditazione… Penso che nella differenza di premesse tra cornice e dipinto (l’una alimentata da una “finalità cosciente” unidirezionale: “ti aiuterò/curerò/cambierò/farò star meglio”; l’altro innervato da una finalità circolare e sistemica che rispetta l’ecologia delle idee) ci sia un contrasto e un paradosso portatore di creatività. Per rispettare le premesse della cornice bisogna abbandonarle nel momento del dipinto. Quando si dipinge bene e il quadro è bello, spesso le premesse della cornice vengono rispettate. Ma per dipingere bene forse è meglio dimenticarsi, durante il processo, proprio di tali premesse. Quando si rinuncia a cambiare l’altro, questi può trovare il suo percorso di cambiamento. Questo credo di aver capito. In questo paradosso così affascinante mi pare stia una meraviglia che – a volte – mi fa pensare allo zen. Ma qui mi fermo. Che forse mi son perso… 😉
Beh, in attesa di rilancio direi che non si sta neanche male in questo angoletto riparato… il camino scoppietta; thé, caffé o cioccolata calda?
Senti, Tito, e se attenuassimo i confini tra la cornice e il quadro? Un po’ come in una sinfonia di Beethoven (che so, l’ottava? La quinta?); le prime note fanno da cornice, ma poi che fa Beethoven? Sviluppa la cornice in tutti i modi possibili e immaginabili, sicché la cornice diventa il quadro – che più che un quadro sembra un caleidoscopio, un labirinto di specchi incorniciati che rispecchiano altre cornici e specchi che le riflettono – e poi in coda, com’è come non é, sembra di nuovo una “normale” cornice. E tu sei lì un po’ stralunato… che non sai che cosa é successo veramente nel frattempo. Anche ai nostri clienti a volte succede, quando gli diamo la mano sulla porta e gli diciamo “arrivederci”.
Cercando di studiare (con insaziabile curiosità e pure con un po’ di invidia) il comportamento dei grandi psicoterapeuti mi sono fatto l’idea che “la magia” stia in gran parte nella loro gestione delle cornici. Anche perché – non voglio rovinare il quadro un po’ idilliaco – mica sempre il cliente ti aiuta. Se sta male veramente ti attacca, e lo fa pure a tradimento. E anche in quel caso mi sono fatto l’idea – per esperienza mia e altrui – che non é il ricorrere al potere che salva la situazione, ma la gestione delle cornici.
Il bricco della cioccolata é ancora quasi pieno e una nuova caffettiera é sul fuoco. In due minuti si fa bollire l’acqua per il thé e le tisane.
La porta é aperta!
Attenuare i confini tra cornice e quadro… Beh, innanzitutto mi viene da dire che quella che ho presentato io è solo una mia parziale e incompleta visione delle cose, frutto di un po’ di riflessione. Io in realtà lavoro soprattutto con/nelle scuole, contesti in cui è altrettanto importante il gioco delle cornici. In effetti – pensa un po’ – sto lavorando seriamente a un progetto che vuole sviluppare un metamodello di lavoro con/nelle scuole e che parta inizialmente dai contributi del modello milanese di terapia, portando aggiustamenti, varianti e variazioni. Quindi la questione mi interessa parecchio. Nel metamodello che sto pensando, le cornici mi servono a impostare un discorso. Ovviamente mi accorgo che sono sempre frutto di una scelta, di un punto di vista, di una selzione e costruzione personale. Tant’è che nel metamodello ho inserito anche delle “cornici invisibili”, che sono quelle che da osservatore non vedo o scelgo di non vedere. Sono le cornici virtualizzabili, attualizzabili e ipotizzabili. Mmm… Questo per dire che la complessità del reale – in terapia o a scuola – è troppo elevata per presumere di giungere a una conclusione univoca sulla questione cornice-dipinto, se vogliamo usare questa metafora. La questione che poni tu mi interessa molto, perché mi apre nuovi orizzonti. Partivo in verità dal pregiudizio che confondere i piani potesse generare più problemi che soluzioni. Ma forse non è così…
Ora anche io mi piglio un caffè!
Propongo di spostarci qui.
Tito, se tu sai fare il caffè io porto le birre 😉
Magari cerco anche di fare altri inviti per allargare la conversazione, come dice Massimo S., a colleghi e clienti. Proviamo?
Fantastico. In effetti, sarebbe interessantissimo capire altre prospettive. Mi chiedo come la vedano i clienti. E mi chiedo come il parlarne possa avere degli effetti concreti. Da un punto di vista drammaturgico (alla Goffman, per intenderci), stiamo in qualche misura riversando i contenuti del retroscena sulla ribalta. Chissà come reagisce il pubblico…?!?!?!