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Psicologi & Serie TV
“Adolescence” non parla di adolescenti, parla di te che guardi

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1. Psicologi sullo schermo

Leggo articoli (parecchi) e seguo conversazioni che raccomandano Adolescence (la serie britannica, bella e tremenda, disponibile da poco su Netflix, scritta da Jack Thorne e Stephen Graham e diretta da Philip Barantini) come una serie che parla di adolescenti, o che parla di famiglia, o “utile” per gli adulti.
Fra i colleghi mi è capitato di imbattermi in un paio di discussioni sul terzo episodio (di quattro), quello interamente dedicato al colloquio che Jamie Miller, il tredicenne accusato dell’omicidio della coetanea Katie, ha con la giovane psicologa Briony Ariston (Erin Doherty) nella struttura dove è costretto ad attendere il processo. È un colloquio di valutazione che le è richiesto dall’autorità, sapremo poi che è il quinto e l’ultimo di quelli fissati. Le discussioni riguardano prevalentemente la correttezza degli atti della psicologa.

Il fatto che ci si trovi a parlare di quanto sia abile, o esperta, o professionale la psicologa, segna un punto per gli sceneggiatori, perché implica evidentemente che sentiamo il personaggio abbastanza verosimile e credibile da considerare le sue azioni come un argomento. Per chi ha presente la miseranda storia degli psicologi televisivi, chiunque avrebbe trovato fuori luogo sollevare questioni sulla tecnica del colloquio dello psicoterapeuta di Un giorno fortunato (1997), un Fabio Fazio ancora più implausibile del paziente Claudio Bisio, solo per dire un caso esemplare — e scusate se l’ho riesumato dall’oblio che gli competeva.

Ma fatemi dire che la verosimiglianza di un personaggio non è un valore in sé. Un prodotto di finzione non è un trattato e non ha uno scopo istruttivo o pedagogico. Un personaggio ben scritto, piuttosto, serve al rapporto fra il testo e il lettore (o lo spettatore).
Anni fa (a partire dal 2008) avevo seguito con coinvolgimento la serie In Treatment, su cui scrissi qui e altrove. Portava sullo schermo la figura di uno psicoterapeuta raccontata con la competenza di collaboratori alla sceneggiatura che erano gente del mestiere (la serie americana era ispirata all’israeliana BeTipul), e che avevano disegnato una figura (Paul Weston, interpretato da un formidabile Gabriel Byrne) che oltre ad essere uno psicoanalista credibile, era un personaggio tridimensionale, raccontato anche nelle debolezze che lo rendevano imperfetto nel suo lavoro.

Troppe volte, invece, professionisti delle relazioni nei racconti di finzione sembrano fatti apposta per assomigliare all’immagine vaga che le persone hanno di quella professione. Trovai apprezzabile la prima stagione di una serie italiana, Tutto chiede salvezza, ambientata in un reparto di psichiatria e tratta da un romanzo di Daniele Mencarelli, ma colleghi che avevano una maggiore pratica di reparti psichiatrici ritenevano urticanti alcuni aspetti che a me in prima battuta erano sfuggiti. Imprecisioni nella descrizione dei contesti, superficialità circa le stesse mansioni degli infermieri, che li rendevano coerenti con l’idea un po’ approssimativa che qualche volta il pubblico ha di certe professioni, ma che alcuni spettatori che venivano dalla professione infermieristica commentavano come offensive.

Come dicevo, questo non mi impedì di attribuire alcuni meriti alla serie. Altri commentatori minimizzavano quegli errori, sostenendo che una serie televisiva non è un ritratto fedele della realtà. Che sarà anche vero, ma se una sceneggiatura non permette a una fetta consistente di spettatori di mantenere quel patto di sospensione dell’incredulità, almeno per quella fetta si sgretola la base stessa della possibilità di una narrazione. Non è un piccolo problema.

Mi ricordo che dicevo a qualche amico infermiere “sì, hai ragione, però si può superare”, ma quando arrivò la seconda stagione fui io a non riuscire a terminarla. Quella dottoressa Cimaroli che pasticciava col contesto, col setting (prende in terapia un operatore che lavora nel suo servizio, mentre segue la madre di suo figlio da cui è separato, per dirne una), non era una terapeuta che sbagliava per cause di forza maggiore, era proprio un personaggio scritto con scarsa accuratezza.
Era un po’ “leggera” sulle regole perché quando si è in prima linea si cammina sul filo, ci si assume la responsabilità di mediare con quelle regole? Chi lo sa, non era detto da nessuna parte, non c’era l’ombra di un tentativo di problematizzazione.

La ragione per cui un autore cerca di conoscere bene il suo personaggio, anche in quello che non si vede sullo schermo, non è in un qualche vincolo di fedeltà alla “realtà”, e nemmeno è una ragione pedagogica: non deve spiegare com’è uno psicologo vero, o un infermiere, o un veterinario. È una ragione narrativa: gli permette di disegnare personaggi non bidimensionali, che non si esauriscono in quello che si vede in scena, ma che hanno una vita. Che sono credibili. Senza trascurare, naturalmente, il vantaggio di non perdere per la strada quel pubblico che ne sa, e che può sentire tradito un patto di fiducia.
Se funziona, quando quel personaggio commette degli errori sappiamo che essi sono la materia che gli autori vogliono raccontarci, e non l’incidente di una conoscenza superficiale. Raccontano quella storia perché quella vogliono raccontare, non perché perdono il controllo di un personaggio di cui non sanno abbastanza.

Tornando a noi, e alla serie di oggi, c’è un’altra questione. La serie si chiama Adolescence, ma non parla di adolescenza, non parla di famiglie, non parla di scuola, non parla di adulti: è la storia di un adolescente, di una famiglia, di una scuola, di alcuni adulti che girano intorno a quella storia.

Insomma, io credo che cercare qualcosa di istruttivo o di informativo non sia il modo migliore di entrare in quella storia. Per quanto mi riguarda, in generale non mi soddisfa pensare a una espressione artistica come un testo che “parla di” qualcos’altro. Mi pare un’idea un po’ anacronistica dell’opera d’arte, e comunque non trovo nessun piacere nel guardare un film come se fosse un manuale, oltre a nutrire sospetti verso espressioni artistiche che intendano essere “utili” o “edificanti”. So bene che spesso un’opera prende spunto da un oggetto o da un argomento, ma quello che mi interessa è il modo in cui spicca il volo e diventa un’altra cosa. Non ricordo con passione In Treatment perché era verosimile e preciso, me lo ricordo perché la verosimiglianza e la precisione della sceneggiatura mi hanno permesso di entrarci e di sedermi accanto a Paul. Qui scrivevo del perché alla versione italiana (2013), che pure si appoggiava in gran parte alla scrittura di ferro della serie USA, mancava la stessa cura e la stessa curiosità umana, e del perché non riuscii ad andare oltre i primi episodi.

In Adolescence, dunque, abbiamo il personaggio di Briony che è abbastanza ben scritto, e certamente anche qui c’è la consulenza di esperti nella sceneggiatura. Brilla da principio, nel modo in cui si relaziona a Jamie, nel modo in cui gioca col setting, con quelle trasgressioni controllate che non sono un peccato quando si lavora con un adolescente (la cioccolata coi marshmallow all’inizio dell’incontro per favorire una alleanza), nel modo in cui lo affronta e regge le sue sfide. E poi cade. Si scherma nell’ultimo scorcio del colloquio, raccoglie le sue cose annunciando che era l’ultimo incontro e negandosi alle richieste disperate del tredicenne di avere una conferma del fatto di essere stato visto. Ligia alle regole, certo, ma ora le usa da scudo, devastata da dinamiche controtransferali che non ha potuto governare.
Briony Ariston è un personaggio credibile, e credibilmente è rappresentata anche nel crollo e nel bisogno di sottrarsi. L’errore non è dovuto a una distrazione degli autori, e Briony è imperfetta e fallace, come tutte le figure della storia, dove nessuno è un mostro fino in fondo e nessuno è un santo fino in fondo. Lo splendore e l’errore di quella figura stanno tutti dentro quell’umanità fatta di luci (rare, certo) e di ombre (molte, d’accordo).

2. Adolescence, dunque

Dicevo, non riesco a vedere Adolescence come una serie che “parla dell’adolescenza”, come da più parti leggo. Ammetto però la possibilità che che se gli autori le hanno dato quel titolo evidentemente hanno identificato in quel modo l’oggetto che intendevano fotografare, e magari mi sbaglio io.
Ma per fare una fotografia si definiscono dei contorni e si circoscrive un oggetto: e in questa serie non trovo oggetti separati, o atti distinti dal resto, da poterli valutare di per sé. Sarà per il virtuosissimo piano sequenza con cui sono girati i quattro episodi (incredibile, sessanta minuti in cui la macchina non stacca, e i personaggi interagiscono in tempo reale, s’incrociano con precisione millimetrica su un palcoscenico che però è una intera cittadina: a meno che prima o poi non ci informino che c’era un trucco per saldare più sequenze girate, e non mi sorprenderebbe), ma quello che vedo, seguendo la vicenda come fossi lì in mezzo ai personaggi, sincronizzato con loro, non sono tanto individui e azioni, quanto un brulicare incessante di una umanità tutta intera.

Anche quando parliamo dell’adolescenza paghiamo in fondo il prezzo di una reificazione, di uno scontornamento arbitrario dentro la realtà, perché l’adolescenza non è un oggetto, non è uno stato a sé: è un movimento, è un processo. “Adolescente” è il participio presente di “adolescere”, che vuol dire “nutrirsi”, “alimentarsi per crescere”. Dunque l’adolescente è colui che sta crescendo, che si sta nutrendo per diventare qualcosa: è in una condizione di non essere più qualcosa (perché ha cominciato a nutrirsi) e non essere ancora qualcos’altro (perché non si è ancora nutrito abbastanza). Semmai “adulto”, che è il participio passato di quel verbo, indica qualcuno che evidentemente si è nutrito a sufficienza, e per il quale quel processo è compiuto. “Adulto” vuole indicare uno stato.
Allora  l'”adolescenza” del titolo mi rimanda anche un po’ a quell’incompiutezza, quella indefinitezza, quella oscillazione che è la cifra di un po’ tutti i personaggi: di lì la nostra difficoltà a collocarci rispetto a loro, ad esprimere una posizione morale definitiva. E qui autori e regista giocano con qualcosa che ci riguarda, che anche come psicologi ci riguarda almeno quanto la tecnica e il controtransfert della psicologa, o quanto un ritratto “fedele” dell’adolescenza o di una famiglia disfunzionale.

La famiglia, appunto. Quei genitori che si accingono a festeggiare un compleanno nel quarto episodio, in mezzo alla fine del mondo: tu pensi “eh beh, allora si capisce”. È scioccante, ma nello stesso tempo non chiedevi di meglio che trovare qualcosa come le tracce di una franca dissociazione per farti una ragione di tutto quanto. E poi ti mostra sprazzi di tenerezza e di dialogo che invece non ti tornano. E poi ancora ti sbatte in faccia la follia.
O quel padre (a proposito: è Stephen Graham, uno degli autori) che nel primo episodio continua a ripetere ai poliziotti “è solo un bambino”, ma che con quel bambino che piange passa del tempo nella cella senza riuscire a toccarlo, ad abbracciarlo. Che è lo stesso padre, poi, che in coda al secondo episodio porta dei fiori sul logo dove è morta la bambina, e che negli ultimi minuti della storia sarà divorato dai senso di colpa.

E la psicologa: accogliamo l’ingresso di Briony come quello di chi finalmente sembra esprimere una dirittura e una solidità che gli altri adulti che si muovono intorno a Jamie sembrano non riuscire a trovare. Assistiamo poi alla sua caduta: il contatto col mondo interno del ragazzo, il modo in cui lui la mette alla prova, la mascolinità tossica che le riversa addosso, sono intollerabili.
Briony ci ha deluso, ma il regista ci ha preparato una sorpresa amara. Jamie viene portato via a forza, lei resta nella stanza. E noi con lei, nonostante l’azione si sia conclusa, nonostante non ci sia più nulla da raccontare. Restiamo lì a sentire la sua angoscia, a vederla star male fisicamente, magari a chiederle scusa della nostra delusione.
Poteva agire diversamente? Certo. Tutta la serie è la storia di gente che poteva agire diversamente, ma ha fatto quello che ha fatto. In fondo, perché la psicologa avrebbe dovuto essere meglio degli altri? E poi, che ne sappiamo noi? C’è sempre un sovrappiù di estremo, persino nella situazione già estrema di un bambino accusato in quel modo di un delitto infame. E qui quel sovrappiù è costituito dal fatto che Jamie avrebbe dovuto essere in un contesto più protetto e per qualche ragione si trova in una struttura psichiatrica. Che ne sappiamo noi, di come pensano le persone che si trovano a vivere situazioni così estreme?

E il poliziotto, l’ispettore Luke Bascombe che conduce l’operazione dell’arresto con la necessaria freddezza ma con dei moti di protezione nei confronti di Jamie: anche lui ci appare come un adulto risolto che sa il fatto suo. Almeno fino a quel colloquio col figlio Adam, in cui scopriamo un ragazzo solo e bullizzato e un padre che lo guarda con lo stupore di chi ha visto un marziano.

L’avvocato Paul Barlow è un altro personaggio dal quale ci aspettiamo tanto, sebbene fugace. È l’avvocato d’ufficio atteso dalla famiglia di Jamie in quella valle di lacrime che è il primo episodio. Arriva, è rassicurante, solidale, competente. Supporta Jamie che si trova all’inferno, supporta la famiglia che, oltre al resto, si sente violata dall’irruzione e dalla perquisizione. Poi lo vedi intrattenersi in atteggiamento cameratesco con i poliziotti: “a quanto pare gli hai distrutto casa, eh?”. Lo fa perché è losco e ambiguo? No, lo fa perché la vita è così, perché esistono ruoli e contesti. Perché le persone, soprattutto a quei margini estremi della vita, stanno in equilibrio sui confini fra quei contesti.

E su tutti c’è un bambino, colpevole di un crimine atroce e insieme squassato da un contesto che lo umilia e lo bullizza. E non è possibile vedere l’uno senza l’altro.

3. Adolescence ti mostra come guardi

I primi venti minuti ti prendono alla gola e ti fanno sperare di trovare sollievo nello scoprire che è tutto un errore, che non è vero niente. Ma non succederà niente del genere. Il resto sarà una discesa agli inferi popolati da ragazzi devastati che sono l’altra faccia di adulti inadeguati e spaventati, che sono l’altra faccia di ragazzi devastati. Ma c’è un momento quasi buttato lì, alla fine del secondo episodio. Bascombe esce dalla spedizione fra gli alunni della scuola frustrato, insoddisfatto per l’indagine e per di più angosciato da quella specie di girone infernale fetente di ormoni e instupidimento. Invece di tornare alla centrale, va incontro a Adam e gli propone di mangiare qualcosa insieme. Decidono di andare a mangiare le patatine da un cinese che sta dall’altra parte della città: è lontano ma è il migliore, e le fa con sale e pepe.
Lo fa preso da senso di colpa verso quel buffo marziano? Lo fa per sé? Lo fa perché lo fa, e per dirgli che gli vuole bene.

Ora, prendere tutto questo come un resoconto sociologicamente generalizzabile sarebbe fuorviante. L’adolescenza è tante altre cose, gli adolescenti sono tanto altro. È piuttosto la storia di una porzione di umanità rappresentata come estrema, e nel suo essere estrema ti costringe a prendere consapevolezza delle lenti con cui la guardi, e a scoprirle insufficienti. Ti para davanti le strategie attraverso cui rendi tollerabile l’intollerabile. Ho riguardato con attenzione il primo episodio: l’orrore della verità che si disvela alla fine era evidente, a volerlo guardare. È davvero solo l’opera di sceneggiatori diabolici, o eri tu che non volevi crederci?

Adolescence gioca coi tuoi pregiudizi e te li mostra. Io dico che come psicologo anche questo piano mi interessa, almeno quanto quel colloquio, almeno quanto quella rappresentazione, che sia infedele o fedele (e non lo è), singolare o esemplare (e non lo è), dell’adolescenza.