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Che ne sappiamo ancora troppo poco è vero (sono andate in onda solo le prime puntate della versione italiana), ma chi accetta di misurarsi col copione di “In Treatment” mette in conto anche il confronto rischioso con una di quelle esperienze dopo le quali tutto quel che c’era prima è superato: e se non lo mette in conto, dovrebbe farlo.
Per esempio, se ti misuri con una serie di culto come questa, ti aspetti che sin dai titoli di testa almeno qualche spettatore fanatico della serie USA noterà un dettaglio.
Schermata 04-2456400 alle 14.17.17Nelle tre stagioni prodotte dalla HBO, i brevi titoli introduttivi correvano su un motivo grafico ipnotico, un’onda irregolare che oscillava da una parte all’altra del video.
Quello che sembrava un decoro astratto, si scopriva presto essere un elemento dell’ambiente nel quale si svolgevano le sedute del dottor Paul Weston (era Gabriel Byrne: qua il protagonista ha la faccia del nostro Sergio Castellitto e si chiama Giovanni Mari): uno di quei soprammobili fatti di un tubo trasparente contenente un liquido blu, in movimento su un perno tanto da produrre un’onda continua. L’onda, il mare, le navi: altro elemento dell’arredamento erano modellini di navi di cui Paul era appassionato senza mai aver navigato un minuto in vita sua. Dunque quell’immagine rimandava a qualcosa del contesto che rimandava a qualcosa del passato: un dettaglio che contribuiva a costruire una cornice alla narrazione e aggiungeva una dimensione alla figura del protagonista.
Nella versione italiana (diretta da Saverio Costanzo), stesso motivo musicale (quello che nacque con la serie israeliana, da cui tutto cominciò), arrangiamento quasi identico. Sotto i titoli si allargano macchie d’inchiostro dapprima come su un foglio bianco, poi come annegassero nell’acqua. Carino, sì: ma sto cercando di spiegarvi la differenza (magari irrisoria per lo spettatore comune, ma più significativa per quello che della serie storica potrebbe recitare a memoria almeno qualche puntata) fra una trovata che ha una funzione narrativa e un’altra poco più che ornamentale. È una questione grave? Ma no, per carità. Solo roba da spettatori ossessivi, forse.

Per molti altri versi la maggior parte della trascrizione italiana sembra finora essere fedelissima allo script statunitense. Ossessivamente fedele, inquadratura per inquadratura. Di una fedeltà quasi cronometrica.

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Così, allo spettatore attento (quello che potrebbe recitare a memoria alcune puntate almeno) non sfuggono altre piccole differenze. All’inizio della seconda puntata entrava per la prima volta nello studio di Paul il soldato Alex (Blair Underwood; qui c’è Dario e lo fa Guido Caprino). In tutt’e due le versioni domanda: “ci sono delle regole di base? C’è qualcosa che devo sapere?”. Un militare è militare dovunque, anche dallo psicoanalista.
Paul gli rispondeva qualcosa del tipo: “Più o meno. Dipende da te”.” (È un imbroglio? Un piccolo imbroglio, diciamo. Regole ce ne sono, ma quello di Paul è un invito a non considerarle come una gabbia e a scoprirle strada facendo).
Allora Alex sorride e fa: “già… sono un cliente!”, e Paul scherza: “fra noi analisti diciamo che il cliente ha sempre torto”. Ad Alex che aggrotta le sopracciglia come se non capisse, risponde con tono fintamente imbarazzato: “oh, niente… è solo una battuta fra terapeuti.”
Nella corrispondente puntata italiana, alla domanda sulle regole Castellitto risponde quasi sorpreso della domanda: “Oh, non ci sono regole!” E aggiunge: “Per lo meno, le fa lei.”
No, aspetta: questo è barare. Non è proprio la stessa cosa. Un conto è un atteggiamento flessibile che invita a considerare le regole qualcosa di utile e non il senso di quel che si fa, e un conto è “non ci sono regole”. Perché invece ce ne sono eccome, e infatti il rispetto di regole, distanze, ruoli, sarà il nodo cruciale della relazione terapeutica col giovane milite.
Ma a questo punto Dario chiude: “così mi piace”, e sparisce tutto lo scherzo sul cliente che ha sempre ragione. Uno dice: già, è un argomento troppo americano per essere tradotto in italiano e rendere allo stesso modo. Bene, ma perché non fare lo sforzo di restituire in qualche modo quel momento di informalità fra i due, tanto più importante perché ben presto il loro sarà un rapporto in cui dovranno studiarsi, annusarsi e – ciascuno a proprio modo – difendersi dalla minaccia costituita dall’altro?

E sì che da lì la sceneggiatura prende il volo: Dario non è più un pilota che ha bombardato un asilo in Iraq, ma un carabiniere infiltrato nella malavita organizzata, che è stato costretto a una decisione grave.
Allora, in certi momenti la prima impressione è che la sceneggiatura italiana voli e dia un contributo originale alla narrazione di In Treatment; in altri, che si limiti a svuotare lo script senza riempirlo di qualcosa d’altro e di nuovo. In particolare, è proprio il protagonista a restare sfumato, quasi un pretesto per far parlare gli altri interpreti e i loro personaggi. Giovanni pare la versione annoiata del terapeuta di “Il grande cocomero” della Archibugi.
Quasi che, mentre per gli altri personaggi hanno ricostruito storie e identità, gli sceneggiatori cerchino per lui, con l’originale, un comune denominatore senza rischi. Quasi che il confronto col Paul Weston di Gabriel Byrne sia paralizzante.
Ma appunto, sono sufficienti queste prime impressioni a decidere di abbandonare la visione della serie? Certo che no.
Forse, quello che ho visto oggi lo è.

Quello che ho visto oggi è un’intervista a Sergio Castellitto che s’intrattiene a parlare della terapia dal suo punto di vista. Ecco il video:

Memorabili alcuni passaggi: “questo è un paese in crisi, ma penso che l’unico settore non in crisi sia la psicoterapia. C’è sempre la fila dietro la porta dello psicoterapeuta”; oppure: “in fondo lo psicoterapeuta è anche quello che ti porta, ti conduce in una direzione piuttosto che in un’altra, quindi manipola in qualche misura anche se sembra che non lo fa, le parole che si sente dire, in qualche misura. Costringe il paziente a prendere una posizione piuttosto che un’altra.”

Opportunamente, Luca Mazzucchelli commenta certe affermazioni sulla psicoterapia (in questo video, ripreso da parecchie testate on line) e Zauberei nel suo blog si sofferma sull’incredibile affermazione sui terapeuti che non avvertirebbero la crisi economica e su altre faccende che attengono all’immagine condivisa socialmente della terapia.
Dal canto mio, trovo banale e superficiale la lettura castellittica della relazione terapeutica. La contesterei ad alta voce in qualunque contesto, la trovo insopportabile in un interprete che immagino aver condotto un lavoro di comprensione e costruzione di quel personaggio.
In cento anni la psicoterapia è cambiata molto. Può darsi che sia distante dalla comprensione totale di certi fenomeni umani, come in alcune tappe della sua evoluzione ha sperato e ha addirittura annunciato. Può darsi che nemmeno ci arriverà mai veramente. Ma poche questioni hanno guidato la sua evoluzione come quella etica, l’interrogativo su cosa sia il cambiamento e su cosa voglia dire lavorare per il cambiamento; su quale genere di responsabilità tutto questo comporti.
Ma i colleghi che ho citato poco più su hanno già spiegato bene perché certe affermazioni sono discutibili nel merito. Vi rimando a loro.

Quello che io ho capito è una delle ragioni per cui il personaggio di Giovanni Mari non c’è. Ecco, io penso che Castellitto lo detesti. Si capisce da come ne parla.
Se pensa di lui che sia un manipolatore che forza le scelte altrui (per narcisismo o per convenienza: per conservare la coda di clienti fuori la porta mentre il resto del mondo è in crisi) non può capire che il conflitto che lacera il protagonista in certi momenti è proprio quello fra astenersi, mantenere la distanza professionale, e, al contrario, svelare le proprie emozioni ed esercitare consapevolmente un condizionamento. Sarà una delle questioni che lo porteranno alla rottura con la sua supervisora e prima ancora al divorzio, e sarà una delle questioni su cui nell’arco di tre anni e centosei episodi continuerà ad interrogarsi sulla propria idoneità ad aiutare le persone. Se si appiattisce la figura del protagonista su un soggetto che tende ad indirizzare le vite altrui per soddisfare il proprio ego assetato, non ha senso la maggior parte della sostanza che ribolle nelle tre stagioni di In Treatment.
Se non si capisce la peculiarità della relazione terapeutica, che è l’equilibrio difficile e paradossale fra esserci e lasciare libero lo spazio, che è lavorare per ampliare le possibilità di scelta e non per guidare le scelte, si dicono banalità con l’aria di quello che ha fatto tre anni di militare a Cuneo e, per quel che ci riguarda qui, non si comprende la materia che che logora gradualmente la vita di Paul né i suoi errori professionali e umani. E se davanti a quegli errori a noi spettatori non succede mai di assumere una posizione moralistica, è anche per merito della complessità che sa restituirgli l’interprete e della comprensione che riesce a provare per lui.
Nelle prime sequenze della prima puntata della prima stagione, Paul ascolta Laura che in lacrime gli racconta di una notte di dissolutezze. Ha il fiato sospeso, il corpo protratto in avanti e uno sguardo che forse non ritroveremo in nessun momento delle puntate successive. Nella sequenza italiana analoga, Giovanni Mari è sonnolento e affondato nella poltrona. Dopo quell’intervista ho capito perché.

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