Questo è il testo di una nota che ho pubblicato sul mio profilo Facebook qualche giorno dopo la tragedia della discoteca di Corinaldo. Ho voluto dire la mia su un aspetto del dibattito dei giorni successivi che mi sembrava tragicamente fuori fuoco: non solo rispetto alla disgrazia immane che aveva prodotto sei vittime, ma anche rispetto a un’analisi ragionevole dei fenomeni dell’aggregazione giovanile di questi anni.
Quella nota è stata molto condivisa, anche da parecchi colleghi: questo mi ha convinto a riproporla anche qui, in un contesto che dovrebbe essere di riflessione sui temi delle relazioni.

A proposito della vicenda disgraziata di Ancona ho assistito a un dibattito che mescolava insieme molti argomenti. Dibattito iniziato quando, come al solito, non si sapeva ancora bene cosa fosse successo a monte della morte di alcune persone in una discoteca.

Dal Sole 24Ore apprendo che la notizia della vendita di biglietti di molto eccedenti la capienza della sala è nata dal fatto che un genitore ha dichiarato di avere il numero 1350: che i biglietti effettivamente staccati — magari in prevendite differenti — avessero una numerazione consecutiva potrebbe essere un’interpretazione ingenua dei fatti del primo che ha raccolto la testimonianza. Ma mi pare che su questo non ci sia alcuna certezza e, se non è emerso nel frattempo qualcosa che ancora non so, quella della prevendita eccessiva è al massimo un’ipotesi non verificata.

Tutto quello che mi pare di aver capito è che qualcuno ha tirato fuori dello spray irritante, non a scopo difensivo, e che il panico ha fatto il resto. Si sa ben poco, e forse c’è poco da sapere: forse la tragedia si è innescata per un singolo comportamento stupido, giacché spesso la stupidità ha conseguenze moltiplicate per un milione. Ma siccome non c’è conversazione che non abbia il suo bel cattivo da mettere in croce, stavolta il cattivo era servito su un piatto d’argento. L’unico che avesse una faccia (e che faccia!). Del cattivo ha tutti i tratti: che non fosse nemmeno presente sul luogo della tragedia è irrilevante, tanto che l’occasione finita in tragedia è stata raccontata al principio come un suo “concerto”. Invece anche qui le informazioni si accavallano: certamente non c’era nessun concerto, ma una semplice apparizione di un personaggio celebre (un tempo, mi pare, andavano forte quelli del Grande Fratello), annunciato da giorni, nel mezzo di una serata in discoteca. Ma ci è stato detto che Sfera, all’ora in cui sarebbe dovuto apparire, in realtà stava apparendo in un altro locale a cento chilometri di distanza da quello. E anche qui le informazioni si accavallano e si confondono: il cantante aveva giocato sporco e aveva preso due impegni non conciliabili, infischiandosene del fatto che costringeva alle ore piccole centinaia di minorenni; oppure è l’organizzatore ad aver giocato sporco e ad aver promesso quello che non poteva mantenere.

La cosa di cui si è parlato di più, perché la sappiamo come certa, non ha un legame diretto con la tragedia di Corinaldo: il fatto che Sfera scriva testi odiosi e sessisti. Nel corto circuito dell’indignazione, questo dato è stato in qualche modo collegato alle vittime di Corinaldo, diventando perlomeno una concausa della disgrazia. Prima di iniziare ad argomentare (è avvilente dover fare questa premessa, ma siamo persone di mondo e sappiamo come poi va a finire), annuncio che non risponderò cortesemente a chi volesse accusarmi di simpatia per la visione del mondo del cantante in questione.

Al primo momento mi ha colpito l’apparente ingenuità di quanti, commentando un testo di Sfera, hanno manifestato il loro sdegno per il fatto che gli adolescenti ricevano in pasto cose che parlano in modo piuttosto efferato di sesso e droga. Sembrava che fossero spariti dalla storia Lou Reed, Jim Carroll, metà del punk, un quarto del blues e non so quante tonnellate di dischi assortiti, e che un cantante italiano, sconosciuto fino a un attimo prima, si fosse inventato un genere infarcendo di vizi e depravazioni varie i versi delle sue canzoni.

Mi ha colpito anche l’argomento, smaccatamente off topic ma ugualmente insistente, che i brani di Sfera siano di qualità musicale irrisoria.

Che la musica “di quando eravamo giovani noi” sia indiscutibilmente migliore è argomento che nemmeno si discute. Si usa da generazioni ed è vero per definizione. I miei genitori mi dicevano che Gino Latilla era meglio di Bennato, io faccio confronti simili con i cantautori “indie” che sento dagli altoparlanti delle mie figlie, e penso che con loro la storia andrà avanti, e che fosse così anche prima dei miei genitori.

Ma io vorrei tenere fuori dalla discussione questo argomento. Ho un’età che mi fa dire serenamente che le canzoni trap fanno riferimento a un linguaggio che non è il mio: e giudicare un linguaggio secondo le regole del mio linguaggio è scorretto. Anzi, rivendico il diritto di astenermi da qualunque giudizio artistico su questi cantanti.

Nemmeno conosco bene quello che fa Sfera, se non per aver letto e ascoltato occasionalmente qualche suo testo. Qualcosa in più saprei dire di un suo collega di genere musicale, Young Signorino, che mi è capitato di ascoltare qualche volta di più e del quale soprattutto ho guardato un’intervista video. Mi ha dato l’impressione di non essere uno scemo, tutt’altro. Nell’intervista raccontava del divorzio da un produttore che non condivideva certe sue scelte. Ne ho ricavato l’idea di un circuito di ragazzi che in qualche modo si affidano a mentori senza storia e senza cultura — la cultura del genere musicale di cui si parla, o limitrofi —, improvvisati e poco capaci di ascoltare. In quel video Signorino parlava del rapporto fallimentare coi genitori, e credo ne parlasse con lucida consapevolezza. Trovavo delle coincidenze fra quel rapporto fallito e quello col produttore. Da entrambi i rapporti si era allontanato perché sembrava — lo dico con le parole mie — non aver trovato uno spazio di accoglienza.

Lo sentivo parlare della sua vita con un sentimento che non so definire diversamente che un dolore tranquillo. Tranquillo e consapevole. Anche lui con una quantità di tatuaggi mal fatti e caoticamente disposti nelle parti più in vista del corpo.

Ma questo commento non ha niente a che vedere con lo spessore artistico. Nella discussione di questi giorni peraltro, si intrecciano tanto da rendere impossibile sbrogliarli il giudizio estetico e quello morale. Si dice che i versi di Sfera non siano proprio educativi, anziché siano evidentemente diseducativi. Ecco l’argomento per cui l’arte (e uso questa parola sapendo di scandalizzare qualcuno: ma mettiamoci dentro anche la cattiva arte, e anche quella pessima) debba avere una funzione pedagogica è un argomento ingenuo. L’arte non serve per insegnare. L’arte è una cosa che succede e che dà voce a quello che succede là fuori. In certi fortunati casi quello che c’è là fuori lo vede prima di altri. Ma non può rendere alcolista un ragazzo, o tossicodipendente, o dissoluto. Io ho amato molto la musica e i libri di Jim Carroll senza essere mai stato e senza mai diventare dipendente da droghe. C’è un equivoco piuttosto buffo in tutto questo, un equivoco di cui ricordo che soffrivo quando i miei giudicavano i miei dischi e nel quale ora stiamo cadendo anche noi nei confronti dei più giovani. Un equivoco fra livelli di significato, per cui ci allarmiamo quando un ragazzo si identifica con certi contenuti che riteniamo pericolosi: ma da sempre il fascino dell’artista “maledetto” non sta tanto nelle sostanze che si mette in corpo, quanto nel suo modo di valorizzare e dare senso a un disagio, a una paura, a un senso di esclusione. Come noi che ascoltavamo Tom Waits, chi ascolta Sfera (e per favore, non equivochiamo: è chiaro a chiunque abbia voglia di capirlo che non sto facendo nessun confronto fra i due) non si immedesima tanto nella quantità di bottiglie di vino bevute o di amplessi consumati, quanto nella percezione di sé come più o meno profondamente, più o meno irreversibilmente, distante ed altro dalla realtà circostante. Che poi qualcuno dia voce a quel senso di estraneità attraverso l’alcol o le droghe o il sesso spinto e pericoloso, è una questione che viene ben prima di Sfera, e che verosimilmente riguarda tanti così come riguarda lui.

Credo che dovremmo serenamente prendere atto del fatto che quell’universo esiste. Che fuori dalla porta di casa nostra esistono dolori che trovano quel modo di manifestarsi, che a poca distanza da noi scorrono fiumi di alcol e di vomito. Oppure l’alternativa è scacciare lontano chi ci porta quel mondo al di qua della soglia di casa.

D’altra parte credo che abbia ragione anche un amico Facebook in una sua nota: attenzione a dire “è sempre stato così, è una cosa vecchia”, perché si perde di vista la specificità di questo fenomeno del quale, se non possiamo dire qualcosa a proposito dello spessore artistico, certo anche dai fatti di questi giorni possiamo dire che riguarda una questione culturale e generazionale non esigua.

Non è la stessa cosa dei Sex Pistols, per dire. Non nasce dal niente nel senso che droga, sesso, misoginia, omofobia, non sono nuove nelle canzoni e non sono nuove nell’espressione artistica, da assai prima anche del rock and roll. Ma certamente, diciamolo, si presentano con un contorno particolarmente urticante anche per chi con quelle musiche ci è cresciuto.

Ho visto un video di Red Ronnie particolarmente istruttivo al riguardo. Ora, se vi ricordate come mi ricordo io che Red Ronnie è nato giornalisticamente col punk e non con coi tour di “Viva la Gente”, fa ancora più impressione la sua presa di posizione. Ma in particolare, a un certo punto, stigmatizza l’apparizione di Sfera sul palco con due Rolex ai polsi come “uno schiaffo alla miseria”. Dunque prendiamo atto che esibire un Rolex in pubblico è uno schiaffo alla miseria. Ma siccome né il Rolex, né la miseria le ha inventate Sfera, dobbiamo metterci d’accordo su un dettaglio: non dovrebbe essere lui il nostro bersaglio, ma quello che mette in scena, e che precede di parecchio persino la sua nascita.

Ecco, questo mi pare l’elemento disturbante che si aggiunge all’esibizionismo sessista dei testi di questi ragazzi: l’esibizione di uno status dal quale erano ovviamente esclusi e il modo in cui lo sbattono in faccia allo spettatore dicendo: ora ce l’ho anch’io. Il Rolex. E le stanze d’albergo. E le donne più disponbili. Due per volta, persino.

È ingenuo leggere i Rolex di Sfera come una esibizione del “suo” lusso, di segni e feticci “suoi”. È evidente che quello sfoggio rimanda a idoli di cui si appropria e che svuota completamente del senso originario. Da oggi puoi essere un milionario col Rolex, ma hai l’orologio di Sfera Ebbasta.

Come nei tanti e diversi microcontesti delle famiglie, l’adolescente restituisce deformata l’immagine di quello che ha intorno. E come in quei contesti, gli adulti lo guardano come il paziente, lo strano, il diverso.

Allora, detto in altro modo, quello che sto descrivendo è né più e né meno un processo di creazione del capro espiatorio. Un personaggio di cui i più non conoscevano l’esistenza fino all’altro ieri è diventato il simbolo e il colpevole del vuoto di una generazione. Per il sollievo di chi cade dal pero e domanda: ma che, le canzoni degli adolescenti parlano pure di droga??

Un capro espiatorio, attenzione, che si offre intenzionalmente per quel ruolo. Se un elemento che pesa sulla scelta del capro espiatorio è spesso il fatto di essere esteticamente “altro” o addirittura ripugnante (non in assoluto: secondo i canoni di un certo contesto), il modo in cui i ragazzi della trap si conciano e in cui si disegnano la pelle ci fa domandare quale tipo di orrore della non-esistenza porti a cercare di rendersi visibile come il più brutto del reame.

Ma non è tutto. Come notava Costanza, gli adolescenti ci guardano e ci ascoltano mentre dibattiamo di loro e di tutte queste cose. E non sono sicuro che quello a cui hanno assistito in questi giorni sia particolarmente edificante.

Per “adolescenza” intendiamo, più o meno convenzionalmente, una fase della vita in cui si concentrano una serie di eventi evolutivi complicati. Complicati per chi li vive e complicati per chi si aggira nei paraggi. Non sempre nella stessa misura, non sempre con le stesse modalità, ma insomma non è il paradiso. È una fase che identifichiamo per convenzione, dicevo, ma la convenzione si basa su un dato ricorrente e di natura prima di tutto biologica. E però, come in tanti altri casi, la biologia esiste dentro un contesto culturale e dentro una rete di conversazioni. Conversazioni — da quelle informali a quelle “esperte” — che descrivono gli adolescenti come esseri incomprensibili che ascoltano musica orrenda e che sono governati dagli ormoni e da moti irrazionali.

E io credo che, in questo momento disgraziato, mentre deploravamo il cinismo di certi adulti che sfruttano la loro presunta debolezza, ancora una volta non abbiamo, ahimè, rinunciato all’occasione di renderli oggetto senza voce dei nostri discorsi. Li abbiamo dipinti come degli scemi eterodiretti che ascoltano musica deplorevole. Abbiamo giudicato una parte del loro mondo sul quale non abbiamo provato nemmeno a fare una domanda. Abbiamo arbitrariamente giudicato il loro linguaggio e le loro vite sulla base del nostro linguaggio e delle nostre vite.

Ecco, fatti come questo approfondiscono ancora di più il solco fra gli adulti e i ragazzi. Quel mondo incomprensibile e a volte odioso che raccontiamo quando parliamo di adolescenti, lo costruiamo in parte anche attraverso queste conversazioni. Il solco fra adulti e giovani è quella cosa che si allarga quando parliamo del solco fra gli adulti e i giovani, e quando pretendiamo di parlarne sempre dal nostro punto di vista di soggetti e rendendo loro oggetti raccontati da noi. Crediamo di descrivere la realtà e invece la facciamo.

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