Ma un terapeuta risolve problemi? Corregge malfunzionamenti? Cambia le persone?
La psicoterapia spiegata a chi fa un altro mestiere / 1
Giusto per mettere le mani avanti, qualunque cosa scriverò sull’argomento sarà necessariamente imprecisa e semplificata. Già il titolo è una piccola esagerazione — non si può “spiegare” la terapia nello spazio di questo articolo: tutt’al più si può dire qualcosa su alcuni suoi aspetti parziali. Ma soprattutto, per dire di cosa sia fatta e come funzioni la cura della parola ci dobbiamo addentrare in un territorio in cui le cose si fanno un po’ più sfumate, sfuggenti e paradossali dei concetti che maneggiamo normalmente, e l’accuratezza non è garantita.
È anche abbastanza possibile — anzi: è molto probabile — che terapeuti di orientamento differente possano trovare non condivisibili alcune cose che scriverò qui. Gli psicologi non sono tutti uguali: tutti sono ugualmente spinti dal desiderio di fare qualcosa di utile, ma non tutti perseguono quel desiderio con gli stessi mezzi. Tutti, probabilmente, si affidano a strumenti che sono stati riconosciuti da un’ampia comunità scientifica e ciascuno di quegli strumenti è, in maniere diverse, utile; ma persino fra i modi di definire “utile” possono esserci significative differenze.
C’è un modo definitivo e oggettivo di decidere quale sia lo strumento migliore o il criterio di utilità più giusto? Probabilmente no, e non è male che sia così, perché in quel regno della biodiversità che è la psicoterapia, quei diversi strumenti corrispondono in qualche modo a diverse concezioni del mondo. E questo riguarda la prima assunzione di responsabilità di un terapeuta, quella che sta a monte di tutte le altre. Io stesso ho scelto tanti anni fa il modello che mi sembrava più vicino a me — quello sistemico relazionale — non perché potessi dire che era l’unico che dicesse la verità, ma perché era il modo che più mi aiutava (che aiutava me) a capire la realtà: la scelta di un modello (sistemico, psicoanalitico, cognitivo comportamentale e così via) è una vicenda di cui non si può che parlare in prima persona. (Oddio, magari quando si è giovani lo si pensa, che il proprio modello sia quello che dice la verità; ma negli anni lo si risceglierà con maggiore consapevolezza, o lo si mescolerà con altre cose; qualche volta lo si abbandonerà, per motivi che c’entrano un po’ meno con la fede e un po’ più con la propria biografia, con la testa e con la pancia; qualche volta rimane un grande amore, ma come i grandi amori che reggono al tempo, perde quel tanto di idealizzazione e si misura creativamente con i limiti).
Dunque, la psicoterapia è quella cura a cui si affidano alcune persone che hanno bisogno di cambiare qualcosa delle loro vite, anche solo la presenza di un sintomo fastidioso o inaccettabile. Giusto? Giusto. Ma allora il compito del terapeuta è fare di tutto perché quel problema sparisca? Ecco: no.
Se sono sul tavolo operatorio e ho da qualche parte del corpo qualcosa che non dovrebbe esserci, mi aspetto che venga asportato. Se dentro di me si aggira un virus che mi impedisce di stare bene, mi aspetto che venga fatto fuori col rimedio più adatto. Se un dente è compromesso tanto da non essere più utile e da procurarmi dolore, mi aspetto che qualcuno sappia come liberarmene: “via il dente, via il dolore”, sacrifico una parte di me e ne avrò un guadagno. Senza quella parte — integro non proprio come prima del danno ma abbastanza da considerarmi tale — starò meglio che tutto intero. È un prezzo che si può pagare.
Ora, non so come dirlo senza banalizzare terribilmente: ma diciamo che in alcuni generi di sofferenze del corpo il principio per cui se qualcosa ti fa male puoi tirarla via e stare meglio ha un senso. Non sempre, non per tutti i malanni, ma entro certi limiti ha senso: c’è un problema, lo si riconosce, lo si toglie di mezzo.
Questo non funziona invece per i malanni della sfera emotiva, psicologica, mentale. Se quello che mi fa soffrire è un pensiero, o un sentimento, o un comportamento, non c’è modo di asportarlo. Sebbene abbiamo imparato, attraverso il linguaggio, a dare una consistenza concreta a quei pensieri e a dire cose come “spero che la cura mi tolga l’ansia”, l’ansia non è una cosa, e non si può cambiarle posto come si fa con un vaso di fiori né asportarla come si fa con qualche genere di corpo estraneo.
Provateci voi a togliere di mezzo un pensiero che vi dà fastidio: più proverete a non pensarlo e più lo penserete. Provate a “togliere di mezzo” un comportamento molesto di qualcuno. Se bastasse dire alla gente di non fare quello che fa, il mondo sarebbe meno complicato di come è, ma (purtroppo o per fortuna, a scelta) non funziona così. Quello che succede più spesso, invece, è che certi comportamenti più cercate di limitarli e più si rafforzano. Provate a dire a un ragazzino di smetterla coi videogiochi; o a un vicino molesto di smetterla di cantare la domenica mattina. Oppure — saliamo di difficoltà — a un’anoressica di smettere di digiunare, o a un “giocatore patologico” di smettere di sperperare lo stipendio. Togliete lo streptococco a vostro figlio, e vi ringrazierà. Toglietegli la Play Station e, beh, no, non sarà proprio la stessa cosa. “Ma perde interi pomeriggi, poi fa tardi per recuperare i compiti e il giorno dopo dorme a scuola: non è forse un problema da risolvere?”. Sì, ma si dà il caso che la logica “via il dente, via il dolore”, per quel che ha a che fare con pensieri e comportamenti, non funzioni in modo altrettanto lineare che per l’odontoiatria o per una certa quantità di problemi di competenza della medicina somatica.
Perché quando parliamo di comportamenti e di pensieri, siamo nel campo dei significati. E contano un po’ meno le cose, e un po’ più il senso che diamo loro. Ansia, iperattività, dipendenza, non sono cose nello stesso senso in cui sono cose una tibia, un fegato, uno spinterogeno. Sono astrazioni codificate e consensuali di comportamenti relazionali che osserviamo e che decidiamo di definire in un certo modo: modo che è talmente convincente che finiamo per pensare che la “dipendenza” sia un oggetto che possiamo misurare o modificare.
Se un marito si sente oppresso dalla moglie e deciderà che giocarsi duecento euro alle slot machine lo fa sentire potente e in grado di decidere, la moglie magari cercherà di convincerlo ad abbandonare quel comportamento, e non si farà capace che nonostante i suoi accorati sforzi di convincerlo, quello dopo aver perso duecento euro farà una cosa tanto folle come giocarsene trecento. E noi guardiamo questo garbuglio di comportamenti interdipendenti e lo chiamiamo “dipendenza”. Ma, dicevamo, siamo nel territorio dei significati, non in quello delle cose: e siccome i significati non li decide qualcuno per tutti, ma ciascuno li costruisce dentro la propria storia, ciò che per quella moglie sarà soluzione, per il marito sarà resa alla moglie autoritaria che non lo capisce. E considerate che stiamo parlando dello stesso evento “oggettivo”! Cioè “il marito porta sani e salvi a casa quei trecento euro”.
Ma c’è almeno un’altra ragione per cui il modello “trova il problema e risolvilo” o, se preferite, “identifica il cambiamento necessario e fallo”, qui non funziona (è un bel pensiero, molto smart, ma davvero non ha senso). Penso ad esempio al fatto che la stessa definizione del problema potrebbe cambiare a mano a mano che si lavora per stare meglio. Se guardo il mondo da una fessura, probabilmente avrò desideri piuttosto semplici e circoscritti. Ma se, mentre lavoro per realizzare quei desideri, qualcosa fa allargare la fessura, anche i desideri magari cambieranno. Cercavo una soluzione attraverso quella fessura e non vedevo che il problema era scambiare la fessura per il mondo intero.
Immaginiamo una ragazza che consulta un terapeuta: “non riesco a dare gli esami, mi aiuti perché voglio assolutamente laurearmi l’anno prossimo!”.
Immaginiamo che, lavorandoci su, cominci a sospettare che forse, se tutto le va storto, è anche perché in quell’obiettivo che si è data c’è qualcosa che non va. Magari realizza che il desiderio di arrivare alla laurea non è proprio suo, ma, per esempio, di un genitore. Si è allargata la fessura, e quello che sembrava prima desiderabile ora appare come un pezzettino misero di quel mondo limitato. La terapia si conclude con la ragazza che si fa dare il tempo pieno al lavoro per lasciare la casa dei genitori e andare felicemente a stare per conto proprio.
La terapia è stata d’aiuto alla ragazza? A domandarlo a lei, sì.
La terapia ha risposto alla richiesta iniziale? Certo che no!
Per di più: si può pensare che quello che è successo assomigli al ristabilimento di qualche bell’equilibro che c’era prima del problema? Niente affatto. Anzi, per la ragazza inizia un periodo di vera responsabilità, periodo in cui dovra magari anche fare i conti con la mamma e il papà furiosi per il cambio di progetto di vita. Magari una volta che si sarà organizzata si rimetterà anche a studiare, ma con qualche idea in più sul perché fosse così importante per lei arrivare alla laurea. Chissà, magari potrebbe anche cambiare corso. Come che sia, le cose non saranno più le stesse di prima.
Spesso le persone pensano (e ci chiedono): “vorrei tornare a stare come prima”. Ma il “prima” sappiamo come è andato a finire. Molte volte, allora, stare meglio non è recuperare un equilibro precedente (tornare come “prima della gastrite”, “prima della slogatura”, “prima del raffreddore”, “prima che si rompesse qualcosa”): è fare uno sforzo creativo per immaginare quello che verrà.
Il terapeuta che avesse scelto di guardare dalla stessa fessura e si fosse prodigato per incoraggiare quella ragazza a superare la distanza che la separava dalla tesi non le sarebbe stato di grande aiuto. In qualche momento, probabilmente, entrambi avrebbero cominciato a sentire che la terapia girava su se stessa. “Questa ragazza è resistente alla terapia”, avrebbe pensato magari il terapeuta.
Faccio una parentesi e torno a quanto dicevo all’inizio: gli psicologi non sono tutti uguali e non hanno tutti la stessa idea sul fare qualcosa di utile. C’è chi pensa che per un paziente che lamenta attacchi di panico sia importante liberarsi dagli attacchi di panico, senza ulteriori implicazioni. Una ragazza che vorrebbe superare un blocco che le impedisce di dare il prossimo esame dovrebbe essere aiutata a superare quel blocco e basta. È un’idea che rispetto, e a volte mi capita di indicare ai pazienti vie di quel genere. Non è che ogni momento sia il momento giusto per obiettivi più impegnativi; può arrivare l’ora di cambiare i mobili, ma altre volte già una buona ripulita e una sistemata al salotto sono quello che ci vuole. Non parlo necessariamente di tempi e investimenti differenti: è soprattutto una questione di quanto spazio una persona senta di poter riservare, dentro di sé, alla cura di quel momento difficile. E quello può deciderlo solo lei.
Allora: come si mette per il terapeuta chiamato in causa da qualcuno che vuole “togliersi il problema”? Deve arrendersi all’impossibilità del compito? Certo che no.
Il terapeuta, diciamo così, prende sul serio il desiderio di cambiamento. Lo mette in un angolo — un angolo importante della sua testa. E poi si comincia a lavorare. Non si lascerà guidare dall’obiettivo di liberareil paziente dal sintomo, ma allo stesso tempo si farà guidare da quello (ve l’avevo detto dall’inizio che le cose si sarebbero fatte un po’ incasinate…). Diciamola così: il problema, il sintomo, non saranno la bussola che indica la direzione giusta. Saranno piuttosto la mappa che mostra la complessità del paese, le strade che lo attraversano e così via. Una bussola ti guida in una sola direzione, una mappa ti guida in tutte.
Così il terapeuta lavorerà per un cambiamento, ma spesso senza cercare di provocarlo. Se le cose vanno per il meglio, quel problema si risolverà, o finirà per mostrarsi irrilevante: ma questa sarà una conseguenza secondaria di tante cose buone fatte insieme, più che di un intento correttivo esplicito. In un mio libro recente ho scritto:
“La psicoterapia non dissolve sintomi. La psicoterapia apre spazi di possibilità, di libertà e di novità in cui il dissolvimento di un sintomo è, semplicemente, una delle cose che possono succedere.”
Penso che sia una dichiarazione di impotenza e di fiducia insieme.
È un po’ paradossale, eh? Sì, lo è. Non dite che non vi avevo avvisati.
Perché spesso, nel dominio dei significati, se provi a cambiare le cose, quelle non cambiano (anzi, a volte peggiorano); se non provi a cambiarle, ma lavori per allargare la fessura… hai visto mai?
Cura e correzione
Dunque c’è una differenza fra, diciamo così, azioni terapeutiche e azioni correttive. Un terapeuta non è uno che corregge qualcosa. Non lavora per sostituire un comportamento indesiderato “A” con uno più accettabile “B”. Lavora perché da quella che era una fessura si riesca a vedere la possibilità di “A” e di “B”, e magari anche di “C”, “D” eccetera.
Un modo in cui lo diciamo di solito — è un modo che personalmente mi convince — è che “la terapia serve per aumentare la possibilità di scelta”.
Certo, è più difficile per un terapeuta che si trova davanti a comportamenti che una parte di lui vorrebbe far cessare immediatamente; ma l’altra parte si ferma a fare domande, prova a incuriosirsi e a pensare che quel comportamento ha ragioni profonde che meritano rispetto. Prova a guardarlo come il modo che quella persona ha scelto di stare nel mondo. Per quanto dannoso e deprecabile, momentaneamente il modo migliore che ha trovato.
E questo che vuol dire: che, per esempio, affamarsi e mangiare sono due possibilità equivalenti?
No, certo.
E sì, certo.
Non lo sono, perché tutti noi speriamo (e sapeste quanto lo spera un terapeuta, certe volte…) che quella ragazza anoressica non debba più vivere nella fissazione del cibo per governare i propri equilibri relazionali e psicologici; lo sono, perché ciascuna di queste possibilità è l’espressione di una scelta, per quanto incomprensibile.
Ma intendiamoci: questo non impedirà al terapeuta di intervenire per interrompere escalation pericolose. Non gli impedirà di dire a due coniugi che non potrà più aiutarli se qualcuno rischia di farsi male, o se ha il sospetto che mettano in pericolo un figlio, e che se è in questione l’incolumità di qualcuno, la proteggerà coi mezzi che la legge gli mette a disposizione; non gli impedirà di dire a una ragazza che si affama fino alle estreme conseguenze che collaborerà al tentativo dei medici di salvaguardare la sua sopravvivenza; non gli impedirà di farle sentire in ogni momento che, pur accettandone i comportamenti pericolosi, la preferisce, oltre ogni ragionevole dubbio, viva.
Il mestiere della terapia non è quello di correggere comportamenti “sbagliati”; ma per fare il suo mestiere, un terapeuta qualche volta deve mettersi in condizione di proteggere chi a lui o a lei si affida.
“Capire le cose”
Da quando abbiamo smesso di pensare che la terapia sia un modo per aggredire i problemi, abbiamo abbandonato l’idea che dovesse essere per forza rapida e velocemente “efficace”. Prima stabilivamo un numero di sedute e avvisavamo il paziente che se non avesse trovato soddisfazione entro quel periodo, gli avremmo dato il numero di un collega che gli sarebbe stato più utile. La cosa interessante è che quando abbiamo abbandonato l’idea di fare le cose presto, abbiamo scoperto anche che quello non era il desiderio di tutti i pazienti, ma piuttosto un pregiudizio nostro.
Così ora è un po’ diverso. Adesso ci sediamo, ci mettiamo comodi e cominciamo a parlare. Facciamo tante domande e ascoltiamo. Ci prendiamo tutto il tempo che serve, durante il quale col paziente esploriamo il presente e il passato, immaginiamo il futuro e ipotizziamo connessioni fra gli eventi.
C’è stato un periodo in cui si tendeva a pensare che la terapia fosse come scrivere, o riscrivere, una storia. “La terapia come narrazione”, si diceva. Negli ultimi tempi penso piuttosto alla narrativa seriale: quelle lunghe serie a puntate dove lungo tutti gli episodi si snoda la trama principale, ma in ciascun episodio succede qualcosa, si sviluppa una “sottotrama”. Le sedute devono essere abbastanza vicine da non perdere il filo conduttore, ma abbastanza distanti da costituire ciascuna un piccolo “evento”, una storia a sé.
Magari a un certo punto di quel percorso ci mettiamo davanti a un grande foglio bianco, o a una lavagna a muro, e facciamo il genogramma. Il genogramma è una specie di albero genealogico in cui si ripercorre la storia di più generazioni, e avendo quella storia sotto i propri occhi, resa in modo spaziale e sintetico, è possibile immaginare legami e nessi che altrimenti è più difficile vedere.
Il genogramma è come — in quelle belle serie tv — l’analessi, il flashback, la puntata in cui la storia torna a, per esempio, trent’anni prima. Avete presente quella in cui troviamo i personaggi principali con abiti diversi e la faccia più giovane, e facciamo la conoscenza degli antenati, di quei personaggi che all’epoca del racconto principale sono già morti? Il genogramma è un momento importante, spesso di una certa commozione. Quando si fa? All’inizio, per raccogliere informazioni come in un’anamnesi medica? Non necessariamente. Si fa quando è il momento, quando lo richiede la storia. Il flashback ha una sua funzione narrativa importante, e può arrivare anche poco prima della fine.
Qual è il senso di tutta questa attività di costruzione di storie? Se si “capiscono” le origini dei problemi questi si risolvono? L’idea che una volta “capite” le cause, in una specie di “illuminazione”, uno si liberasse del problema, ha avuto una certa fortuna nella storia della psicoterapia. Ma sappiamo che “capire” non sempre è sufficiente.
Anzi, una comprensione “intellettuale” dei nessi che legano il proprio problema ad altre questioni non aiuta un granché. E nemmeno descriverei come “capire le cause” quel che accade lungo una psicoterapia. È più una esplorazione che permette di trovare collegamenti fra i nodi della propria storia e di guardarsi in un altro modo, nelle proprie fragilità, nelle proprie risorse e nelle diverse possibilità di stare in quella storia nel futuro. Ma, appunto, non è un apprendimento razionale e basta. Un elemento determinante di questa esperienza è che accade dentro una relazione.
Una volta una persona mi domandò: “come mai ora che ho capito tutto quello che deve capire sulle cose che mi fanno male, non riesco a starne alla larga? Cos’è che mi manca?”. L’immagine che mi venne in mente fu quella di un bambino che gattona ed è preso dalla curiosità di infilare le dita nella presa. A quel punto succede che un adulto arrivi allarmato e lo tiri via dal pericolo. Una volta, e poi la seconda, e poi la terza, e magari gli spiega che quel gesto può essere pericoloso e far male.
Se questo sarà utile a far sì che il bambino eviti in futuro di fulminarsi nella sua esplorazione degli angoli misteriosi della casa, non sarà certo perché ha capito per bene la spiegazione. (Sappiamo bene che il mondo è pieno di gente che si butta consapevolmente in comportamenti dannosi e controproducenti, proprio perché sa che sono dannosi e controproducenti).
No, quello che lo protegge è il pensiero che un adulto si è preoccupato di proteggerlo. Una volta, e poi la seconda, e poi la terza. Essere abbastanza importante da muovere un adulto e da fargli mettere in campo tutte le sue risorse (di conoscenza, di buon senso, di riflessi persino: avete presenti certi scatti atletici?) è un pensiero che protegge. Allora, se va bene, col tempo quel bambino penserà a se stesso come a qualcuno da proteggere.
Così in terapia gli spiegoni, le interpretazioni, i commenti, hanno la loro importanza: ma quello che ti fa sentire degno di proteggerti è il fatto che qualcuno si fermi vicino a te e passi del tempo a usare quello che sa fare (spiegoni, interpretazioni, commenti) per provare a proteggerti.
Sebbene non ami le metafore che spiegano la relazione terapeutica con quella genitoriale — fanno pensare al paziente come un soggetto debole e passivo — il tema della protezione, che stava nella domanda, mi ha suggerito questa.
Può darsi che continui il discorso scrivendo qualcosa sulla terapia della famiglia e della coppia, ma non abbiate fretta.
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