Pubblico qui, in attesa di poter dialogare con Luca Casadio nella prossima presentazione romana di “La terapia come ipertesto”, alcune note che ha steso a proposito del libro.
È uno dei primi feedback che io e Flavio Nascimbene riceviamo sul nostro libro, e ringrazio profondamente Luca per l’attenzione lusinghiera che ha dedicato alla lettura del volume.
Luca Casadio, psicologo e psicoterapeuta romano, ha curato “Sistemica” con Umberta Telfener (Bollati Boringhieri, 2003); ha scritto “Le immagini della mente. Per una psicoanalisi del cinema, dell’arte e della letteratura” (Franco Angeli, 2004); “L’umorismo. Il lato comico della conoscenza” (Franco Angeli, 2006).


L’infinito, tra narrazioni ed esistenza: il “miglior” nemico dell’uomo
di Luca Casadio

Vorrei iniziare le mie riflessioni sul libro di Giuliani e Nascimbene (e Colle), con una citazione: “l’infinito è nemico dell’uomo”. Questa frase così netta e perentoria non è stata scritta né da un filosofo né da uno scienziato ma da un narratore, Joseph Conrad, nel suo romanzo “Lord Jim”.
Non a caso, voglio aprire questa presentazione con una citazione di un romanziere, di uno scrittore perché “La terapia come ipertesto” è un testo che si presta a diversi confronti: con il mondo dei media e delle nuove tecnologie; con il nuovo mondo dei social networks; con le teorie della conoscenza; con la psicologia; con la “sistemica”; con la psichiatria; e, infine, anche con la letteratura, il mondo della scrittura. Ed è sopratutto in relazione alla letteratura che lo vorrei discutere, o meglio ancora, lo vorrei affrontare da un punto di vista narrativo, rispetto cioè alla capacità di raccontare, di narrare. Una capacità che riguarda direttamente tanto lo scrittore che il terapeuta.

Ma torniamo alla citazione di Conrad: perché l’infinito dovrebbe essere nemico dell’uomo? E come, invece, potrebbe esserci amico? Che rapporto c’è tra l’esistenza e l’infinito? Tra la capacita di narrare di un soggetto – di un gruppo, o di una famiglia – e la sanità (almeno quella mentale)? E tra la comprensione (o la capacità di comprendere) e il caos (o l’impossibilità di capire)?
“La terapia come ipertesto” parla anche di questi temi e affronta, tra le varie questioni, anche queste domande.
Se dovessi riassumere in poche righe l’aspetto saliente di tutto il libro, quello che mi ha colpito maggiormente, direi che questo lavoro assolve ad un compito “poetico” (che pertiene, ancora, agli scrittori, ai poeti, ma anche a tutti i teorici, ai filosofi, agli scienziati e, perché no, anche ai terapeuti): quello di creare un nuova metafora.
La mente, la famiglia, la conoscenza, l’identità, e anche la psicoterapia, sono considerati da Giuliani e Nascimbene come “ipertesti”. Ma subito urgono alcune specificazioni.

Andiamo per ordine: come prima cosa sarà utile spiegare che cosa sia un ipertesto.
“L’ipertesto – scrivono gli autori – è una rete di testi in cui le sotto-unità, a differenza delle pagine, dei paragrafi o dei capitoli di un libro, sono disposte secondo un ordinamento reticolare anziché lineare. L’accesso da una all’altra di tali sotto-unità (“nodi”) avviene mediante dei link ovvero legami arbitrari che l’utente istituisce liberamente (o seleziona, qualora essi siano già indicati dall’autore dell’ipertesto o dagli autori delle singole parti) e che stabiliscono connessioni fra un nodo e un altro, fra un testo e l’altro, fra documenti di formati differenti” (Giuliani, Nascimbene, 2009, pagina 25).
L’ottica ipertestuale si afferma, fin dalla metà del secolo precedente, grazie allo sviluppo dei nuovi media elettronici e di nuovi software interattivi, oggi sempre più diffusi. La rete – come internet – ha contribuito ad affermare l’immagine della rete come metafora della nuova comunicazione. Una comunicazione maggiormente democratica, non gerarchica, formata da una serie infinita di nodi multilineari. Un “cono rovesciato” in cui l’individuo, e la massa dei più, ha diverse forme di conoscenza e di connettività a portata di mano, senza nessun vertice superiore che lo possa regolare, guidare o indirizzare.
Riflettendo sul concetto di ipertesto, credo che si possano rintracciare due diverse accezioni del termine: 1) quella che mette in evidenza gli infiniti link possibili che legano tra loro i diversi testi (altrettanto potenzialmente infiniti) che abbiamo a disposizione. Una definizione, questa, che mostra come l’ipertesto sia il prodotto di un “lettore” – o di un “navigatore” del web – piuttosto che di un autore di un testi; e 2) la connessione (o “il ponte” di coerenza) tra formati diversi: tra aspetti procedurali (legati cioè alle azioni), le immagini e le narrazioni.
Da questo secondo punto di vista, l’ipertesto può essere considerato come un sapere più complesso di un “semplice” testo perché prende in considerazione e utilizza anche formati non linguistici, qualcosa che non possiamo ricondurre alle sole parole.
Giuliani e Nascimbene, nel loro libro, mettono in luce sopratutto la prima di queste due possibili accezioni. Ci ricordano, così, che in un ipertesto non esiste un “dentro” e un “fuori”; non esiste un sapere proprio e uno altrui con cui confrontarsi; non esiste, ancora, un autore e un lettore, come per quanto riguarda i testi comuni.
Tali antinomie, al cospetto dell’ipertesto si sfumano, diventano sempre più labili ed emerge un sapere condiviso, globale, distribuito nel contesto sociale più allargato (o nella “semiosfera”, come direbbe il linguista russo Jurij Lotman).

Si tratta di una grande differenza rispetto alla “classica” concezione testuale, non c’è che dire. È la stessa differenza che possiamo trovare tra comporre un pezzo, una poesia, una storia, un brano della propria biografia, e trovare assonanze, similitudini o fare delle connessioni tra diverse storie, formati e racconti. Insomma, tra diversi file.
Ma, veramente, il testo propone una verità univoca e lineare mentre l’ipertesto un sapere “circolare”, multiplo e complesso?
Anche questa volta per rispondere a questa domanda mi farò aiutare dalla letteratura: la massima esperta per quanto riguarda i testi. Chiamerò allora in causa Milan Kundera, scrittore boemo nato negli anni ‘30, e residente a Parigi che, nel suo volume “Teoria del romanzo” (1986), ci offre una interessante riflessione su quei particolari testi che sono i romanzi. Tratterò i romanzi, in questo caso, solo come esempi, come particolari testi. Anche se si tratta di testi speciali, ricchi, interessanti, stimolanti; direi qualcosa di simile alle nostre biografie. Spero perdonerete la divagazione.
Per Kundera, il romanzo nasce intorno ad una domanda ben precisa, o ad una situazione principale, ed è mosso esclusivamente dalla “passione del conoscere” che ci spinge a scrutare le caratteristiche dell’uomo, il mondo della vita nel suo insieme.
Se le narrazioni sono mosse da una sete di conoscenza, di conseguenza, per Kundera: “il romanzo che non scopre una porzione di esistenza fino ad allora ignota è amorale” (Kundera 1986, pagina 18).
In questo modo, la storia del romanzo, soprattutto quello europeo, può essere descritta come una serie di domande o la successione delle “scoperte narrative” che le diverse opere hanno via via evidenziato. Una serie di possibilità esistenziali.
Il romanzo, così – come tutte le narrazioni – non propone delle verità oggettive ma, al massimo, delle “verità narrative”, per citare il titolo di un fortunato libro dello psicoanalista Donald Spence (1982) che, con lo psicologo “culturale” Jerome Bruner (1986, 1990), ha contribuito a introdurre l’ottica narrativa in psicologia.
Da questo punto di vista: “il mondo basato su di una sola verità e il mondo ambiguo e relativo del romanzo sono fatti di due materie diversissime una dall’altra. La verità totalitaria esclude la relatività, il dubbio, l’interrogativo, ed è quindi inconciliabile con quello che chiamerei lo spirito del romanzo ” (ibidem).
Il romanzo propone, secondo Milan Kundera, un sapere ambiguo, al congiuntivo, per cui il lettore deve elaborare un proprio giudizio e coniare una propria chiave di lettura, in quanto le narrazioni risulteranno sempre più ricche di una sola possibile interpretazione, e spingeranno il lettore alla continua rappresentazione degli eventi descritti. Questa funzione di raffigurazione, che può di volta in volta fornire una nuova interpretazione, e che si rinnova di soggetto in soggetto attraverso la lettura, è la caratteristica principale delle narrazioni. Di tutte le narrazioni, non solo quelle del romanzo. Testi o ipertesti che siano.
L’analisi di Kundera ci lascia intravedere una dinamica, una dialettica interessante tra testo e ipertesto. Scrivere un testo, infatti, non è niente altro che ordinare un insieme sconnesso e potenziale di sequenze, di scene, di possibili chiavi di lettura, di personaggi, di insiemi e di particolarità. Lo scrittore che elabora un testo lo trae – se mi passate la metafora – da un ipertesto potenziale che esiste solo nella sua mente.

Se prendiamo per buone queste riflessioni, la differenza appena tracciata tra testo e ipertesto si attenua e diviene meno drastica. I testi, come per esempio i romanzi, non sono più (o solo) portatori di teorie univoche o di un sapere lineare, ma contengono già in se stessi un’ambiguità e una complessità ipertestuale.
Per Kundera, infatti, l’anima stessa del romanzo non può che essere la sua complessità, evitando “il turbine di riduzione” imperante proprio in questo momento storico. Riduzione che anche per Giuliani e Nascimbene – come per tutti noi – costituisce un grave pericolo, un impoverimento che non può non preoccuparci. Secondo Kundera, ogni romanzo – ma aggiungerei ogni narrazione – dovrebbe dire al lettore, in maniera più o meno esplicita: “le cose sono molto più complicate di quanto tu pensi” (ibidem, pagina 36).
Da questo punto di osservazione, ogni narrazione comporta una complessificazione delle idee stesse, dello stesso pensiero di chi si pone d’avanti ad un testo. Ma l’importanza del romanzo (e dei testi), non si esaurisce in questo. Come scrive ancora lo scrittore boemo: “il romanzo non indaga la realtà, ma l’esistenza. E l’esistenza non è ciò che è avvenuto, l’esistenza è il campo della possibilità umana di tutto quello che l’uomo può divenire, di tutto quello di cui è capace. I romanzieri disegnano la carta dell’esistenza scoprendo questa o quella possibilità umana. Ma, ancora una volta, esistere vuol dire essere-nel-mondo. È necessario dunque intendere tanto il personaggio quanto il suo mondo come possibilità” (ibidem, pagina 68).
In questo modo, ogni storia, ogni narrazione risulta talmente complessa, talmente sovraccarica e ricca di significati da non poter contemplare nessuna lettura “corretta”, nessuna lettura univoca.
In ogni narrazione dovrebbe essere possibile, almeno in linea teorica, comprendere un insieme multiplo di aspetti: la dinamica degli eventi, le diverse posizioni dei protagonisti, la loro logica interna, il loro punto di vista, le loro emozioni, le loro motivazioni e le azioni che compiono nel mondo. E poi, dovrebbe essere possibile, almeno sul piano teorico, potersi identificare con i diversi personaggi, con i vari attori sulla scena, anche quando la trama è di pura fantasia. È proprio dall’articolazione di tutti questi aspetti che nasce l’opera, la storia, la narrazione. E anche la fruizione. Difatti, tutto questo, è solo un pre-requisito di quel complicato processo di ricerca e di dotazione di significato che compie il lettore. Ogni storia, infatti, racconta più di un singolo atto e pone allo scoperto un nucleo di senso più complesso, difficilmente comprensibile altrimenti. Come sostiene ancora Kundera, il tema del romanzo non può che ruotare intorno ad un problema definito, e infatti: “tutti i romanzi di tutti i tempi indagano l’enigma dell’io. Dal momento che si crea un essere immaginario, un personaggio, ci si trova automaticamente di fronte alla domanda: che cos’è l’io? In che modo si può cogliere? È una delle domande fondamentali sulle quali è fondato il romanzo in quanto tale ” (ibidem).

Le narrazioni, al pari del romanzo, rappresentano allora un tentativo di comprensione di un “io sperimentale” di un soggetto immaginario che “prova” (sperimenta) una serie di “pattern relazionali”, vissuti in determinati contesti storici e sociali, e che trova una qualche coerenza tra le diverse esperienze e i diversi linguaggi utilizzati per descrivere queste esperienze. Come suggerisce ancora il romanziere boemo: “l’io è determinato dall’essenza della sua problematica esistenziale” (ibidem, pagina 54).
Il romanzo, allora, non fa che rendere l’io un costrutto credibile e : “rendere vivo un personaggio vuol dire andare fino in fondo delle sue problematiche esistenziali. Significa cioè andare fino in fondo ad alcune situazioni, alcuni motivi, alcune parole, direi, di cui è fatto. Niente di più” (ibidem, pagina 58). E questo, aggiungo, dovrebbe essere anche il lavoro di uno psicoterapeuta.
Il concetto di “Sé” – il “Sé” come ipertesto, diremmo con gli autori – diviene allora un concetto cardine, qualcosa che prende forma solo nelle narrazioni, che emerge nelle storie stesse grazie anche ad una sorta di coerenza, ad un impossibile “minimo comun denominatore” che lega insieme diverse esperienze, diverse scene, diversi capitoli e sottocapitoli, diverse relazioni, diversi contesti e anche diversi tempi o momenti storici. Un “Sé” che è considerato, per forza di cose, multiplo, plurale, mutevole; una collezione di scene, personaggi, emozioni, voci e racconti in qualche modo vissuti direttamente.
Ogni narrazione, allora, si muove tra due diversi poli: tra la necessità di tracciare una teoria del soggetto e quella di descrivere una teoria del contesto, al cui interno il soggetto si muove. Il plot, l’intreccio, vero e proprio motore della narrazione, si sviluppa tra le diverse azioni compiute, le motivazioni dal singolo e le caratteristiche del “mondo”, l’insieme di relazioni che avvolgono il soggetto, ciò che dà senso ai suoi comportamenti, che anima le sue vicende.
Ogni narrazione, così, non è che un compromesso tra i vincoli del mondo (concreto o immaginario che sia) e la possibilità dei soggetti, mai completamente liberi, mai completamente determinati, individui che cercano una mediazione tra diverse agenzie di senso.
Narrare una storia, allora, vuol dire comporre diversi livelli di esperienza e di caratteri in una trama complessa, perché, come aggiunge ancora Milan Kundera: “comporre un romanzo vuol dire giustapporre stati emozionali diversi” (ibidem, pagina 132), vuol dire creare un caleidoscopio di emozioni che insieme formano una configurazione complessa, una vera e propria “figura emotiva”. Fine della divagazione.
Giuliani e Nascimbene, e anche lo psicoterapeuta sistemico Paolo Bertrando, che ha curato sapientemente la prefazione del libro, subito si preoccupano di evidenziare anche la continuità tra i testi e gli iper-testi. Citano infatti filosofi, “mass mediologi”, semiologi, scomodando ovviamente anche Umberto Eco, proprio per sottolineare che l’iper-testo è solo un caso specifico di testo. Una sua evoluzione. Un testo costruito via via nel tragitto stesso dell’esplorazione dei singoli testi, una narrazione senza un autore (o con infiniti autori), senza un centro, senza una direzione precisa, senza una tesi precostituita, senza neanche un tema preciso, che spesso non possiamo neanche ricostruire perché emerge in modo del tutto “situazionale” e momentaneo, un’operazione “abduttiva”, come direbbe l’epistemologo Gregory Bateson. Un altro autore che aveva per le storie un interesse e una capacità di comprensione sicuramente eccezionali.

Sfumando le differenze tra testo e ipertesto la metafora proposta dagli autori diviene meno pregnante? Direi di no.
È solo una differenza che porta altre differenze, perchè permette di evidenziare alcune operazioni del conoscere, che poi, ovviamente, andranno a riverberare anche nella pratica clinica che, con forza, Giuliani e Nascimbene definiscono ovviamente “ipertestuale”. Tale modo di intendere la clinica mette in evidenza il grado di collaborazione e di co-costruzione delle narrative nel contesto clinico, relativizzando il “potere” del terapeuta sul paziente, o sulla famiglia. Il clinico diviene così un co-narratore, un lettore ipertestuale delle storie della famiglia, o dei singoli membri. Un attore-autore-lettore di storie potenziali.
“Contestualizzare”, “ipertestualizzare” e “ipotestualizzare”, prassi coniate appositamente per elaborare (e riflettere su) diversi tipi di testi, diventano, per gli autori, delle strategie di conoscenza. E anche precise prassi cliniche.
Lavorare sulle e con le narrazioni “portate” in seduta diviene un aspetto fondamentale dell’approccio narrativo. Come in un romanzo – un iper-romanzo si intende – si possono leggere le vicende narrate in seduta in molteplici modi e riscriverle: ci si può soffermare su di un personaggio, estrapolarlo dalla sua storia e delle sue vicende (così anche la “de-contestualizzazione” potrebbe essere un’altra prassi clinica) per narrarlo in altri infiniti modi, per inserirlo in nuove storie (familiari, tri-generazionali, affettive, storiche, sociali) e così riscriverne di fatto la trama, in una continua sceneggiatura che non vede mai un punto di approdo, una fine pre-definita.
L’ipertestualizzazione consiste proprio nel far emergere da una semplice storia un complessità tale di aneddoti, eccezioni, implicazioni, da sconcertare il lettore stesso, da fargli girare la testa, tanto da fargli sperimentare la propria esistenza come “aperta”, in divenire. Una storia ancora non compiuta, ancora non scritta. L’ipertestualizzazione rende ipotetico ogni passaggio, ogni snodo per definire solo una mappa di infinite ipotesi, tutte diversamente plausibili. Sentieri che conducono a mete diverse.
A volte, però, può essere necessario fare l’operazione contraria e “ipotestualizzare” una storia troppo frammentata, un abbozzo caotico, una serie di vicende agita da personaggi “in cerca di autore”, da soggetti in cerca di una trama che li leghi insieme, di un tema comune che li possa far co-evolvere. In questi casi, il clinico deve raccogliere, riassumere, rendere coerente e confrontabile una serie di istanze non allineate, non corrispondenti, e comporre una storia, una versione pensabile e narrabile delle vicende.
Se fra testo e contesto c’è un legame, come penso, allora il clinico deve poter “giocare” con le storie, giocare in maniera serissima, si intende. Deve comporle, confrontarle e rinarrare le storie che ascolta, cogliendo i temi “locali” e quelli “globali” di cui ogni pensiero è comunque impregnato.

“Glocal” è il neologismo coniato, in quest’era digitale, che vuole cercare “un’integrazione tra un approccio che enfatizza il carattere globalizzato/ipertestuale (glo) e un altro orientamento che rivendica anche il rispetto dei saperi locali, la diversità, i punti di vista particolari o delle minoranze” (ibidem, pagina 204).
Gli autori, introducono nell’ultimo capitolo del libro il “glocal-team”, un vero e proprio intervento di rete che consiste in “un’equipe clinica interdisciplinare, che incontra il sistema naturale collegato alla situazione problema” (pagina 234). A tale team (composto da otto a quindici elementi) partecipano, oltre alla micro equipe multidisciplinare già formata e ad alcuni elementi della famiglia – almeno uno per sottosistema – anche importanti figure della rete amicale, sociale e specifica del territorio in cui si agisce. Tutti i partecipanti devono pertanto essere disposti a fungere da co-supervisori uno per l’altro, abbandonando l’idea di dirigere centralmente il processo, ma lavorando veramente in rete, una rete che si auto-definisce. Il fine ultimo del “glocal team” è quello di ristrutturare l’intervento stesso, le sue premesse e le sue modalità pratiche, così da istituire processi di pensiero e di narrazione complessi più che “classici” interventi clinici rivolti alla patologia o alla cura.
Tra aspetti globali e locali nascono e mutano le storie, le vicende umane.
La morte e la (nuova) vita, rappresentano, poi, altri due snodi cruciali, topici. Due irruzioni di infinito che aprono (e a volte chiudono) ogni narrazione, ogni svolta narrativa, ogni vicenda familiare, sociale, antropologica, umana direi.
Lo psicoterapeuta “narrativo” si interessa delle storie dei suoi pazienti sopratutto perché queste sono storie vive; trattano di personaggi viventi, reali e virtuali al tempo stesso. È per questo motivo che il “Sé” diviene un concetto cardine, come ho già detto, la descrizione di quel personaggio “inventato” che noi siamo. Un personaggio creato grazie alle nostre narrazioni, grazie alle nostre azioni. L’assurdo denominatore comune tra episodi, situazioni e momenti diversi, slegati, atti unici che comprendono anche tutto quello che accadrà in futuro, e come questo sarà poi compreso e narrato.
Il Sé, la narrazione di ciò che siamo, diviene il protagonista (a volte palese, altre nascosto) di ogni narrazione, anche la più esterna a noi stessi, e permette così di trasformare ogni testo, di renderlo dinamico, provvisorio. Questo può accadere perché si tratta sempre di una traduzione imperfetta. È la traduzione in parole, in teorie, in dialoghi, in riflessioni, di un insieme di azioni, di metafore e, solo infine, di altre narrazioni e narrazioni di narrazioni.
Proprio questa è la seconda accezione di “ipertesto” che volevo sottolineare, quella che gli autori di questo bel libro in parte sottovalutano. L’ipertesto non solo pensabile come un’apertura al mondo infinito dei link ma anche come una connessione tra formati diversi, tra azioni, immagini e narrazioni che, prese singolarmente, non hanno poi un senso. La conoscenza, e quella specialissima conoscenza che noi siamo (procedurale, iconica e narrativa), si basa su di una sensazione; la sensazione di esserci (di essere-nel-mondo), di vivere creando “connessioni costanti” tra esperienze e vissuti diversi. Un puzzle di diversi panorami e diversi soggetti che, alla fine, riesce comunque a darci un’immagine, un carattere, una fascio di storie da narrare.
In questo senso, le storie, e ancor di più le biografie, non si muovono in un universo chiuso, per quanto ipertestualmente infinito, ma intercettano anche ciò che per definizione è “fuori” del mondo della parola: le azioni e le immagini che, al massimo, possono rappresentare delle traduzioni imperfette, un uso improprio delle parole. In quanto azioni e immagini, infatti, appartengono ad un “regno” diverso da quello della parola. Secondo l’epistemologo Gregory Bateson (1967 in 1972), azioni, immagini e narrazioni rappresentano dei linguaggi che operano in parallelo, che si traducono (sempre in maniera non lecita) uno nel l’altro, ma che non possono in nessun modo assorbirsi, colonizzarsi a vicenda. Questo punto di vista sulla mente oggi appare condiviso anche da una psicoanalista molto speciale, come Wilma Bucci (1990), che ha messo a confronto alcune conoscenze proprie della traduzione cognitivista, con altre di stampo psicoanalitico. Peccato che la Bucci non ricordi e non citi mai Bateson.

Se il “Sé” rappresenta uno snodo cruciale tanto per i testi che per gli iper-testi è perché questo emerge solo nelle storie che raccontiamo. E allora, oltre all’ipertestualizzazione e all’ipotestualizzazione parlerei anche di un altro concetto: la “pensabilità”, la narrabilità, come capacità di pensare per storie, di raccontare creando nuove categorie di lettura, nuove metafore, nuove macchine che possano tradurre le azioni e le immagini in parole. Anche questa è un’operazione poetica. Lo sa chiunque abbia mai letto una poesia.
Possiamo comprendere, narrare e co-evolvere solo all’interno di una finestra di pensabilità, solo tra due margini in qualche modo definiti: tra il caos dell’ipertestualizzazione e l’ordine lineare del testo, della logica consequenziale e delle sue possibilità di condivisione. Solo in questo caso la “finalità cosciente” di Bateson (Casadio 2009) e il regno delle “inconsapevolezze” (l’inconscio, se volete) possono non solo coesistere ma anche amplificarsi a vicenda per comporre una dialogo e una vita ricca, piena.
Una vita che può anzi che deve essere narrata, vissuta e riscritta ogni volta da capo, ogni nuovo giorno e insieme a chiunque abbiamo la fortuna di incontrare, di trovare sul nostro cammino.

Bibliografia:

Badaracco G. (2000), Terapia multifamiliare. Bollati Boringhieri, Torino, 2004.
Bateson G. (1967), Stile grazia e informazione nell’arte primitiva. In Bateson G. (1972), Verso un’ecologia della mente. Adelphi. Milano, 1976.
Bruner J. (1986), La mente a più dimensioni. Laterza Bari, 1990.
Bruner J. (1990), La ricerca del significato. Bollati Boringhieri Torino, 1992.
Bucci W. (1990), Psicoanalisi e cognitivismo. Fioriti, Roma, 1992.
Casadio L. (2009), Tra Bateson e Bion. Alle radici del pensiero relazionale. Antigone edizioni, Milano.
Casadio L. (2006), L’umorismo. Il lato comico della conoscenza. FrancoAngeli, Milano.
Kundera M. (1986), L’arte del romanzo. Adelphi, Milano.
Spence D. (1982), Verità narrativa e verità storica. Martinelli, Firenze 1987.

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