Rashômon, Manuela e l’anoressia
Non mi sono ancora ripreso dalle fatiche (piacevoli) di Montegrotto Terme (PD), dove il 24 e il 25 ottobre si è svolto il congresso della Società Italiana di Psicologia e Psicoterapia Relazionale (SIPPR).
Ero in calendario la mattina del sabato con una relazione dal titolo “Come Rashômon. Un ipertesto su anoressia e relazione terapeutica” [clicca per scaricare l’abstract dal sito del Centro Padovano di Terapia della Famiglia, che è stato il valido braccio organizzativo del convegno].
Nella stessa sessione sui disturbi alimentari era previsto anche un intervento di Pietro Barbetta: abbiamo deciso di unire i tempi che ci erano stati assegnati per intrecciare un dialogo davanti al pubblico, folto, dell’aula “A”.
Perché Rashômon? Che c’entra il film di Akira Kurosawa con l’anoressia?
Rashômon è un film sulla memoria e sulla realtà, su come un evento possa dar luogo, nel ricordo di testimoni diversi, a resoconti differenti e ricostruzioni irriducibili l’una all’altra.
La mia relazione al convegno parlava di una ricerca sui disordini alimentari alla quale partecipai fra il 2003 e il 2005, quando collaboravo col Forum sulle Matrici Culturali della Diagnosi dell’università di Bergamo (coordinato proprio da Pietro Barbetta). Un gruppo di colleghi intervistò un certo numero di terapeuti che avevano avuto in carico pazienti anoressiche; io e una collega intervistammo alcune ex pazienti di quei professionisti.
Nella mia relazione al convegno raccontavo la storia di Manuela (così l’ho chiamata), una donna che dodici anni prima che la conoscessi era stata in terapia, avendo intrapreso un digiuno piuttosto radicale che l’aveva portata anche a un ricovero. Il riferimento a Rashômon sta nel fatto che quel che mi aveva colpito era il confronto fra il racconto di Manuela e quello del suo terapeuta.
Non voglio entrare nel merito dei contenuti, che magari approfondirò altrove (peraltro chi volesse conoscere il mio lavoro ed altri di quella ricerca, può leggere il numero imminente della rivista Connessioni). Quello che mi piacerebbe sottolineare è il senso di questa indagine, che consiste nel costruire un sapere sui disturbi alimentari e sulla loro terapia anche attraverso la voce delle protagoniste (e dare atto a Pietro Barbetta, ideatore della ricerca, dell’apertura e della curiosità necessarie a pensare quel lavoro).
È stato istruttivo ascoltare il punto di vista di Manuela sul lavoro del suo terapeuta, ma anche su alcuni dei più consolidati luoghi comuni circa i disturbi dell’alimentazione e le ragazze che ne sono portatrici.
Tempo prima, negli Stati Uniti, la terapeuta Mary Olson aveva realizzato un lavoro simile (che indubbiamente ha ispirato il nostro): la Olson conferì alla sua ricerca il taglio della critica femminista; noi abbiamo cercato di applicare la sua idea dell’aver “voce in capitolo” alla conoscenza del processo terapeutico, seguendo il pregiudizio che un sapere costruito su una certa classe di persone non può fare a meno della voce di quelle persone.
Sarebbe interessante tornarci su fra qualche anno, per capire in che modo l’ascolto di quelle voci ha modificato il nostro modo di lavorare in terapia.
Nel frattempo, credo che lo spirito di mettere in discussione quel che si dà per scontato sia stato colto dai convegnisti di Montegrotto che, nell’adesione e nelle osservazioni anche critiche al nostro lavoro, ci hanno confermato l’opportunità di un’indagine del genere.
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si, bene..complimenti ai relatori perchè ho trovato la loro relazione molto ben esposta (belle le due voci), creativa e soprattutto stimolante!
luigi boscolo, un tempo, si riservava un’ultima seduta del percorso di terapia per raccogliere, dal paziente, dei feedback sul percorso compiuto..e così pure con gli allievi usufruiva dell’ultima lezione del corso didattico per conversare con loro sulla sistemica, sulla terapia e sul processo di formazione.
quello che il dottor boscolo racconta rispetto a queste “necessarie esperienze” (per un terapeuta e formatore) è che , molto spesso, il paziente attribuisce il proprio cambiamento a processi (parole, gesti, riti, spiegazioni,domande ecc..) che il terapeuta neanche ricorda di aver messo in atto e\o riteneva non significativi.
ecco, questo succede con una certa frequenza ed è successo anche a me.
quindi, che cosa diviene terapeutico?
di fronte a questa domanda trovo molto utile la ricerca di giuliani e barbetta che va a posare la propria lente di osservazione sulle dinamiche dei processi terapeutici e il lavoro risulta interessante soprattutto perchè, dal momento in cui si è deciso di allargare la lente di osservazione per includere tutte le voci, sono emerse delle differenze significative.
per me questa ricerca rappresenta un approccio etico alla nostra professione, quindi invito me stessa a dar voce alle persone che incontro e ad incrociare queste voci con la mia al fine di rivisitare i pregiudizi che veicolano il mio operare.
grazie a massimo e pietro!
Pensa che di quell’indagine faceva parte una ricerca condotta in una mailing list di ragazze anoressiche. Naturalmente informate della presenza di due colleghe, furono molto disponibili a lasciarle origliare. Se ne parla in un capitolo di “Anoressia e Isteria” di Pietro, Cortina editore.