Un libro di tredici anni fa, di cui ero coautore insieme a Pietro Barbetta e Luca Casadio, si chiamava Margini. Fra sistemica e psicoanalisi, ed esplorava appunto zone di intersezione fra i due modelli. Dato che ebbe una vicenda editoriale un po’ accidentata è stato reperibile per un tempo brevissimo. Mi piace riportare qui una parte di un mio capitolo, che si intitola “Scritto sulla pelle. La metafora dell’involucro in psicoanalisi e in sistemica (e oltre)”.
L’estratto (tre paragrafi di quel capitolo) gira intorno al mito di Narciso e all’equivoco che lo vorrebbe come imbelle vanesio che ha a cuore solo il proprio involucro. Lo scrissi in un periodo in cui esploravo i temi della pelle, della connessione, del virtuale.
Buona lettura.
L’involucro e il paradosso di Narciso
Il mito di Narciso, che ha ispirato letteratura e psicoanalisi, è raccontato soprattutto da Ovidio nelle Metamorfosi.
Il bellissimo giovane era figlio del dio fluviale Cefiso e della ninfa Liriope. Quest’ultima interrogò il profeta Tiresia per sapere se il suo fanciullo avrebbe visto la propria vecchiaia, e l’indovino rispose oscuramente: “Se non mirerà mai se stesso!”.
Sullo sfondo di questa strana profezia, Narciso cresce, ammirato e desiderato, fino all’adolescenza. Fu durante una battuta di caccia che conobbe la ninfa Eco. Questa aveva una strana peculiarità: avendo ella buone doti di conversatrice, Zeus l’aveva designata per intrattenere Giunone mentre lui era alle prese con i suoi fugaci amori extraconiugali. Scopertala, la dea la condannò a ripetere le ultime parole che le venivano rivolte. Con l’abilità della parola aveva ingannato Giunone, e proprio in quella facoltà Eco fu mutilata.
Fatto sta che Narciso, avendo tentato un approccio con la ninfa, per la quale aveva lasciato ad aspettare i suoi compagni di caccia, fuggì imbarazzato gridandole “Ch’io muoia! Prima che sia di te!” (e Eco: “che io sia di te!”).
Eco, sofferente per l’abbandono del giovane di cui si era innamorata, si nascose in fondo al bosco con la sola compagnia dello struggimento d’amore. Tanto si consumò che si lei restò solo la voce, che continua a ripetere le ultime parole di chi a lei si rivolge.
Quanto a Narciso, l’umiliazione di Eco gli costò cara. Il suo castigo fu quello di inseguire l’amore senza poterlo raggiungere.
Dopo quegli eventi infatti, capitò che Narciso, sporgendosi sull’acqua, si innamorasse perdutamente del volto che vide rispecchiato. La realizzazione della profezia di Tiresia!
E infatti, una volta realizzato che l’oggetto del suo amore non esisteva (perché era lui stesso: non esisteva in quanto oggetto fuori da sé!) cedette alla depressione e la sua vita ne restò segnata.
Il personaggio del mito è entrato nel nostro immaginario, attraverso la letteratura e la psicologia, per identificarsi con l’individuo che è ripiegato su di sé, che mette sé stesso al centro del proprio amore e magari fa di tutto per esaltare il proprio aspetto esteriore, per investire in un involucro meraviglioso nel quale idenitificarsi: non tramite col mondo esterno, ma oggetto autoreferenziale.
Eppure a ben vedere quello che fa ammalare il giovane Narciso non è affatto il desiderio di amare sé stesso, che anzi altrove era indirizzato il suo desiderio: è quando scopre di essere egli stesso l’oggetto del proprio amore, che ha rivolto il suo desiderio verso un sé stesso contemporaneamente altro da sé, che resta sconvolto.
Anche secondo Lasch (2004) Narciso non si innamora di sé stesso: si incanta davanti alla superficie dell’acqua (nota Lasch, con Grunberger) mirando non soltanto il proprio volto riflesso e nel suo ritorno al liquido amniotico, in quello stato di profonda regressione, di aspirazione alla fusione, non si riconosce nel proprio riflesso. Anche per Galzigna (2001, p. 59) “la superficie dell’acqua che riflette Narciso duplicandolo lo separa inesorabilmente da se stesso, tanto che il tentativo di ricongiungersi nell’unità impossibile sarà la sua condanna a morte”.
Ciò che Narciso non si aspetta è che qualcosa di suo sia proiettato all’esterno del suo involucro: per questo egli vive la separazione, l’alterità della propria immagine rispecchiata. Non cerca una fuga dall’amore oggettuale nell’amore per la propria immagine.
È vittima di un inganno, Narciso? Di un fatale errore? Si può davvero pensare che gli dei lo abbiano truffato così crudelmente?
Non ci ha forse spiegato bene Lacan come già fra i sei e i diciotto mesi il bambino, confrontando i propri gesti con quelli della figura che vede nello specchio, sia in grado di riconoscere quell’immagine come riflesso di sé? E in tal modo comincerebbe a nutrire un’immagine corporea di sé distinta dai corpi degli altri?
Nella sua ricognizione storica sullo specchio come dispositivo di creazione di mondi virtuali, Mapelli (2010) traccia una differenza fra l’immagine riflessa nell’acqua, o l’ombra, o il sogno, che sono creazioni degli dei; e quella riflessa nello specchio come manufatto, come dispositivo in senso foucaultiano che produce immagini virtuali, allo stesso modo del prodotto dell’arte imitativa del pittore. Le prime (le apparenze, i phantasmata) opera della natura e segno dell’intervento del divino; le seconde opera di un uomo che, demiurgo, riduce la distanza col soprannaturale ma artificiali, ingannevoli, illusorie. Detto diversamente, la distinzione sarà tra ciò che è prodotto di una “tecnica divina” – ciò che è, da un lato, opera del divino demiurgo, perciò tutte le cose che “si dicono essere per natura” – e ciò che, è, invece, prodotto di “tecnica umana” (Mapelli, cit.).
Quella di Narciso è l’immagine riflessa dalla natura, e come può aspettarsi Narciso che da una divinità sia stato ordito l’inganno per imprigionare nell’autoreferenzialità il suo amore d’oggetto?
Lacan, dicevamo. Nel suo saggio sullo “stadio dello specchio” (in 1966) spiega come il cucciolo d’uomo sia capace di giungere con maggior rapidità dello scimpanzè (che pure per un breve passaggio è capace di prestazioni strumentali superiori) al riconoscimento della propria immagine come tale nello specchio. Pur vivendo una totale dipendenza dagli adulti, il bambino – ben prima dell’anno e mezzo di età – sperimenta “l’assunzione giubilatoria della propria immagine”. Riconosce quella immagine come riflesso di sé e sperimenta l’eccitazione e lo sconvolgimento di vederla fuori da sé! È la sua immagine: non è lui.
Sappiamo che ben poco ebbe invece da giubilare il povero Narciso nello scoprire quale relazione quell’immagine nell’acqua aveva con lui stesso.
Ma in qualche misura l’eccitazione del bambino di Lacan e lo choc di Narciso sembrano avere qualcosa che li accomuna. È la scoperta del doppio virtuale: di quell’immagine di sé che è fuori di sé ma non è “non sé”: tanto da poter dire che “il mito di Narciso fonda il pensare per immagini, la pittura, l’arte dei video” (Mapelli, comunicazione personale).
Eppure la storia di Narciso ci viene tramandata come la vicenda di un inganno, o di un errore, che consiste nel cercare fuori di sé qualcosa che dovrebbe essere trovato “dentro”; e nel rivolgere verso di sé un sentimento che dovrebbe essere investito “fuori”; e la tradizione designa Narciso come antesignano di un modo di organizzare la vita, le relazioni e la ricerca del piacere mettendo al centro del mondo sé stessi e ponendo l’altro in un ruolo accessorio, quando non di sfruttamento utilitaristico. O di una “perversione sessuale in cui l’oggetto preferito dal soggetto è il proprio corpo” (Ellis e Nacke, cit. in Galimberti, 1999; per una storia del concetto di narcisismo v. anche Mangiapane e coll., 2008).
Il fatto poi che ne soffra fino all’autodistruzione rinforza l’attribuzione di un significato funesto all’esperienza di Narciso.
Ma è probabile che la connotazione negativa dell’esperienza di Narciso sia figlia dello stesso pensiero che vuole cacciare il virtuale negli inferi dell’illusorio e dell’ingannevole (v. Lévy, 1995) (e magari il profeta di sventure Tiresia il padre di tutti i critici apocalittici della realtà virtuale?).
È una storia che vira decisamente verso la tragedia. Il mito ci consegna i due opposti (e comuni) destini di Eco e Narciso, entrambi ardenti d’amore e da esso consumati: la prima vive delle parole dell’altro, sottomessa e dipendente da esse, impossibilitata a esprimerne di proprie; l’altro, al contrario, prigioniero di un sentimento che non riesce a rivolgersi a un oggetto d’amore e che ritorna, come in un tragico corto circuito, su sé stesso. Entrambi alle prese con un difficile bilancio fra l’amore per l’altro e quello per sé, fra la tensione al fuori e il ritorno alla propria interiorità.
L’una condannata ad annullarsi nell’eterna conferma delle parole altrui; l’altro condannato al rivolgimento verso sé stesso e alla solitudine. Entrambi tragicamente frustrati nel loro bisogno di nutrire un amore oggettuale.
Ad ogni modo, dicevamo del mito di Narciso e della categoria psicodinamica del narcisismo. Per una rassegna storica del pensiero sul narcisismo (letto di volta in volta come patologia, difesa, o normale amore per il proprio corpo; come istanza che nasce da latenti motivi sessuali o no) si rimanda a Migone (1993a e 1993b); ma fra gli autori che ne hanno dato una definizione influente non si può non far riferimento a Heinz Kohut, che sceglie una posizione altra da quella di Freud per il maggiore interesse che rivolge alla relazione con l’ambiente. Se per Freud il conflitto è interno, per Kohut l’accento è sul conflitto fra sé e l’oggetto.
Già nel saggio sul sé abbiamo visto come alcuni concetti di Kohut, al di là delle assonanze con altri autori, devono essere intesi come concetti di ordine logico più elevato. Ad esempio, il suo “sé” (si diceva) non è da intendersi come una struttura (nel modo in cui lo è la struttura tripartita freudiana Io-Es-Super-Io, alla base della conflittualità intrapsichica: cfr. ancora Migone, 1993b) né come un oggetto osservabile, bensì come il prodotto che emerge da una osservazione, da una relazione. È proprio col concetto di narcisismo che Kohut segna una discontinuità col pensiero freudiano: il narcisismo è stato un punto di snodo importante per la storia del movimento psicoanalitico. È la questione su cui Kohut prende le distanze dalla tripartizione freudiana e inaugura un cambio di paradigma.
Pur continuando a privilegiare una prospettiva intrapsichica (sulla dialettica fra intrapsichico e relazionale in psicoanalisi cfr. Casadio, 2009), si capisce come il tentativo di Kohut di descrivere un individuo inserito in una rete di relazioni, compresa quella con l’osservatore che lo descrive: non è possibile, per Kohut, lo sviluppo di un sé maturo senza la relazione empatica con gli “oggetti-sé”, ossia le figure genitoriali. In ciò distanziandosi da Freud per affermare l’esistenza di una sola libido, la libido narcisistica.
Kohut (1982) contrasta una tendenza a considerare il narcisismo attribuendogli un valore negativo, quando non patologico, quasi che si tratti di una forma arcaica e immatura di distribuzione libidica (in confronto con l’amore oggettuale). Tale pregiudizio si spiega forse, abbiamo visto, nella cornice dei valori europei che privilegia l’altruismo e che connota di qualità negative, che vanno dall’incapacità di amare e di provare un sentimento di reciprocità alla perversione, l’attenzione verso sé stessi. Ma ci sono sempre più buone ragioni per essere scettici sul fatto che le teorie psicologiche esprimano un punto di vista di ordine superiore, o comunque critico, sulla visione propria del senso comune e della cultura in cui sono formulate (Giuliani e Valle, 2007): è esattamente in quella che nascono, immerse in quella si sviluppano. Sono espressione del loro tempo, e di quello esprimono pregiudizi e valori [nota 1].
nota 1 Il fatto che questo ci appaia come un periodo in cui il narcisismo è premiato e il corpo è al centro di un vero e proprio culto non contraddice questa affermazione, che si riferisce a una prospettiva che va al di là degli anni recenti. Piuttosto l’esasperazione di tali culti, l’esaltazione del corpo e della “buccia”, l’individualismo e il ritiro, appaiono come reazioni a un sistema di valori che storicamente è stato severo con l’oziosa cura di sé, del corpo e del piacere. |
Ma al di là delle ragioni, dice Kohut, le ricadute cliniche di tale pregiudizio sono considerevoli. Oltre a spingere il clinico a desiderare che il paziente diriga quella libido verso l’esterno, comporta una sottovalutazione teorica del “contributo del narcisismo alla salute, all’adattamento, alla realizzazione” (cit., p. 83).
Quello che chiamiamo “ritiro narcisistico”, ad esempio, è una condizione in cui la persona cerca rifugio all’interno della propria membrana psichica, per trovare sollievo per la propria pelle, provata e scorticata da traumi emotivi e ferite oggettuali.
La storia di Eco e Narciso, così, diventa prototipo di questa relazione disturbata in ragione del destino avverso che costringe entrambi a una condizione paradossale, e li imprigiona in un ciclo che non si interrompe: la ninfa intrappolata nella condizione di farsi continuamente “specchio” dell’altro, e Narciso in quella di amare un giovane che non c’è al di fuori di lui. L’inganno della separazione dei due strati della loro barriera (di Eco perché si ritrova a riflettere senza sosta l’altro al di là della propria volontà; di Narciso perché ne diventa oggetto separato) li danna e li priva dell’esperienza dell’amore.
Da questo punto di vista l’investimento narcisistico del contenitore, della barriera al di là della sua funzione di tramite (il farne specchio dell’amato; il farne oggetto d’amore; il farne contenitore sicuro per il ritiro e il sollievo dalle ferite oggettuali) per loro diventa condizione ricorsiva senza uscita anziché momento di cura di sé.
Narciso esce dal suo corpo: niente di male, guardare il proprio corpo dall’esterno, oggettivarlo può essere passaggio utile a quel narcisismo sano cui anche Kohut rivendica dignità e liberazione dalla condanna morale contenuta nella diagnosi. Ma certo non basta questo a dannarlo: non è il decentrarsi rispetto al proprio corpo, per guardarlo e ammirarlo da fuori, che potrà causarne la rovina affettiva.
Qualcosa gli impedisce di accedere al momento del “ritorno” nella propria pelle, di recuperare la posizione dalla quale, sufficientemente nutrito nel proprio narcisismo, potrà abbandonarsi all’amore oggettuale.
Dentro e/è fuori
nota 2 L’anello di Moebius è una forma geometrica tridimensionale con una sola faccia e un solo lato! La si ottiene da una striscia che viene chiusa a cerchio, contemporaneamente torcendola. Le facce interna ed sterna della carta, una volta che la striscia torta è chiusa a cerchio, entrano l’una nell’altra e così i due lati. |
Anzieu (e prima di lui Lacan) usa la metafora dell’anello di Moebius [nota 2] per spiegare il rapporto fra dentro e fuori nella pelle del narcisista (1985, pp. 155-156). Nell’anello (o “nastro”) di Moebius manca la distinzione fra un lato interno e un lato esterno, perché uno è in continuità con l’altro. Ciò vale anche per i bordi, tanto che se percorrendone uno ci si ritrova prima o poi sull’altro: muoversi dall’uno all’altro non comporta un “salto” o una discontinuità, ma soltanto un cammino lineare lungo abbastanza.
Dunque, proprio come in una figura geometrica in cui dentro e fuori sfumano l’uno nell’altro, l’Io-pelle del narcisista, dice Anzieu, soffre della confusione fra quel che viene da dentro e quel che viene da fuori. Tanto che il fuori diventa un dentro che diventa un fuori, e il contenitore diventa contenuto che diventa contenitore “che contiene male” [nota 3].
nota 3 La struttura ricorsiva dell’anello di Moebius la ritroviamo nelle visioni di Escher (vedi la “Galleria dele stampe”, in cui un ragazzo guarda una stampa che riproduce la galleria nel quale il ragazzo guarda la stampa, o in romanzieri come Borges o Calvino: in “Se una notte d’’inverno un viaggiatore” sfuma il confine fra il lettore e la storia (Lettore è il nome del protagonista) e nella descrizione della stazione ferroviaria gli elementi della storia si confondono con le stesse pagine del libro: “uno sfiatare di stantuffo copre l’apertura del capitolo, una nuvola di fumo nasconde parte del primo capoverso” (p. 11). |
Abbiamo visto (Giuliani e Nascimbene, 2009) come letteratura, cinema, arte degli ultimi anni si dedichino con particolare ricchezza di metafore alla questione dove finisca il dentro e dove cominci il fuori. L’interrogativo di Foucault (2005) su dove cominci e dove finisca l’opera di un autore diventa, in una cornice in cui la rete di testi è metafora del sé, una domanda sullo spazio dell’uomo, sulla sua storia, sul corpo. L’ipertesto e la rete delle connessioni fra testi diventa metafora della biografia e della complessità del sé (Landow, s.d.).
L’ossessione per la pelle come contenitore che, in psicoanalisi, nutre l’opera di Anzieu, in letteratura si ritrova nell’autrice postmoderna che più ha usato la pelle e il corpo per creare metafore sull’uomo postmoderno. La Jackson enfatizza gli aspetti di apertura e comunicazione con l’esterno, tanto che una metafora che ricorre nel suo già citato romanzo elettronico Patchwork Girl (v. Carbone, 2001) è quella della linea tratteggiata (cfr. Glavanakova-Yaneva, 2003). Essa è come una membrana semipermeabile che “segna una differenza senza tagliar fuori quello da cui si differenzia”.
Così Shelley Jackson nel suo romanzo cartaceo La melanconia del corpo (2004) popola la terra di umori e organi: “Sono interessata al territorio scivoloso tra il sé e il mondo esterno. Se il consumare è un tema particolarmente forte nelle mie storie, è perché la deglutizione e l’essere ingoiato letteralizza la metafora dell’attraversare un confine tra sé e l’altro. Quello che mangiamo diventa noi. Quel che ci mangia diventiamo” (in Nunes, 2004).
Così come la dispersione della personalità, fino all’estremo schizofrenico, ha a che fare con il tema della memoria in senso postmoderno. Se ogni parte del corpo dell’eroina del romanzo ha memoria del corpo a cui è appartenuta, e se le cuciture del corpo di Patchwork Girl sono i link fra differenti storie, in lei il corpo e la pelle sono piuttosto metafore di discontinuità e molteplicità, tanto quanto in Anzieu lo sono di integrità e continuità.
Sempre nel romanzo elettronico sulla “donna Frankenstein”, nella sezione “Diaspora” (che è una parola greca che sta per “disseminazione”, “spargimento di semi”) il personaggio del romanzo agisce la sua intolleranza nei confronti del limite costituito dalla propria superficie corporea, della delimitazione operata dall’epidermide.
Una mattina la protagonista si sveglia: la sua pelle si sta screpolando e le cuciture si allentano; scende in giardino e lì le sue parti si liberano. “Il concetto di ‘corpo’ è l’idea attorno a cui tutte le parti sono unite insieme: senza ‘l’idea’ del corpo (o meglio la sua struttura ideale), le parti vivono una vita indipendente. Il ‘corpo’ le obbliga a stare unite idealmente, in una costruzione ideologica, culturale e linguistica” (Carbone, cit., p. 261).
In questa ottica, il corpo è un’unità in funzione delle suture fra le varie parti. Le diverse parti del corpo della donna cercano una ricomposizione in una struttura nuova: si librano in cielo e trovano una nuova disposizione le une con le altre, alla ricerca del sovvertimento di regole che ne “mortificherebbero la complessità, la forma e il significato: la volontà del corpo e quella delle parti che lo costituiscono non devono necessariamente coincidere” (Carbone, ibidem). E, come in Jackson il corpo e le narrazioni sono metafora l’uno delle altre, il collegamento è al modo in cui si comportano le singole unità di contenuto di un ipertesto.
Claudia è laureata in psicologia. Ha un lungo soprabito nero. Truccata in maniera non pesante ma marcata, predilige i colori scuri. Si muove nella stanza e armeggia con i cosmetici riposti nella borsetta con la retorica di una dark lady. Ma, a differenza di quelle donne glaciali e ciniche dei romanzi di Chandler, Claudia piange di frequente. Lo fa con una teatralità di altri tempi, e subito corre con la mano a porre riparo al trucco che si disfa.
Quando le domandai, nei mesi scorsi, come avrebbe visto un colloquio con qualcuno dei familiari (il mio studio che presenta molte tracce dell’impostazione sistemica di gran parte della mia formazione, a cominciare dal numero delle poltroncine fra le quali scegliamo la nostra collocazione all’inizio della seduta, e le persone sono abituate a muoversi in uno spazio fatto anche di poltrone vuote, sulle quali ci capita di collocare i fantasmi di persone assenti per interrogarli; ma vivono quelle poltrone vuote anche come spazi che si possono riempire all’occorrenza), si irrigidì e mi fulminò con lo sguardo: “Non me lo chieda mai più. Ci sono confini che non si possono superare”.
Poi, nel tempo, mi spiegò che aveva sempre evitato di mostrarsi “tutta intera” alle persone della sua vita. Ai familiari, agli amici. A ciascuno aveva raccontato un pezzetto di sé, a molti di loro (quelli con cui sentiva di potersi esporre con meno rischio) aveva affidato persino una lacrima, la confidenza di una tristezza. Ma nessuno di loro, preso da solo, aveva un quadro che la ritraesse tutta intera. Solo un dettaglio a ciascuno. “E ho fatto in modo che non si incontrio mai tutti insieme”.
Perché, le domando. “Per proteggermi. Ciascuno di loro conserverà un po’ di tristezza, un sorriso, qualcosa che faccia pensare a me con simpatia. Nessuno mio vedrà tutta insieme per sapere come sono veramente”. C’è riuscita sul serio. Non senza fatiche (come si fa veramente a tenere sconnesse tutte le persone che sanno qualcosa di te?), ma ci è riuscita bene.
In una seduta in cui piange più del solito (a me, dice, può mostrare le connessioni e l’intero che gli altri non conoscono: io non esco dalla mia stanza per entrare nella sua vita, dunque non costituisco un pericolo, qualunque cosa pensi di lei) mi dice che da qualche tempo “sente” le emozioni con una intensità che non conosceva: ne è contenta, emozionata ma anche molto spaventata.
Ragioniamo su come la sua strategia di affidare un pezzetto a ciascuno l’abbia protetta dal rischio di sentirsi invasa, di perdere la sua autonomia. Ma ora è il momento di cercare uno specchio tutto intero: guardarsi in tanti specchietti troppo piccoli per rimandarle un’immagine intera ha significato anche perdere le connessioni fra tutti quegli aspetti di sé, e le connessioni sono le emozioni.
Claudia accetta di buon grado, curiosa anche (di una curiosità che la fa trepidare e la spaventa) di tornare la prossima volta con la sorella: per farsi raccontare, per farle domande, per specchiarsi nelle storie che racconta di lei e del loro rapporto di bambine, tanti anni fa.
La metafora del corpo e dei suoi confini ci torna molto utile: io e Claudia torniamo a usarla spesso per descrivere quello che le succede in questo periodo della sua vita che sembra portare novità e cambiamenti.
Dopo due sedute con la sorella, di due anni più giovane, Claudia ha annunciato alla sua famiglia che entro sei mesi lascerà la città e forse l’Italia. Ci pensava da tempo, ma era frenata dal fatto che non riusciva a immaginare la reazione dei suoi: ha bisogno di cambiare aria, persone, esperienze. Di provare qualcosa di nuovo in un posto dove debba contare solo su sé stessa.
Ora ha superato l’ostacolo più grande, dunque, e sta organizzando il suo cambiamento. Ha anticipato ai colleghi di lavoro che prima della primavera presenterà le dimissioni. Nel contempo si guarda intorno: la fretta di fuggire all’estero ora ha lasciato il posto alla curiosità di trovare un posto (vicino, lontano, in Italia, fuori) dove fare un’esperienza di lavoro e mettersi alla prova.
Mi informa che ha disdetto il contratto d’affitto. “La prima cosa da cui allontanarmi”, mi spiega, “era quella casa. Troppi sono i ricordi dei periodi brutti”. Recuperando la metafora dei confini, le dico che pare pensare al suo appartamento come a una specie di appendice della sua memoria, un contenitore dei suoi stessi ricordi, una parte di un “sé” che va da lei alle mura di casa. “È così”, mi dice. “Una parte da cui sento il bisogno di uscire, di separarmi per sempre”. Osservo che sta parlando di una metafora di una nascita, o una rinascita: come l’uscita da una pancia.
“E pensi che soltanto ora ho cominciato a trovarmici a mio agio. Ho abbandonato le mie scorpacciate tristi di patatine e di porcherie sotto le lenzuola nelle ore più assurde. Mi preparo da mangiare alle ore dei pasti. Mi siedo a mangiare e mi prendo il tempo che ci vuole…”. Le domando: “Un po’ come se il nutrimento che le arriva dentro la pancia che la ospita fosse diventato più buono, più costante, più sicuro? Più nutriente anche, e meno tossico…”.
Sorride. “Ho persino ripreso l’abitudine di guardarmi un film a pranzo, e sono riuscita a vederne uno tutto intero!”. Ho la curiosità di sapere quale film avesse scelto per salutare questa ripresa di una buona vecchia abitudine.
“Quello, come si chiama… di Hitchcock… ah, La donna che visse due volte”. Ho un’espressione sorpresa. Mi guarda cercando di capire, poi sgrana gli occhi e scoppia a ridere: “Non ci avevo pensato!”.
Narcisismo e conversazione sistemica
Nella nostra pratica clinica, frequentemente incontriamo persone a cui – in seguito a una scrupolosa ricognizione diagnostica, o in seguito a moti controtransferali cui attribuiamo una capacità di guidarci direttamente proporzionale all’esperienza clinica maturata e al numero di persone incontrate che ci hanno sollecitato tali moti – attribuiamo caratteristiche che colleghiamo a modalità narcisistiche di gestione del proprio mondo relazionale. Ci capita di incontrare persone che ci propongono un’idea grandiosa di sé; che si trovano a proprio agio nell’investire sul registro della seduzione, o della competizione; che indossano la loro pelle non come un interfaccia fra sé e il mondo esterno, non come un tramite, un mantello sfarzoso che catturi lo sguardo e lo dirotti su di sé. Al contrario, possiamo incontrare persone con la pelle segnata da ferite che non rimarginano, e si nasconderanno al nostro sguardo per la vergogna di mostrarcele.
La metafora del narcisismo è di solito una categoria piuttosto utile, anche in un contesto non psicoanalitico: Bertrando (2002) mostra le implicazioni del considerare una teoria terapeutica come un fuzzy sets anziché come un insieme classico. Vale a dire che un elemento che ne fa parte può essere comune ad altre teorie senza che questo comporti una contraddizione: a differenza degli insiemi classici, i fuzzy set (gli insiemi “sfumati”) hanno limiti per nulla netti, tanto che un elemento che li costituisce può essere al contempo sia A che non-A. Ossia, non è necessario pensare che un elemento appartenga a un determinato insieme o non vi appartenga affatto: la logica degli insiemi sfumati prevede che quell’elemento possa avere diversi gradi di appartenenza, di cui la non appartenenza e l’appartenenza totale sono solo i due estremi. Così, è pertinente che alcuni costrutti nati dentro una cornice teorica stiano più o meno a proprio agio anche in altre.
La categoria del narcisismo parla non soltanto di una struttura interna, ma della modalità di gestione della barriera fra dentro e fuori, della relazione con quello che c’è al di là. In questo senso trova collocazione e utilità in una cornice relazionale e non soltanto interessata alla descrizione dell’intrapsichico.
Luigi Boscolo, che da anni recupera categorie della propria esperienza psicoanalitica precedente all’introduzione della prospettiva relazionale e alla stesura di Paradosso e controparadosso (Selvini Palazzoli e coll., 1975), fa spesso riferimento al concetto di narcisismo per descrivere, ad esempio, il modo in cui taluni individui utilizzano lo spazio terapeutico come un palcoscenico per mettere in scena sé stessi. La presenza di una équipe di coterapeuti che al di qua dello specchio unidirezionale ascolta in silenzio contribuisce a fare del setting di terapia familiare un luogo che ha straordinarie somiglianze col palcoscenico di un teatro (e della tenda che si apre in stanza di supervisione prima di iniziare la registrazione della seduta, un surrogato del sipario!).
La conversazione terapeutica sarà una incessante andirivieni fra dentro e fuori. Guidati dalle domande ipotetiche e sul futuro (Penn, 1985; Tomm, 1987), terapeuta e clienti esploreranno i territori lontani, usciranno dai confini che conoscono e persino usciranno da sé per osservare la realtà da un punto di vista decentrato.
Attraverso la pratica delle domande triadiche (Selvini Palazzoli e coll., 1980; Boscolo, Cecchin, Hoffman e Penn, 2004, p. 113 sg.) le persone sono guidate a sospendere la fiducia nel proprio punto di vista e ad esplorare i mondi possibili costituiti dalla prospettiva degli altri osservatori, dei quali diverranno a loro volta osservatori (v. anche Giuliani, 2011) [nota 4]: “Cosa pensa suo marito quando lei decide di svegliarsi alle undici?”. “Cosa passa per la testa a sua moglie quando sua figlia lascia la minestra nel piatto?”.
nota 4 Barnett Pearce (1989) descrive l’intervista triadica di Milano come un esempio di comunicazione cosmopolita realizzata, perché incoraggia lo scetticismo nei confronti della “verità” di un punto di vista unico.. |
“Beh, lo domandi a lui!”. Oppure: “Non posso saperlo, se lo faccia dire da lei”. l’invito a mettersi nei panni dell’altro per provare a fare ipotesi su come quello ci vede è una proposta che sfida le barriere. È un invito a sperimentare altri punti di vista, alla mobilità dei confini e a sentirsi parte di un circuito che non termina con i confini dell’epidermide.
Bibliografia
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- Bertrando P. (2002), “La Scatola vuota. Usi della teoria sistemica”, in Connessioni, 11, pp. 37-52.
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- Casadio L. (2009), Tra Bateson e Bion. Alle radici del pensiero relazionale, Antigone, Torino.
- Foucault M. (2005), “Che cos’è un autore?”, in Antologia. L’impazienza della libertà, Feltrinelli, Milano.
- Galimberti U. (a cura di, 1999), Psicologia, Garzanti, Torino.
- Galzigna M. (2001), Volti dell’identità, Marsilio, Venezia.
- Giuliani M. (2011), voce “Domande triadiche”, in Nardone G. e Salvini A., a cura di, Dizionario internazionale di psicoterapia, Garzanti, Milano.
- Giuliani M. e Nascimbene F. (2009), La terapia come ipertesto, Antigone Edizioni, Torino.
- Giuliani M. e Valle A. (2007), Uomini e donne oltre lo specchio. Differenza di genere e terapia della famiglia, Psiconline Edizioni, Chieti.
- Glavanakova-Yaneva A. (2003), Body Webs: Re/constructing Boundaries in Shelley Jackson’s Patchwork Girl, in Journal of American Studies of Turkey 18: 65-79
- Jackson, S. (2004), La melancolia del corpo. Minimum Fax, Roma.
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- Lasch C. (2004), L’io minimo. La mentalità della sopravvivenza in un’epoca di turbamenti, Feltrinelli, Milano.
- Lévy, P. (1995), Il virtuale, Cortina, Milano 1997.
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