Psicologia & psicoterapia

Formazione sistemica
Integrazioni, neotecnicismi post-narrativi, amnesie ed eclettismi vecchi e nuovi

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1. Una teoria non è un martello (e la depressione non è un chiodo)

Come un po’ per tutti, la mia formazione alla psicoterapia è stata un andirivieni fra due poli. Da una parte la scelta di un approccio elettivo, di una visione del mondo nella quale riconoscere un modo di guardare mio, o che potesse diventarlo: è una scelta che impegna un professionista per un certo numero di anni e costruisce una cornice per il resto della sua carriera, e perciò è necessario che sia una scelta d’amore. Dall’altra, la necessità di non chiudermi dentro una parrocchia di persone vicine, talvolta di cercare idee e storie al di fuori di quella. Come dicevo, è un po’ la storia di tutti, ma quello che caratterizza un professionista rispetto a un altro è, per esempio, il punto in cui sceglie di collocarsi fra quei due poli: più verso il primo, in una posizione dicome dire?fedeltà, con vari gradi di ortodossia, al proprio modello; o più verso il secondo, in una posizione di eclettismo o, per usare una parola che risuona continuamente nella testa di chi fa questo mestiere, di integrazione.
D’altra parte nelle conversazioni al riguardo un argomento molto popolare è che una teoria non vede tutto e non risolve tutto, e che avere più strumenti è segno di responsabilità clinica e scientifica.

Sembra un’idea che prende forma da quello che pensiamo della medicina (le metafore mediche esercitano sempre un peso formidabile sulla cura della parola): diverse specialità si occupano di problemi diversi. Ma la differenza che passa — per esempio — tra un sistemico, un terapeuta psicoanalitico e un cognitivo comportamentale non è quella che passa tra un gastroenterologo, un ortopedico e un cardiologo. Il terapeuta si occupa di umani o di loro aggregati, e quando si parla, soprattutto in ambito sistemico, di equifinalità e di multifinalità, vuol dire che configurazioni del tutto differenti possono portare allo stesso sintomo, come contesti simili possono generare risultati molto diversi: la “scelta” di un sintomo anziché un altro, non arrivo a dire che sia quasi contingente, ma insomma diciamo che può prendere strade diverse in situazioni simili. In medicina, invece, la frattura di una tibia e l’insorgere di un infarto attengono a processi piuttosto differenti e dunque a branche e competenze con poche aree di sovrapposizione. Nel nostro ambito domande come “tu ti occupi di disturbi alimentari?” o “tu sei specializzato in attacchi di panico?” sono più frequenti che sensate. Un terapeuta è specializzato in classi di vicende umane, il cui esito può essere di vario tipo in ragione di una miriade di concause e di elementi anche casuali. Che poi sia sano e raccomandabile che ciascuno di noi identifichi condizioni in cui, per proprie ragioni emotive e biografiche, si sente più a proprio agio o altre su cui preferirebbe non affacciarsi, è un’altra questione, che chiama in causa la sua responsabilità, oltre che il suo sacrosanto diritto di proteggersi.

Ma soprattutto, nelle conversazioni fra colleghi, la metafora ricorrente è quella della cassetta degli attrezzi: la formazione te ne fornisce una, ma se con la tua collezione di cacciavite e chiavi inglesi devi battere un chiodo, fai bene a procurarti altrove un martello. E però anche la metafora degli “attrezzi giusti” applicata alla psicoterapia ha senso in parte e in parte no. Ha senso perché ricorda al clinico di non cedere mai all’illusione di capire tutto e di sentirsi compiuto. Non lo ha perché una teoria (e le pratiche che da essa derivano) non è proprio come una cassetta di attrezzi neutri, di cui si può dire solo se funzionino o no.
Non c’è niente di neutro nello scegliere di affidarsi a una teoria o a un’altra. Una teoria non è qualcosa di cui si possa dire che spiega l’umanità meglio di un’altra: la scelta di una teoria è la scelta di una lente invece che un’altra, è la scelta di guardare il mondo da un punto di osservazione anziché da un altro. Ha molto meno a che fare con la verità che con la responsabilità.

Dunque là fuori non ci sono problemi neutri e definibili univocamente, per i quali procurarti gli strumenti più adatti. Ci sono problemi umani, sofferenze che in terapia, per prima cosa, cioè prima ancora di una soluzione, trovano una lettura qualcuno dice una diagnosi. E quella diagnosi, appunto, non è una descrizione neutra.
Quando dico di un oggetto che non è neutro intendo che è definito dentro una cornice di valori, e una cornice di valori ha a che fare con una scelta. Posso definire un comportamento come indesiderabile e posso mettere in atto interventi che lo facciano sparire, con la terapia della parola o con dei farmaci; posso definirlo invece come una conseguenza di un assetto psichico e di una storia, e posso provare a comprenderlo; posso definirlo come una qualità emergente di un sistema relazionale, e invitare un sistema familiare per esempio a vederlo come una costruzione collettiva e non come un comportamento individuale.

Tutt’e tre le lenti guardano allo stesso oggetto, ma gli danno un senso differente — e dunque non è più lo stesso oggetto. Di un paziente depresso uno può decidere che ha bisogno di esplorare e rendere visibili condizioni interne e inconsapevoli che hanno generato un malessere; un altro può cercare il senso di quel malessere dentro un malessere più grande di cui un paziente si fa in qualche modo portavoce, o di cui è la parte visibile; un altro ancora può pensare che si siano incasinati i recettori della serotonina e che non c’è niente di meglio che un buon farmaco.
Cacciavite e martelli possono essere valutati dentro una cornice di utilità o inutilità: per quel compito ci vuole l’uno anziché l’altro, e in quella categoria di attrezzi quella marca sarà più affidabile di quell’altra. Qui invece siamo nel campo dei significati e della responsabilità: più lenti osservano la medesima realtà, e lo fanno dentro cornici di senso, e con conseguenze e implicazioni, cliniche e persino etiche, parecchio differenti.

Insomma, non è vero che per quel sintomo è più utile quello strumento e per quel problema quell’altro: utile, ancora, non è una definizione neutra. Utile a che? A far passare un sintomo in fretta? A innescare una riflessione su di sé? A rendere più flessibile un assetto relazionale?
Insomma, quando scegli la tua teoria di riferimento ti assumi la responsabilità di affidarti a una visione del mondo. Quando scegli un martello no, dai.

Tornando agli anni della mia formazione, l'”integrazione” era un vero feticcio. Così, un po’ perché eravamo spinti da quella necessità, vera o presunta, di attrezzarci al meglio, un po’ perché ero curioso (in fondo mi ero avvicinato alla psicologia leggendo Il piccolo Hans a quindici anni) imboccai una esaltante deviazione in direzione psicoanalitica. Poi sapevo che i miei maestri, quelli che avevo conosciuto e quelli che sarei andato a conoscere di lì a poco, erano stati psicoanalisti, e il fatto di venire da un’altra storia mi pareva che desse al loro pensiero uno spessore speciale. Non era stato il mio percorso, ma mi sembrò una buona idea provare almeno a fare la strada all’inverso e poi di lì tornare a casa.
Un luogo comune assai diffuso anche nei primi circuiti sistemici che frequentavo era quello per cui la sistemica era inadeguata a occuparsi di emozioni. Per tante ragioni oggi penso che fosse un giudizio non tanto superficiale, quanto proprio fallace. Ma com’è, come non è, l’idea ricorrente era che se volevi comprendere le emozioni, non c’era niente come la psicoanalisi per farlo.
Per alcuni anni mi misi d’impegno a trovare il modo di “integrare” la visione relazionale con quello che apprendevo in quel pezzo di strada. A posteriori, le idee che trovavo assomigliavano piuttosto a mostri a due teste, mescolavo livelli e lenti aumentando la confusione in una entropia che raramente produceva ricchezza. Il mio tentativo ebbe maggior fortuna un po’ di tempo dopo, perché nel frattempo era capitato un fatto.

2. Il mito dell'”integrazione”

Quello che era successo nel frattempo fu che lessi le cose scritte da Luigi Boscolo negli anni ’90, in particolare Terapia Sistemica individuale (1996), uno dei due libri scritti con Paolo Bertrando. Quel libro conteneva una storia che considero uno dei maggiori lasciti che ho raccolto da quello che dopo quella lettura sarebbe stato uno dei miei Maestri (sull’eccitazione per quella lettura decisi che la mia formazione, che già contava su un corso quadriennale di terapia sistemica, non era finito: tornai a Milano perché dovevo assolutamente conoscere il Centro Milanese di Terapia della Famiglia). L’idea che mi colpì aveva a che fare col fatto che avevo sempre pensato ai sistemici più grandi di me come psicoanalisti che a un certo punto avevano scoperto una chiave di lettura migliore. Così almeno essi stessi si erano raccontati fino a quel momento, e un libro rivoluzionario al quale Boscolo aveva contribuito nel 1975 come membro del primo gruppo milanese, cioè Paradosso e controparadosso, era il tentativo di fondare un nuovo corso dopo essersi liberati delle scorie psicoanalitiche del passato. Ebbene, quello che mi sorprese nel libro del ’96, e che mi procurò da pensare per un bel po’ di tempo, era l’ammissione che pensare di cancellare un pezzo della propria biografia non è possibile.
La propria biografia significa anche i libri letti, le idee in cui si è creduto, le teorie da cui si è stati affascinati, e “non è possibile cancellarla” significa che non è possibile sbarazzarsi di un’idea che è stata importante e rimpiazzarla con un’altra. Come nel caso di una nuova pianta che si giova di un terreno fertilizzato dalla coltivazione precedente, le nuove idee non cadono su un terreno neutro (avrete capito che in questa faccenda c’è ben poco di neutro), mettono le radici in un contesto che non è una tabula rasa. Noi ci siamo formati anche nel rapporto con quelle idee che ci hanno influenzati emotivamente e che per quello costituiscono la nostra storia. E con la nostra storia ci facciamo i conti anche in questo senso.

Non abbiamo una cassetta di attrezzi: siamo una collezione di lenti. E non ci sono attrezzi: osservare, entrare in relazione, descrivere quello che si vede con le proprie lenti, proporre connessioni, riflettere sui propri pensieri, tutto questo costruisce un contesto in cui le idee si mettono in movimento, si conquistano uno spazio per muoversi più agevolmente e per modificarsi. Il mestiere del terapeuta è osservare e fare domande, è interrogarsi su come osserva e su come usa le sue lenti e le sue teorie; lo fa acquisendo la capacità di dislocarsi, di assumere di volta in volta un punto di vista differente. In tal modo contribuisce a creare una realtà in cui i fatti non hanno una sola spiegazione, e in cui una lente può essere usata e poi riposta per lasciare spazio a un’altra, o le teorie possono fare una da cornice all’altra. Ogni lettura, ogni ipotesi, ogni domanda entreranno nella rete delle storie prodotte in seduta, con effetti che il terapeuta non può (vogliamo dire “non sempre può?”) prevedere.
In questa cornice, anche quando fa un intervento un po’ più attivo (persino prescrivere qualcosa da fare a casa, sì), si sente un esploratore di possibilità: introduce una nuova perturbazione, e chissà in quale modo originale quel sistema compenserà quella perturbazione.

Per quanto mi riguarda, il senso che riuscii a trovare alla deviazione che avevo operato era nel fatto che i libri e le esperienze nella psicologia dinamica mi avevano fatto conoscere altri vocabolari, e mi misi a lavorare per aggiungere altre lenti alla mia collezione. Le cercai in campo artistico, per un periodo mi misi a studiare scrittura e narratologia. Si parlava tanto di terapia narrativa e di storie, e volevo capire cos’è precisamente una storia. Mi servì anche per comprendere che “vivo” una seduta anche come un evento “ritmico”, come una struttura narrativa. Approfondire questo aspetto ha molto arricchito il mio rapporto con quello che faccio come terapeuta.
Quello che voglio mettere in luce è la differenza fra il costruire un proprio modello in chiave “epigenetica” e il compiere quella operazione, guidata dalla finalità cosciente, che chiamiamo integrazione, o affidarsi a quell’eclettismo da più parti raccomandato come una via per offrire maggiori competenze scientifiche: sono soluzioni che non implicano una relazione del terapeuta con le sue teorie. Non c’è nessuna scelta d’amore. Qui invece il terapeuta compie un atto di responsabilità, si implica con la propria storia, prendendo atto che il suo sguardo non è neutro ma passa attraverso una quantità di lenti che conosce (le sue teorie, le sue premesse) e anche attraverso quelle che lì per lì non riconosce (risonanze personali, il ricordo di una storia, un film che lo ha emozionato). Che il suo sguardo, insomma, non è guidato da una teoria, ma da una rete di teorie che non sono raccolte da qualche scaffale, ma sono la sua biografia.
Così come appare sempre più improponibile l’idea di una integrazione come operazione deliberata, neanche volendo è possibile una posizione di purismo teorico.
È evidente anche che, essendo quella rete intessuta di contenuti ed esperienze di uno specifico terapeuta, essa non può essere insegnata. Quello che può essere insegnato è saper tessere la propria rete; saper riconoscere il crocicchio di storie e premesse nelle quali la propria vita si colloca. Come ho detto altrove, questo sguardo autoriflessivo è costante nella formazione alla professione terapeutica, e a differenza da quel che accade in altri modelli, non è un momento parallelo a quello dell’apprendimento dell’approccio e del mestiere, ma è strettamente intrecciato ad esso, è una riflessione in azione.

3. Allora tutto va bene? Posso mettere insieme quello che mi pare?

Come insegna Bateson, non è possibile pensare due pensieri contemporaneamente: non si può pensare nello stesso momento “è estate” e “è inverno”. Quello che si può fare è pensare a proposito di pensarne due. Insomma, non si aggiunge un pensiero a un altro pensiero: I pensieri non si sommano, si combinano. In questo senso la teoria di un terapeuta non è una lista di pensieri e di teorie sull’umano e sulle relazioni: è un unico pensiero, un’unica grande rete. Questo pone il problema, non certo di una rigida coerenza interna di quella rete, ma almeno di una passabile congruenza fra quelle idee. Posso tenere insieme l’idea che la realtà sia oggettivamente conoscibile e uno scetticismo di tipo costruttivista sulla possibilità di conoscerla? Non posso. Ma per esempio posso decidere che in un dato momento guarderò le cose come se fosse possibile: perché mi è utile, perché mi aiuta a comprendere le ragioni di qualcuno che ne è convinto o, strumentalmente, perché ho bisogno di contenere il flusso delle descrizioni possibili. Posso tenere insieme l’idea che gli individui fanno la relazioni e l’idea che gli individui emergono dalle relazioni? Sono due pensieri forse opposti, ma quello che posso fare è guardare le cose prima da un punto di vista e poi dall’altro. E magari sceglierne uno dei due come sovraordinato, come “cornice”.
Una rete di teorie può tenere insieme tante idee, ma non tutte. E soprattutto ha bisogno di chiarire in che rapporto stanno fra loro quelle teorie. Se il clinico non ha ben chiaro se il suo sguardo sul mondo sia uno sguardo realista oppure costruttivista, combina pasticci e salta inconsapevolmente da un punto di vista all’altro senza capire dove guardare. Ad esempio c’è differenza fra il trattare un sintomo come un comportamento che nasce “dentro” una persona, e che va curato ed eliminato, e vederlo sotto il profilo della comunicazione, ad esempio come una narrazione condivisa, o un modo di comunicare qualcosa.

Può pensare che i comportamenti delle persone emergano dalle relazioni, e può pensare anche che, al contrario, le relazioni siano un prodotto di come le persone sono e di quello che fanno. Dette così sono due idee estreme, ed è utile pensare che contengano entrambe una parte di verità. Ma non può pensarle insieme, deve pensarle ponendosi ora in una prospettiva, ora nell’altra. E magari scegliere quale delle due, nella sua visione del mondo, è più utile come cornice per contenere anche l’altra. Per come la vedo, ma posso sbagliarmi, una teoria relazionale può contenere letture individuali più agevolmente che il contrario.
Aiuta il fatto che, accanto a concetti che sono del tutto propri di una teoria, esistono concetti che possono stare a proprio agio — sì, magari con un diverso grado di agio — in cornici differenti. Anni fa Paolo Bertrando spiegava che in fondo le teorie non sono insiemi classici booleani, ma hanno confini fuzzy, sfumati. E che ad esempio, se l’inconscio è un costrutto al cento per cento psicoanalitico, qualche genere di inconscio era ipotizzato anche da Gregory Bateson. Questo non coincide esattamente con quello freudiano ma insomma, in qualche modo, con qualche accortezza, posso usarlo in quella zona di intersezione (tertium datur) senza fare troppa confusione.

Ora, se uno decide che una cornice relazionale è utile (e io lo penso per parecchie ragioni, alcune delle quali dirò un po’ più avanti), è necessario essere d’accordo su alcune premesse. Sono poche l’approccio relazionale è tutto sommato piuttosto leggero ma, almeno quelle, sono difficilmente negoziabili:

  • la prima, ovviamente, è che l’oggetto di osservazione sono relazioni e contesti;
  • la seconda è che il modello di causalità con cui si leggono gli eventi sia circolare;
  • la terza è che nella relazione si costruisce la realtà, che quindi non è data come “oggettiva”, ma come emergente dalla relazione e dal linguaggio.

È davvero il minimo che si può pretendere, e rappresenta una dotazione talmente esigua che credo nessuno mi accuserà di settarismo se dico che se almeno di tanto in tanto non gli butti un’occhiata, beh, stai facendo un’altra cosa.

4. “Però funziona”

In area sistemica si assiste da qualche anno a un generalizzato ritorno dell’attrazione per le tecniche terapeutiche brevi ed immediatamente efficaci (dal momento che con “sistemica” oggi si indicano realtà che non sono completamente assimilabili, per capirci mi riferisco con questa definizione a un’area di pensiero di derivazione sistemico cibernetica che si è confrontata, con risultati diversi e anche con sensibili differenze interne, col costruttivismo, col postmoderno e con la narrativa).
Dopo che una profonda rielaborazione della storia e della teoria lo aveva portato a suo tempo a lasciarsi alle spalle le tecniche paradossali, oggi il mondo sistemico sperimenta una forte attrazione per le tecniche EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing, cioè “desensibilizzazione e rielaborazione tramite movimenti oculari”), un insieme di metodi e strategie atte a dare sollievo in pazienti con esperienze traumatiche.
Parecchi studenti investono in formazioni parallele o addirittura frequentano corsi offerti dentro la stessa scuola di specializzazione, evidentemente con l’idea di colmare un bisogno che non sentono soddisfatto dentro la cornice fornativa che hanno scelto. Indubbiamente siamo in un momento storico in cui gli interventi brevi e finalizzati sono premiati dal mercato, si prospetta l’incubo di un sistema sanitario privato e sempre più in mano alle assicurazioni. In questo clima i giovani professionisti cercano un posto al sole o almeno un modo per gettarsi nell’agone prima possibile. L’EMDR conosce un successo sconfinato, persino gli influencer ne amplificano la popolarità e una macchina di propaganda portentosa fa il suo. Voglio dire, niente di male. Magari qualche volta quella macchina fa riferimento ai dati della ricerca sulla tecnica applicata al trauma confondendo “efficace” con “elettiva”, ma non sottilizziamo.
Talvolta le scuole di formazione, che poi sono i luoghi in cui nascono ed evolvono le nostre idee e le nostre pratiche, anziché aprire una riflessione su questa percezione dell’approccio sistemico (che è una questione scientifica ma anche culturale e infine di mercato, e in tutt’e tre i sensi è piuttosto cruciale per il futuro di quello che facciamo), integrano nelle pratiche e nei programmi della formazione l’apprendimento di quelle tecniche.

In un convegno di sistemici della fine del 2023 (i convegni sono quelle occasioni in cui si fa bisboccia e fra una cosa e l’altra si costruisce la storia di una disciplina o di una comunità scientifica e culturale) si è praticamente celebrato ufficialmente l’innesto di questa tecnica nella pratica della terapia della famiglia. Negli ultimi minuti di quel convegno, poco prima di scappare tutti al proprio treno, si è persino proclamata esplicitamente la totale coincidenza di mente e cervello. Considerato che erano gli ultimi minuti, niente di strano che non ci sia stato il tempo di spiegare cosa a questo punto dovremmo fare dell’ecologia della mente, di Bateson e di tutto quello che continuiamo a insegnare a partire dalla metafora del bastone del cieco. Ricordate? “Il mio sistema mentale finisce all’impugnatura del bastone? O finisce dove finisce la mia pelle? Incomincia a metà del bastone? Oppure sulla punta?”.
Dopo anni passati a discutere di terapia come scienza ermeneutica, di complessità e dello statuto di realtà della nostra esperienza del mondo, questa specie di determinismo neurologico applicato alla risoluzione di problemi ha tutta l’aria di un cambio di paradigma. Se quella che era una legittima e rispettabilissima linea di ricerca di alcuni clinici diventa parte di quello che i sistemici raccontano di sé in un convegno pubblico e poi in una collezione di atti, se in più contesti la formazione sistemica innesta questi nuovi elementi, sta accadendo qualcosa che non è banale.

Per essere chiari: non ho nessuna obiezione sull’efficacia di quelle tecniche, efficacia che d’altra parte è dimostrata in varie ricerche. Semplicemente la questione dell’efficacia è irrilevante per quello che voglio dire qui. Anzi, facciamo che condividiamo il presupposto che la tecnica EMDR è efficace, efficacissima, stra-efficace. Lo dico anche per chi, a una obiezione epistemologica risponde: “però funziona”. “Funziona” non è un giudizio neutro. Anche il mio pensiero su cosa funziona e cosa no sta dentro un sistema di valori. “Funziona” non significa la stessa cosa per un comportamentista e per uno psicoanalista. Per un terapeuta sistemico la fine di una terapia di coppia che ha funzionato può coincidere con la decisione di separarsi, ma ad esempio il parroco non gli darebbe una medaglia. Fidatevi, so di che parlo.
Funzionavano, e come se funzionavano, le tecniche paradossali. Ne abbiamo certificato persino la superiorità in contesti come il disturbo alimentare, se decidiamo che funziona vuol dire che obbedisce allo scopo di cancellare un comportamento sgradito. Eppure le abbiamo abbandonate per tante implicazioni etiche che ci hanno portato a cercare un approccio più limpido e meno manipolativo, e perché “funziona”, di suo, ha poco senso.

Col tempo, ad esempio, abbiamo imparato — e abbiamo insegnato! — che il terapeuta eticamente accorto si domanda se un intervento “efficace” può essere quello che riduce al silenzio un sintomo che solleva un conflitto. Oppure che riporta il paziente a condizioni che lo rendano di nuovo compatibile col sistema produttivo. Negli anni più vivaci della nostra storia abbiamo assistito al dibattito sull'”efficacia” di una terapia che armonizzi i comportamenti di un o una paziente con premesse familiari e culturali autoritarie o patriarcali.
Come accadeva (o come la teoria spiegava che accadesse) nel caso delle tecniche strategiche controparadossali, una terapia può essere efficace nonostante o al di là delle intenzioni e della comprensione del/della paziente. Un problema etico che ci ha impegnato a lungo, per esempio, è quello per cui se penso che la terapia debba aiutare le persone ad avere più possibilità di scelta, e di muoversi dentro quelle possibilità con accresciuta capacità, potrei pensare che la remissione di un sintomo non è, da sola, un elemento che mi fa ritenete efficace ed eticamente inattaccabile un intervento.
E così via.
Cito questo breve e casuale elenco di problemi non con la pretesa che ciascuno di essi preveda una risposta esatta o univoca, ma per dire che ritengo scientificamente insufficiente e retoricamente fallace qualunque riduzione di una questione teorico epistemologica a “però funziona”.

5. (L’ho già detto che non c’è niente di neutro?)

Viviamo un momento storico feroce da molti punti di vista e credo che le cose che il movimento sistemico ha da dire, oggi siano quanto mai necessarie. Credo che saper mettere l’accento sulla relazione, pensare in termini di responsabilità condivisa, saper costruire modi creativi di pensare al conflitto e di comprendere ragioni e punti di vista, siano competenze di cui in questo momento c’è bisogno come dell’aria.
E in tutto questo, la terapia della famiglia nei servizi è ridotta che, al confronto, la foca monaca scoppia di salute.

Col tempo abbiamo preso la distanza da un modo che molti di noi ritenevano tecnicistico e disumano di renderci utili alle persone. Ma il fatto che abbiamo sviluppato una diffidenza sulle tecniche guidate dalla finalità cosciente, non vuol dire che non abbiamo una tecnica. Una tecnica che è poco più che un modo di fare domande ma che è un precipitato della teoria, una traduzione in azione di una idea del mondo.
Per inserire una nota personale: un pensiero che quasi mi commuove ogni volta che ne parlo con gli allievi in formazione è che Barnett Pearce descrisse l’intervista sistemica del Gruppo di Milano come una delle rarissime forme realizzate nella pratica dell’utopia di una comunicazione veramente cosmopolita. Lo trovo uno dei più grandi riconoscimenti tributati all’opera di Luigi Boscolo e di Gianfranco Cecchin, di Mara Selvini Palazzoli, di Giuliana Prata, di quella prima generazione di terapeuti sistemici di Milano che ci hanno insegnato il mestiere. Vuol dire che in quel modo di fare domande c’è un’idea sul mondo, sulle differenze, sulla convivenza, se posso esagerare vorrei dire: un’idea sulla pace. Non so a voi, ma a me questo fa sentire una grande responsabilità.

Già la scelta di guardare oltre il paziente individuale, e di leggere i comportamenti in chiave familiare e relazionale, ebbe l’effetto di introdurre un concetto a suo modo rivoluzionario: parlare di “paziente designato” a proposito del portatore del sintomo lo libera dallo stigma e introduce la prospettiva di una assunzione condivisa di responsabilità.
Col tempo abbiamo imparato che praticamente non c’è una scelta di guardare il mondo che non abbia conseguenze etiche, e non c’è una scelta etica che non abbia conseguenze sul modo in cui ci posizioniamo per guardare il mondo.
Ma è come se una buona fetta del movimento sistemico — senza un minuto di dibattito, senza problematizzare, praticamente senza dirlo — rinunciasse al senso di quella storia per scegliere un posizionamento che il mercato certamente premierà — credo lo stia già facendo — ma che segnerà la riduzione all’irrilevanza di una storia che in questo passaggio storico individualista e violento è ancora più necessaria.

In questo riduzionismo che identifica la mente con l’organo e che rinuncia non dico al relazionale, ma anche allo psichico, c’è un sostanziale ritorno alla prospettiva individuale e alla causalità lineare. Svanisce tutta la riflessione sul tempo e sul rapporto tra presente, passato e futuro. Scompare qualunque implicazione sulla costruzione della realtà e sul ruolo dell’osservatore. Si rinuncia ad un pensiero sul contesto culturale e sociale, sul momento attuale e sulla realtà circostante.

È come se un sacco di questioni già abbondantemente tematizzate fossero sparite dalla memoria, è come se la storia cominciasse ieri mattina.
La storia sistemica nasce anche da riflessioni sul tema del cambiamento, dallo studio del cambiamento spontaneo, dallo scetticismo sulla teoria del’insight. Quella sistemica è forse l’area che più di tutte e con più puntiglio ha posto il problema del cambiamento: cosa significa, cosa lo provoca, come succede che le cose cambino a dispetto delle intenzioni di mantenerle ferme: dagli anni del paradosso comunicativo sappiamo che il cambiamento avviene per vie bizzarre, che non di rado procede per direzioni contrarie a quelle verso cui si spinge. Tutta la ricerca su queste nuove tecniche, che ne certifica la spettacolare efficacia, sottolinea anche la difficoltà di attribuirla a fattori specifici di questa tecnica, e anzi apre alla possibilità che quella efficacia sia un prodotto di aspetti aspecifici. Per di più mette l’accento sugli effetti della rinarrazione (ricorda niente?), che sono modalità di lavoro più o meno in molti approcci terapeutici (appunto: ricorda niente?), rispetto ai quali le meta analisi suggeriscono una sostanziale equivalenza. In quello spazio, in quel dibattito, i sistemici avrebbero tanto da dire, è esattamente la loro materia.

6. Amnesia?

Sono cresciuto in un movimento che poco prima del mio arrivo ha vissuto l’orgoglio di essere un’avanguardia nel mondo, con un’idea eversiva rispetto al resto del panorama. Quel movimento può avere il coraggio di costruire una propria teoria del trauma, di dire qualcosa di relazionale al riguardo, anziché andare al traino, anziché cercare innesti improbabili. Peraltro nella famiglia sistemica, diciamo, allargata, c’è chi lo sta facendo.

È ovvio che penso che l’approccio dovrebbe evolvere, nei miei limiti cerco di fare la mia parte. Al riguardo credo che il pensiero batesoniano abbia soltanto cominciato a dispiegare la sua ricchezza e la possibilità nell’ispirare i terapeuti relazionali, e credo che rinunciare a quel pensiero per celebrare qualche strano matrimonio, sebbene conveniente, sia una scelta legittima di singoli clinici, ma la sudditanza volontaria e felice di una grande fetta di quest’area culturale mi riesce meno incomprensibile.
Altrettanto ovvio è che dovremmo riconquistarci una visibilità nell’ecosistema della psicoterapia. Penso che dovremmo farlo trovando un linguaggio per dire qualcosa di diverso sul presente e il coraggio di dirlo dai luoghi dove abbondano gli psicoanalisti e i filosofi e ancora di più si affollano gli psicomoralisti della TV. Penso che dovremmo farlo lavorando sodo sulle nostre teorie e sulle nostre pratiche, sulle cose che fino ad oggi abbiamo fatto bene, e che cercare di conquistarsi quello spazio accettando una colonizzazione così radicale sia paradossale, un modo di accettare la definitiva marginalità culturale.

Invece gli interrogativi teorici, epistemologici, etici, che hanno animato quella storia, da un momento all’altro sono trattati come se non fossero mai stati tematizzati, come se la storia cominciasse ieri mattina.
In mezzo a un’amnesia improvvisa che sembra un sintomo di qualcosa — di una crisi evolutiva, di un passaggio complicato di crescita — riprendono vigore la voglia di eclettismo e l’argomento dell’integrazione. Ma a segnalare che tutto questo rischia di mettere una croce sopra le possibilità di evoluzione del pensiero sistemico si ricevono accuse di purismo (che è una obiezione che non obietta niente, un argomentum ad hominem che non risponde a nessuna perplessità e per di più pretende che il nuovo sia apprezzabile solo perché è “nuovo”), accompagnate dalla raccomandazione di essere più “aperti”. Argomenti un po’ ricattatori che prescindono dal contenuto (“aperti” a cosa, precisamente?) e possono essere applicati a qualunque esercizio della facoltà critica, senza rispondere alla critica.

Per concludere, vorrei dire che negli anni mi sono sentito ripetere che sono un terapeuta “narrativo” e non so dire se sia così. Però credo di saper distinguere una buona storia da una meno buona. Per esempio un film western dove nel momento culminante di un duello atterra un disco volante, così, senza ragione e senza senso, non è una buona storia.