Nelle prime settimane della pandemia il collega Luca Bidogia mi chiese, per il suo gruppo Facebook “Psicologia Pragmatica e Coscienza di sé”, un intervento sul linguaggio metaforico nella comunicazione sul Covid-19. Misi per iscritto alcuni concetti che usavo per i miei seminari sulla metafora, e circolarmente scrivere questo contributo arricchì il materiale dei miei seminari. In qualche misura, secondo la prassi di quel gruppo, il mio scritto fu un work in progress che crebbe, anche dopo l’uscita, grazie ad alcune sollecitazioni di Luca.
Lo ripesco dagli archivi del social per evitare che finisca nell’oblio: contiene alcune cose di cui vorrei ricordarmi e ho la speranza che possa interessare non solo a me. In generale la questione dell’invadenza delle metafore belliche nella nostra comunicazione di tutti i giorni è un tema che mi interessa, così ho creato un tag per raccogliere gli articoli che girano intorno all’argomento [clicca].
Buona lettura e ancora grazie a Luca Bidogia.
Guerra e nuovi nemici
C’è un aspetto di tutta questa strana esperienza dell’emergenza coronavirus che ho trovato interessante dal primo momento, ma più come una conferma che una sorpresa. Né mi ha sorpreso che la mia curiosità fosse ampiamente condivisa e che tante persone scrivessero sull’argomento (dall’articolo di Internazionale, fino all’ultimo che vedo mentre vi scrivo, quello del Post). Alcuni di questi articoli sono ben scritti, talvolta citano a proposito Susan Sontag che nel suo “Malattia come metafora” spiegò in che modo le metafore con cui descriviamo le cose diano forma alla nostra esperienza di quelle cose. Ma Susan Sontag aveva anche messo in guardia dal rischio che la metaforizzazione della malattia portasse a posizioni moralistiche.
La questione di cui si parla è il fatto che la difficile prova che stiamo condividendo in queste settimane, cioè il grande sforzo di liberarci da un virus, sia descritto da più parti nei termini di una “guerra”. E non solo nel linguaggio dei governanti (il più esplicito è stato Emmanuel Macron (“Cari compatrioti, siamo in guerra contro un nemico invisibile che sta avanzando, ma vinceremo”, 17 marzo scorso). Il punto non è solo come politici e informazione cerchino un effetto nel racconto del virus: il punto è che ciascuno di noi applica alla comprensione di una realtà nuova delle immagini metaforiche prese dalla realtà che conosce (e la guerra la conosciamo, se non direttamente, dai racconti di tanti che l’hanno conosciuta: le sue immagini in qualche misura fanno parte della nostra storia).
Guardate anche solo, qualche riga più su, le espressioni che io stesso ho usato: “sforzo”, “liberarci da”. Sono immagini che vengono dall’esperienza fisica. Stare chiusi in casa non è uno “sforzo” in senso letterale (non richiede alcuna forza fisica, non è come sollevare una cassa di bottiglie); e anche “liberarsi da qualcosa” ha a che fare con il rompere una costrizione fisica. Non è solo Macron, non sono solo i giornali: fa parte della natura umana il pensare per metafore; poi Macron e i giornali ne fanno un uso in più, che non è quello che facciamo noi nella vita di tutti i giorni: cioè usano quella facoltà normale per essere più convincenti e per darci delle immagini che siano persuasive e che abbiano un effetto su di noi, cioè ci indicano a fare delle cose anziché altre.
Non abbiamo un altro linguaggio che non sia quello metaforico per parlare di – anzi per pensare a – quello che ci succede “dentro” (vedete? Anche dire “dentro” e “fuori” per distinguere la nostra vita mentale da quello che presumiamo non essere la nostra mente è come parlare di un mondo fatto di contenitori fisici). Dicevo, la metafora della guerra non è solo nell’intenzionalità della retorica del discorso pubblico. A quanti di noi, quando ci hanno chiesto di restare chiusi in casa, è venuto in mente il coprifuoco? Credo che per molti la guerra sia la metafora più immediata. E a livello politico la metafora ha una sua utilità: fa leva (“fa leva”: vedete come la fisica ci offra continuamente metafore per parlare di cose che con la fisica non hanno niente a che vedere?), fa leva, dicevo, sul senso di coesione nell’auspicio che esso ci spinga (“ci spinga”: ancora!) a impegnarci pensando anche agli altri.
La questione è proprio questa: le metafore che scegliamo hanno degli effetti, delle conseguenze: costruiscono mondi. Se pensiamo che siamo in guerra “funzioniamo” come se fossimo in guerra. E però questo ha anche delle conseguenze che secondo me non sono sempre utili.
In guerra, per cominciare, ci sono gli eroi.
Avete presente tutta quella retorica che esalta l’eroismo dei medici? Io non sono tanto convinto che non abbia dei risvolti negativi. Io credo che ciascuno di noi debba immensa gratitudine ad ogni medico e ogni infermiere che in questo momento è in prima linea (oh, guarda: “in prima linea”; da dove viene questa metafora?). Una sera ho visto al telegiornale esaltare la dottoressa di Cremona e l’infermiera che da lei era stata immortalata nella famosa foto in cui era riversa sul tavolo alla fine di una giornata terribile (entrambe erano collegate via Skype col TG dal loro ospedale), e mi è sembrato un servizio piuttosto crudele. Ho trovato alquanto cinico il modo in cui il conduttore alzava il grado di emotività del servizio davanti a due donne che stavano evidentemente molto male. E ho pensato anche che in guerra non si guarda in faccia a nessuno (si dice “in amore e in guerra tutto è permesso”). Non l’ho apprezzato anche perché raccontare quello che sta succedendo come una storia di eroismi individuali è piuttosto fuorviante. Io credo piuttosto che a quelle due donne, in diretta, si dovesse chiedere pubblicamente scusa. Perché non avrebbero dovuto essere due, ma dieci. Perché da tanti anni vengono deprivate di strumenti, di posti letto e di quello di cui avrebbero bisogno per non ridursi così. Più che due donne eroiche mi sembrano due vittime: la narrazione eroica non era un riconoscimento o un risarcimento, ma piuttosto una fregatura. Gli eroi, in fondo, ci fanno sentire bene perché muoiono per tutti.
Io peraltro avevo sempre pensato che avere un sistema sanitario che funziona bene ci liberasse dal bisogno di eroi e miracoli, esattamente come un’amministrazione della giustizia serve per liberarci dalla tentazione di farci giustizieri. Trovo che la retorica bellica dell’eroismo sia utile fino a un certo punto, almeno fino a che non affida la soluzione di un problema all’eroismo personale anziché alla cooperazione di una collettività.
E poi in guerra non ci sono soltanto eroi: ci sono anche disertori. E infatti pochi giorni dopo parte lo scandalo di alcune centinaia di medici e sanitari in congedo per malattia. Non era vero, lo diranno gli stessi organi di informazione nei giorni successivi, ma per un po’ i personaggi del film di guerra ci sono tutti. E quando i media dovranno ammettere che la notizia era gonfiata, troveranno a disposizione un’altra categoria di infami. Un telegiornale informa che la notizia dei medici “furbetti” era infondata, ma (proprio così, “ma”: dove la congiunzione avversativa fra le due notizie, quella falsa e quella vera, sottolinea la rassicurazione che il copione della guerra è salvo); “ma”, dice il giornalista con aria di sconforto e anche un po’ di sdegno, tra i medici richiamati dalla pensione “solo il 10% ha risposto di sì”. È una guerra, se a settant’anni non hai voglia di fare l’eroe sei un traditore della patria e, cosa peggiore, una delusione per il conduttore del TG. Viene in mente Susan Sontag: il rischio delle metafore della malattia è il moralismo.
Ci si accanisce contro i corridori amatoriali con la rabbia e il disprezzo che in guerra si riserva ai collaborazionisti. Aprono le porte al nemico: nei loro confronti si reclamano punizioni esemplari. Nel momento in cui serve collaborazione, si innesca l’odio contro una categoria di persone. Si può abolire con le multe salate il bisogno di uscire di casa? Se la risposta è no, bisogna trovare un modo di governarlo, in un’ottica di riduzione del rischio invece che nell’utopia dell’eliminazione radicale del male e dei suoi untori. Altrimenti, alla necessità di coesione stiamo sacrificando una categoria di persone chiamate a catalizzare l’odio dei “buoni”, cioè di quelli che obbediscono alle regole. Peraltro, dall’inizio del “coprifuoco” si è segnalato qua e là un aumento dei trattamenti psichiatrici obbligatori: che forse non c’entra niente, ma eradicare il bisogno di uscire di casa con metodi di controllo e con le forze dell’ordine non è molto utile a governare la complessità.
Un dettaglio, che con le metafore ci entra indirettamente ma che ci dice quanto sia potente il linguaggio. Quelli che corrono per la strada, per i giornali sono diventati i “runner”. Chi di voi aveva mai sentito questa definizione? “Runner” è semplicemente la traduzione inglese di “podista”: ma quanto suona diverso “attenti ai runner!” da “attenti ai podisti!”? Il podista evoca familiarità da strapaese, buoni sentimenti e abitudini salutiste. Il “runner” suona esotico, pericoloso, è un tocco di fatua e minacciosa modernità. Se abbiamo bisogno di un nemico, è meglio che si chiami così.
Metafore collaborative
Ragionavo ieri con un gruppo di giovani e meno giovani colleghi in formazione: riusciremmo a immaginare una metafora meno competitiva e più collaborativa per parlare dell’emergenza del virus? Dal gruppo è emersa una metafora che mi è piaciuta: quella della “staffetta”. Dove i medici e i sanitari non sono eroi al fronte, ma corridori responsabili ciascuno di un tratto di strada, che corrono per passare un “testimone” (le informazioni utili, i risultati della ricerca) al collega che corre nella stessa squadra. E noi non siamo solo vittime inermi chiuse in casa per il coprifuoco: in una competizione sportiva il pubblico che interagisce dalle gradinate fa la sua parte per il risultato.
Dunque dobbiamo pensare che una metafora non solo non è la realtà (possiamo “realmente” vivere una pandemia come una guerra, ma non lo è in senso letterale), ma che se pure può essere utile, non è detto che lo sia in ogni caso, per tutto quanto e per ogni momento.
Probabilmente non c’è una spiegazione unica per il fatto che le metafore belliche e competitive siano così irresistibili. Certo questo è dovuto anche al fatto che abbiamo uno sguardo limitato sulla realtà: competizione e cooperazione sono due livelli di quello che succede nel mondo. Nella staffetta, per citare l’immagine che evocavamo, ciascun corre per la squadra, ma è pur vero che corre contro qualcun altro: e questo dà ragione del fatto che bisogna correre più veloce di qualcuno (il virus).
Dunque cooperazione e competizione sono solo aspetti parziali di quello che succede, e in un certo senso emergono l’uno dall’altro. Ma probabilmente per vedere l’aspetto cooperativo dell’intero processo abbiamo bisogno di una prospettiva più ampia di quella di cui godiamo.
Avevo citato già da qualche parte la storia di un fiore alpino che si chiama lupino. Perché “lupino”? Perché sembra che intorno a lui non cresca altro: dunque si è guadagnato la nomea di un fiore “predatore”, come il lupo, impegnato in una competizione di cui fanno le spese forme di vita più deboli. Ora, tralasciamo il fatto che probabilmente questa visione è calunniosa anche per lo stesso lupo. Ma insomma, questo è quello che per tanto tempo hanno pensato di quel fiore. Solo a un certo punto qualcuno ha stabilito che le cose stessero in modo molto diverso: il lupino in realtà attecchisce in luoghi in cui la vita vegetale non è facilissima; ma lui più di altri riesce a prendere nutrimenti dal terreno e quando muore rilascia sali e altre sostanze che contribuiscono alla vita di altre forme vegetali che seguiranno, meno attrezzate di lui. Insomma, una forma di generosità alla quale le lenti attraverso le quali guardiamo il mondo sono sostanzialmente cieche.
D’altra parte, se passiamo dalle sue parti vediamo un fiore che sembra occupare spazio tutto per sé; ma per capire quello che vediamo dovremmo conoscere un intero processo, vedere quello che è successo prima e quello che succederà dopo. Forse il nostro sguardo inevitabilmente limitato favorisce letture più spicce, “mors tua, vita mea”.
Mi viene in mente un’altra ragione per la quale le metafore competitive ci vengono in aiuto più facilmente per spiegare il mondo. Noi pensiamo anche alle azioni umane in termini di “cause”, “effetti”, “spinte” e così via. Naturalmente pensare alle vicende complesse in termini di “cause” è una semplificazione utile e tragica insieme. Diciamo per esempio che Giovanni è stato “spinto da” Alfredo a compiere una certa azione: esattamente come se Giovanni e Alfredo fossero palle da biliardo. La nostra osservazione del mondo fisico ci offre le metafore per leggere il mondo: prima che menti pensanti siamo corpi che si muovono nel mondo. Anzi, qualcuno direbbe che siamo menti che pensano proprio perché siamo corpi. L’esperienza dello spazio, dei muscoli, dei sensi, ci dà elementi per pensare a quello che non è spazio, muscoli, sensi. Perciò diciamo che “è passato” (come fosse il treno delle otto) tanto tempo, che una lezione è “pesante” (come fosse un manubrio di ghisa) e che l’umore di quella persona è “nero”, come se potessimo vederlo e come se avesse caratteristiche persino cromatiche.
Ecco, allora il mondo fisico, per come è fatto, ci offre anche metafore competitive, “o io o tu”. Nello spazio fisico occupato da questo computer non può esserci il cellulare, che infatti sta venti centimetri più in là. O l’uno, o l’altro. Se lo colpisco con un martello, il computer probabilmente ha la peggio: il martello ha caratteristiche fisiche che lo rendono “più forte”. Ma toh!, se invece la martellata la do a mio cugino, curiosamente reagisce in un modo diverso: evidentemente gli esseri viventi rispondono ad altre leggi che gli oggetti inanimati, eppure continuiamo ad applicare agli uni dei princìpi che abbiamo appreso con gli altri. Va bene così, non è un invito a smettere di farlo: c’è qualcosa di utile nelle semplificazioni, tanto come come genere umano ne condividiamo tantissime. Ma è per riflettere sul fatto che tante cose che ci diciamo e che ci sembrano scontate e ragionevoli, sono solo dei modi piuttosto utili di descrivere una complessità ingovernabile. Dunque raccontare le vicende umane in termini di “forze”, “cause”, “effetti”, “spinte”, “urti”, è far riferimento a un mondo in cui succedono cose come un oggetto più pesante schiaccia un oggetto più fragile. Credo che la nostra fissa di spiegare le cose in termini di forze e competizioni venga anche da qui.
Come che sia, per un po’ di tempo ancora dobbiamo mantenerci metaforicamente aperti alla fiducia ma restare fisicamente ben chiusi in casa. Possiamo sentirci tutti metaforicamente vicini ma restando letteralmente lontani. E in bocca al lup… cioè, auguri a tutti!
Aggiornamento 1 aprile 2020: bibliografia ragionata
A gentile richiesta integro una breve bibliografia ragionata un po’ più approfondita delle noticina che avevo aggiunto all’inizio. Direi che la lettura di Gregory Bateson è necessaria per qualunque discorso sulla metafora come facoltà del pensiero. Per Bateson il sillogismo “l’erba è mortale, l’uomo è mortale, l’uomo è erba” non era un incidente del pensiero logico, ma era il paradigma di una logica “altra”: quella del sogno, dell’arte, della metafora; in una parola, del sacro. Dunque vi rimando a:
- Bateson G., Bateson M. C. (1987), Dove gli angeli esitano. Verso un’epistemologia del sacro. Adelphi, Milano, 1989.
- Bateson G. (1991), Una sacra unità. Altri passi verso un’ecologia della mente. Adelphi, Milano, 1997.
Alcuni buoni approfondimenti della questione si trovano in:
- Cotugno A., Di Cesare G. (a cura di), Territorio Bateson. Meltemi, Roma, 2001.
Un autore di riferimento per una comprensione della metafora come modalità del pensiero è George Lakoff. Cominciando dai suoi testi con Mark Johnson (li cito entrambi anche se il secondo è in gran parte fatto di contenuti che stanno anche nel primo, ed è anche meno reperibile; vedete voi):
- Lakoff G., Johnson M. (1980), Metafora e vita quotidiana. Bompiani, Milano, 1998 (III ed. 2007).
- Lakoff G., Johnson M. (1998), Elementi di linguistica cognitiva. Quattro Venti, Urbino.
Poi si può continuare con un libro (non tradotto da noi) che approfondisce la questione della “mente incorporata”:
- Lakoff G., Johnson M. (1999), Philosophy in the Flesh. The embodied Mind and Its Challenge to Western Thought. Basic Books, New York.
Lakoff ha scritto anche libri, molto popolari e molto influenti negli Stati Uniti, su linguaggio, metafora e cornici (“frames”) nella comunicazione politica, che è in gran parte ciò di cui si parla nel mio post. Dunque:
- Lakoff G. (2004), Non pensare all’elefante. Fusi Orari, Roma, 2006.
- Lakoff G. (2006), La libertà di chi? Codice, Torino, 2008.
Accanto a Lakoff un autore importante per un pensiero sulla metafora è Steven Pinker. Non sempre è d’accordo con Lakoff ma il suo contributo mi pare complementare, certo affascinante:
- Pinker S. (2007), Fatti di parole. Mondadori, Milano, 2009.
Mi è stato di grande ispirazione per pensare agli aspetti etici della metafora un librino di un docente di lingue classiche:
- Bettini M. (2011), Contro le radici. Tradizione, identità, memoria. Il Mulino, Bologna.
A dimostrazione di quanto sia difficile pensare che le metafore non sono le cose, la maggior parte dei recensori di questo libro lo ha preso come se fosse davvero un libro contro le radici, e non contro la metafora delle radici. Interessante anche per questo. Ancora, la storia del lupino (che avevo raccontato anche qua) ricordo di averla letta su:
- W. Jeremy Hayward, Varela F. (1998), Ponti sottili. Conversazioni del Dalai lama sulla scienza della mente. Neri Pozza Editore, Milano.
Per concludere, allora, aggiungo che nel corso degli anni mi sono nutrito di queste letture e ho provato a lavorare sul concetto di metafora nella psicoterapia, una questione secondo me ampiamente fraintesa negli anni, fino a fare della metafora un artificio, uno strumento di persuasione allo stesso modo che nella politica e nella pubblicità (anziché riconoscere ad esso la funzione principale che è quella di parlare di tutto ciò che non è fisico, compresa la nostra vita interiore e le relazioni. Ne è uscito un libro rintracciabile (più facilmente) anche in e-book:
- Giuliani M. (2016), Corpi che parlano. Psicoterapia e metafora. Durango Edizioni, Trani.