Vorrei scrivere qui di un argomento che in terapia è cruciale quanto poco raccontato. L’argomento è il rapporto fra la psicoterapia e l’ironia.
Per dire quello che ho in mente dovrò passare attraverso alcune parole chiave: vi chiedo di tenerle a mente perché ciascuna di queste parole chiave è un filo da seguire, e di questi fili vi affido i capi in modo che non li perdiate. Le parole chiave sono paradosso, comunicazione, curiosità. Se seguite questi tre fili anche quando si intrecceranno e quando sembreranno perdersi, in fondo a questi fili ci trovate l’ironia e qualche idea su cosa c’entri con la cura.

E poi devo prenderla un po’ alla lontana e cominciare la storia dal momento (1980) in cui i quattro terapeuti del primo Gruppo di Milano (Mara Selvini Palazzoli, Luigi Boscolo, Gianfranco Cecchin e Giuliana Prata) scrivono per “Family Process” l’articolo “Ipotizzazione, circolarità, neutralità. Tre direttive per la conduzione della seduta” (che verrà pubblicato anche in Italia su “Terapia Familiare”). È un articolo che, come dice il titolo, intende definire alcune linee guida della tecnica del colloquio sistemico. Per una serie di ragioni che non approfondisco qui, è anche lo scritto dopo il quale diventerà inevitabile la scissione del gruppo. A mio avviso la frattura è già visibile in trasparenza in quelle righe, ma appunto non è la questione che ci interessa qui.

Senza addentrarmi nei primi due concetti evocati dal titolo, mi limito a dire che il terzo – la “neutralità” – vuol essere una posizione del terapeuta che, mentre osserva la famiglia e ascolta i punti di vista di ciascuno dei membri sul problema, evita di parteggiare per una di quelle posizioni e si mantiene, appunto, neutrale conservando una postura equidistante da tutte.
Vi ricorda qualcosa? Può darsi: in modo più o meno consapevole, il concetto di neutralità è un retaggio psicoanalitico del quattro autori, la trasposizione sistemica di un concetto, invero un po’ ambiguo anche in psicoanalisi, che coincide con una sorta di “astinenza” (“indifferenz”, scriveva Freud).

Nel 1987 Gianfranco Cecchin (che con Luigi Boscolo dirigeva il Centro di via Leopardi dopo la fine del gruppo originario) ci torna su per domandarsi: ma è davvero possibile per un terapeuta essere “neutrale”? È plausibile che il terapeuta non abbia un punto di vista, delle premesse, un suo modo di collocarsi? Se la risposta è “no”, non ce la raccontiamo: la neutralità è un’illusione. Non solo non è possibile, ma ci sarebbe anche da domandarsi se sia desiderabile. Perché forse, più che essere equidistante da qualunque visione della realtà, più che tenersi al riparo da tutte, il terapeuta potrebbe provare a incuriosirsi per tutte. “Curiosità” è la parola che Cecchin propone come alternativa a “neutralità”. Dal momento che non è possibile per il terapeuta essere neutrale e far finta di non avere un punto di vista, dall’esistenza di punti di vista diversi e distanti dal suo potrebbe scaturire una ragione di curiosità: se il mio punto di vista mi pare così necessario, posso scegliere di ritenere matto chiunque non lo condivida, o pensare che in quella differenza stia un mistero che non comprendo. Cecchin era un maestro nell’insegnare una posizione di curiosità nei confronti delle situazioni più disperate: una famiglia che presenta tanti problemi e che sembra mettere alla prova la sua stessa sopravvivenza può essere un mistero che incuriosisce. In virtù di cosa quel sistema esiste contro ogni probabilità?

Gianfranco Cecchin e Luigi Boscolo

Non so se si colga un sottofondo ironico in questo discorso. Non a caso di Gianfranco Cecchin si ricorda una capacità di essere profondamente ironico, un’attitudine a volare leggero sulla tragedia. Peccato però che “ironia” sia un concetto così sottovalutato e frainteso. Non c’entra con l’essere faceti, non c’entra col non prendere le cose sul serio. Calvino parlerebbe di “leggerezza”: che non è superficialità ma capacità di “planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore”.

L’ironia è un modo di guardare al mondo che prevede uno sviluppo che attraversa, come vedremo, alcune fasi – oltre, probabilmente, a una predisposizione che in nessun modo dipende dalla nostra volontà. L’ironia, a sua volta, ha a che fare col paradosso. In che senso? C’è un autore, Barnett W. Pearce, che scrive delle cose che aiutano a unire i puntini.

Prima fatemi dire che nella letteratura sistemica, da Bateson in poi (ma lo stesso antropologo ci tornò su a più riprese perché non era soddisfatto di una definizione patologizzante del concetto) il paradosso è stato per lo più collegato a circostanze che fanno ammalare, a contesti di comunicazione patologici. Una comunicazione paradossale (“sii spontaneo!”: ma come si fa a essere spontaneo perché uno te lo ordina?) mette gli individui in una posizione indecidibile che genera sofferenza e fa perdere la speranza di trovare un senso nella realtà e nel mondo.
Fa uscire matti, è vero. Ma non è solo quello.

Barnett Pearce era uno studioso che si dedicava alle forme di comunicazione culturale e agli aspetti paradossali che il contatto fra culture porta con sé. Sosteneva che coi paradossi si deve convivere, “trattarli come «amici» piuttosto che come dubbie bizzarrie da eliminare”. E aggiungeva che “il mezzo per vivere in termini amichevoli con il paradosso è l’ironia“. Che vuol dire? Anche qua la prendo alla lontana e vi chiedo un po’ di pazienza.

Secondo Pearce esistono forme di comunicazione più o meno adeguate a un mondo complesso nel quale le culture si intersecano. Quella più semplice è la comunicazione “monoculturale” (che nasce dalla posizione di chi non riesce a immaginare che possano esistere altri modi di vedere il mondo); un altro è la comunicazione “etnocentrica” (di chi considera la possibilità della differenza, ma in quella consapevolezza è convinto che la propria cultura e le proprie premesse siano quelle “giuste”, “vere”. Diversa è la posizione della comunicazione “modernista”: l’uomo moderno è consapevole delle differenze e pensa che in quella complessità ciascuno debba rinunciare a qualcosa per diventare ospitale verso l’altro. Crede che sia possibile accogliere la diversità, che sia possibile comprendersi e che quell’accoglienza presupponga la disponibilità a farsi un po’ da parte.

Altra possibilità ancora (qui volevo arrivare) è la comunicazione “cosmopolita”: è vero che siamo diversi, ma non è vero che per comunicare dobbiamo rinunciare a qualcosa di noi, alle nostre premesse. Anzi, la comunicazione nasce proprio dalla volontà di condividere differenze, di raccontarci, di farci domande. Non si tratta di “capire” l’altro, partiamo invece dal presupposto che mai potremo davvero “capirlo” e che l’incontro si svolge necessariamente in uno spazio di mistero: nondimeno, anzi forse proprio per quello, possiamo fare domande. Non siamo costretti a rinunciare alla nostra storia e alle nostre premesse (Pearce dice “le nostre risorse”). È nelle domande, nell’esercizio della curiosità, appunto, che modi diversi di vivere possono trovarsi uno al cospetto dell’altro e si realizza la comunicazione. Senza dover rinunciare a niente: in un’ottica cosmopolita non siamo insieme perché ci siamo resi uguali; siamo insieme perché, essendo diversi, possiamo esercitare la curiosità.

Barnett W. Pearce (1943-2011)

Ancora, Pearce sostiene che quella forma di comunicazione non è facilmente realizzabile. Che è più un ideale a cui tendere che un obiettivo realistico. Ma dice anche che esistono alcune fortunate esperienze umane in cui una forma di comunicazione cosmopolita si realizza.
Ecco, ho trovato sempre molto emozionante il fatto che fra le (pochissime) forme di comunicazione cosmopolita possibile, Pearce annoveri le tecniche di conversazione sistemica della Scuola di Milano. Sostiene che quel modo di fare domande ai membri di una famiglia in modo che tutti abbiano voce e insieme ascoltino gli altri, che la realtà che ne emerge non sia una selezione del punto di vista migliore, ma anzi sia una descrizione polifonica che non teme di tenere dentro narrazioni diverse, beh, quel modo si avvicina molto a una forma di convivenza di culture, a un contesto cosmopolita. Ma che c’entrano le culture con due coniugi che litigano, con un adolescente che manda i genitori a quel paese? C’entrano se pensiamo a ciascun individuo come portatore di una storia che lo forma, che è inevitabilmente diversa da quella del suo interlocutore e che pertanto costruisce premesse e lenti per guardare il mondo che mostrano cose diverse. E sì, in questo senso qualunque aggregato umano assomiglia a un incontro fra culture differenti.

Eccolo, il paradosso. Decidiamo che ha ragione sia chi dice una cosa sia chi dice il suo contrario. Vuol dire che qualunque cosa si possa dire è “vera”? Non è questo il punto. Il punto è che ogni esperienza è “vera”. Ogni biografia costruisce una visione del mondo che è “vera” per chi ne è portatore, perché vera è la storia che ha condotto quell’individuo a costruire quel suo proprio modo di interagire con la realtà.
E per sopportare questo paradosso, dice Pearce, è necessaria una posizione ironica. Cioè quella posizione per la quale una storia è vera e nello stesso tempo è parte di un più ampio sistema di storie possibile.

L’ironia, dice sempre Pearce, non è un dato, è una relazione con le cose che richiede una sequenza di stadi di sviluppo. All’inizio l’individuo è coinvolto profondamente e in modo esclusivo nella propria cultura. Poi questo coinvolgimento entra in crisi; può accadere per più ragioni: per una emigrazione, per eventi traumatici personali o sociali, per un accumulo di piccoli distanziamenti da quella cultura. In terzo luogo c’è il ritiro, come dire, il posizionamento in una prospettiva esterna alla propria cultura. Avviene in seguito a studi approfonditi, a una visione sciamanica, ad eventi che portano ad avere un punto di vista sul proprio punto di vista. E infine c’è un ritorno al sistema locale, ma in una posizione che trascende storie e pratiche di quel sistema.
In sostanza, l’ironia è la capacità di stare dentro il proprio sistema di premesse e nello stesso tempo pensarlo come uno dei tanti sistemi possibili e legittimi. Un modo di stare dentro e fuori.
Per dire “sono cattolico come ci sono musulmani, induisti eccetera”, devi metterti fuori dalle tue premesse, anzi fuori dalla classe delle premesse per guardarle tutte insieme. Poi torni dentro le tue premesse, “sono cattolico”, ti affidi alle tue pratiche e sei totalmente dentro la tua cultura; oppure non so, “sono occidentale”, “sono del nord”, “sono del sud”, “sono un punk”, “sono uno che ama la musica classica” eccetera, nell’esperienza di chi è saldamente piantato in quella cultura.
L’ironia è stare dentro e fuori, è stare nel paradosso di avere i piedi convintamente saldi nella propria cultura, “crederci”, e nello stesso tempo pensarla come relativa. Come dicevo, l’ironia non ha a che fare col non prendere le cose sul serio. Al contrario, è prendere profondamente sul serio la parte di mondo che riesci a vedere, solo conservando la possibilità di pensare che da altre prospettive, da altre biografie, da altre premesse, un altro veda necessariamente altre parti.
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