Nel 2017 Ranieri Salvadorini, giornalista scientifico e amico da anni, mi intervistò per il sito “Effetti Collaterali” diretto da Gianna Milano sull’argomento sul quale avevo appena pubblicato il mio libro.
Il sito non esiste più, ma grazie a Webarchive.org ho rintracciato la conversazione, che vi ripropongo e che sono felice di poter conservare sul blog.


Corpi che parlano. Psicoterapia e metafora – Intervista a Massimo Giuliani
di Ranieri Salvadorini, 5 luglio 2017

Effetti Collaterali: Cos’è la metafora?

Massimo Giuliani: Niente di più e niente di meno che una modalità del pensiero, attraverso la quale conosciamo il mondo. Non è una facoltà di poeti e narratori, non è prerogativa degli artisti. È il modo attraverso il quale il corpo, a partire dalle cose che conosce, si raffigura quelle che non conosce. E quello che il corpo conosce è l’esperienza nel mondo fisico: possiede un vocabolario per il mondo fisico e con quel vocabolario cerca di darsi conto del mondo non fisico, cioè il mondo di emozioni e sentimenti. Ad esempio diciamo cose come “ti sento lontano”, oppure “oggi sono giù”, dove usiamo l’orientamento nello spazio (vicino-lontano, su-giù…) per parlare d’altro. Diciamo “la giornata è stata pesante”, ma non intendiamo che si possa mettere sulla bilancia: solo, concettualizziamo i moti dell’anima perché conosciamo quelli del nostro corpo.
La metafora è una grande parte del linguaggio di ogni giorno. Per qualcuno la prova decisiva che il pensiero e il corpo non sono separati. Che ne sarebbe del tempo senza poterlo pensare come pensiamo lo spazio? Camminiamo e gli oggetti ci vengono incontro: così, procediamo nel tempo e il futuro si “avvicina”. Anche ora, parlo del tempo e devo dire “procediamo”, cioè uso un verbo che si riferisce al moto nello spazio. Avrei modo di dire la stessa cosa (anzi, di pensarla!) senza un vocabolario del movimento?

EC: Cosa “accade” quando caliamo questa “modalità del pensiero” nel contesto della cura e della psicoterapia? Massimo Giuliani, psicoterapeuta, è nato a L’Aquila e vive in Lombardia (lavora tra Brescia e Milano, dove insegna nella Scuola di specializzazione del Centro Milanese di Terapia della Famiglia, e fa supervisione e terapia in Abruzzo). Ha pubblicato nel 2016 per Durango Edizioni “Corpi che parlano. Psicoterapia e metafora”. Così gli abbiamo chiesto di entrare nel mondo della metafora e di darci una chiave di lettura…
Quanta cura viene data alla parola dallo psicoterapeuta?

MG: Come terapeuta mi sento parte di una tradizione che non vede nella cura della parola un modo di “scoprire” cause passate della sofferenza. Penso invece che nel linguaggio inventiamo possibilità, e più che “scoprire” credo che possiamo dare senso, ipotizzare connessioni, costruire significati. Lo dico in modo piuttosto sbrigativo perché la questione richiederebbe pagine e pagine, ma diciamo che vedo la psicoterapia più vicina a una pratica artistica che a una di tipo medico chirurgico o, meno ancora, ortopedico.
Sebbene all’ora di filosofia ci insegnassero a diffidare del sillogismo “l’uomo è mortale – l’erba è mortale – dunque l’uomo è erba”, quel modo di pensare rappresenta una parte importante della nostra esperienza: “l’uomo è erba” ha senso nel linguaggio metaforico, onirico, artistico.

EC: E alla metafora quanta importanza viene data?

MG: Penso che la psicoterapia sia una relazione che vive in un universo dove hanno senso sia il sillogismo della logica (“l’uomo è mortale – Socrate è un uomo – allora Socrate è mortale”) che quello del sogno.
Allora, se in psicoterapia alcuni vedono la metafora come un registro linguistico suggestivo ed esplicativo, utile a dire cose che sarebbe più difficile dire nel linguaggio letterale, io penso che invece la metafora sia l’essenza della terapia. Se la uso a scopo manipolativo, prendo un’espressione metaforica e le do un significato che cerco di imporre. Ma la metafora non è una strategia: adesso possiamo dirlo perché da qualche decennio conosciamo meglio il ruolo della metafora nel linguaggio.

EC: Dunque la metafora non è, come si può pensare, una “tecnologia” della cura…

MG: È il modo — o uno dei modi — in cui pensiamo. Se nel mondo fisico l’erba è erba, nel mondo metaforico l’uomo è erba (nel senso che, se vuoi, è fragile e caduco, è esposto ai capricci del tempo…), la pecora è erba (siamo quello che mangiamo, no?), il mio letto è erba (mi sdraio e trovo pace come quella volta che mi addormentai sotto un albero dopo aver camminato tante ore). E l’erba sarà un oggetto diverso per il biologo, per il botanico e per il designer di giardini, perché ciascuno di loro sta in un mondo che prende forma da metafore differenti. Il dominio metaforico del linguaggio è un livello dove i significati non sono prevedibili e sono molteplici, non si escludono a vicenda.

EC: È forse un trucco?

MG: Nel linguaggio della politica e della pubblicità una metafora deve avere un significato: in un contesto creativo e non direttivo no.
È quanto di più lontano da una “tecnologia”, sebbene tanta letteratura parli della metafora come di uno “strumento” della terapia (si parla dell’”uso” della metafora: come se fosse un oggetto che possiamo utilizzare). Non ho molto rispetto per questa posizione. Comprendere il pensiero metaforico significa molto di più: accettare una visione diversa di noi, del linguaggio, della conoscenza. Altro che arma del terapeuta: il terapeuta che fa appello al proprio mondo metaforico è un terapeuta disarmato, sta nella relazione terapeutica col proprio corpo e con la propria memoria.

EC: Un esempio?

MG: Un esempio estremo. Viene da una vicenda che lei sa, perché ci siamo conosciuti sul “fronte” dell’informazione sul terremoto dell’Aquila. Ci sono elementi della biografia di ciascuno di noi che non si possono nascondere, e uno di questi è il posto dove siamo nati. Così nel 2009 le persone arrivavano in seduta e mi esprimevano il loro dispiacere: “che peccato per quella città, come vanno le cose?”. Non sono uno di quei terapeuti che pensano che bisognerebbe parlare di sé in seduta e “disvelare” le proprie emozioni su qualunque cosa. Non in assoluto, non come principio, almeno. Ricordo una seduta molto intensa con una coppia che stava attraversando una crisi piuttosto dolorosa. Mi domandarono della città con sincera commozione. Scambiammo due parole al riguardo e li ringraziai. Ma ora le macerie del terremoto gravavano sul clima emotivo della nostra conversazione. Che farne? Il tema del proteggere la propria casa e del sentire la certezza delle mura intorno, di un tetto sulla testa, a un livello metaforico era molto significativo anche per loro. Piano piano quell’immagine ci permise di parlare di quello che stavano attraversando e di cosa cercavano l’uno dall’altra. Credo fu abbastanza utile per loro.

EC: Quando il linguaggio diventa più metaforico?

MG: Faccio sempre l’esempio di una persona, depressa e senza progetti, che mi dice “starò per tutta la vita qua, vicino a mia madre, perché le devo molto”: è un’idea definitiva che non ammette negoziazioni di senso. È un dato di fatto. Quando le persone stanno male, il loro linguaggio si fa meno metaforico: è più fattuale, chiuso, unidirezionale. Ma l’espressione “le devo molto” sta nella metafora del “debito”: e dove c’è un debitore c’è un creditore; e un debito ha una scadenza; e si quantifica con certi criteri, dev’essere proporzionato. E così, un dato di fatto si apre in una storia. Nascono delle domande, si possono esplorare implicazioni narrative nuove, si può riraccontare la storia di una vita.
La psicoterapia è un contesto particolare che legittima piccoli deliri che nelle conversazioni quotidiane sarebbero un indice di follia. Le persone parlano per metafore e pensano in un modo un po’ differente. “Sai, devo molto a mia madre”; “oh, e quanto?”. Se rispondi così in un’altro contesto, sei un matto o un cinico!
Sul libro racconto un episodio cruciale per il mio interesse verso il linguaggio metaforico. Due genitori mi avevano consultato perché uno dei loro bambini aveva cominciato a scorticarsi la testa con le unghie, sanguinava e si faceva cadere ciocche di capelli. Innocentemente mi lasciai andare a un commento del tipo: “accidenti, sembra un bambino con dei bei grattacapi!”. Lì per lì ebbi il timore che la mia uscita sui “grattacapi” fosse troppo irriverente per due genitori in ansia. Invece si guardarono e annuirono. Cominciarono a raccontarmi una lunga storia di dolori familiari che rendevano invivibile il clima in casa. Mi colpì come in terapia il linguaggio passi dal piano letterale a quello metaforico — dal sillogismo “ logico” a quello “folle” — in un modo che mi pare sia difficile in altri contesti. È questo che rende possibile esplorare significati nuovi. La metafora del “grattacapo” era un’interfaccia tra il comportamento del bambino e un mondo di dolori nascosti; quel giorno parlammo di quel sintomo per pochi minuti, poi la conversazione si spostò su altro, magari più difficile da raccontare. Ma nel periodo in cui cominciarono a occuparsene, il sintomo del bambino lentamente svanì.

EC: Se la specificità della terapia è la metafora, questo richiede una capacità di metaforizzazione, come ha scritto, oppure è un processo che avviene in modo spontaneo?

MG: Senza timore di ripetermi, perché è il cuore della questione: non si tratta di usare il linguaggio come un trucco. Si tratta di decidere di abitare il piano metaforico del linguaggio. Nel caso del “debito”, non approfitto di quella parola per costruire una strada che porti la persona dove voglio io: si tratta piuttosto di trattare il linguaggio con la giusta consapevolezza della sua natura metaforica.
Se un ragazzo arriva e mi dice che soffre di attacchi di panico e che non può uscire da casa, io penso ad “uscire da casa” come a un’espressione che ha più significati. Cioè cerco di essere sempre attento al livello metaforico del mio pensiero e del suo.

EC: Allora, la metafora è una delle basi del nostro pensiero?

MG: Come dicevo, un’ampia parte della nostra esperienza non sarebbe nemmeno pensabile senza un pensiero metaforico. Una volta che abbiamo scelto una metafora per concettualizzare qualcosa, essa determina il modo in cui sperimentiamo quella cosa. Maurizio Bettini ha scritto un piccolo libro, “Contro le radici”, dove indica come la metafora delle “radici” contribuisca in gran parte a costruire il nostro rapporto con un luogo e con lo straniero. Perché se penso in termini di “radici” al mio rapporto con il posto dove sono nato, questa metafora mi fa pensare a chi non ha le stesse “radici” come qualcuno nella condizione irrimediabile di passeggero. Un albero ha radici: chi non le ha è al massimo un uccello che si posa provvisoriamente su un ramo. E suggerisce Bettini: se invece di pensare all’identità come radici piantate in un luogo, pensassimo che essa è un fiume che scorre e raccoglie acqua dai suoi affluenti, come cambia il modo in cui sperimentiamo la relazione coi nostri vicini e con chi viene da lontano?

EC: Un altro esempio?

MG: Il saggio di Susan Sontag “Malattia come metafora” parla di come concettualizziamo metaforicamente l’AIDS, il cancro, la tubercolosi, e delle conseguenze che questo ha nella nostra percezione di quelle malattie. Lo scriveva alcuni decenni fa, raccontando che spesso i malati di cancro non erano al corrente della diagnosi e le comunicazioni al riguardo avvenivano in un clima di segretezza e ambiguità, come un tempo per la tubercolosi. Racconta come la storia delle loro concettualizzazioni, dal sedicesimo secolo in poi, abbia condizionato la storia delle due malattie. Entrambe erano definito come un’escrescenza orrenda e abnorme, e allo stesso modo era pensata la tubercolosi: solo alla fine dell’800 il microscopio permise di distinguere tbc e cancro come due cose di genere completamente diverso. Fino ad allora nessuno pensava, ad esempio, alla leucemia come una forma di cancro. Negli ultimi anni il professor Veronesi auspicava un cambio di vocabolario: usare “neoplasia” anziché “cancro”. Qualcuno si prese gioco della proposta, che a mio avviso non era superficiale. Sicuramente Veronesi aveva letto Sontag: è possibile (ecco la questione) sottrarre alla percezione della malattia almeno quella parte di pesantezza prodotta da una parola percepita ormai come condanna definitiva e dalla metafora minacciosa delle chele del granchio (cancer in latino)?
Dunque, la metaforizzazione è fondamentale per il pensiero. Quando le persone arrivano dal terapeuta spesso descrivono un mondo fatto di “cose”: sto male perché sto male. Oppure: sto male per quel motivo. La competenza metaforica, quando si sta male, è come spenta. Le persone (e le famiglie, e le coppie) a volte non hanno metafore perché stanno male, e stanno male perché non hanno più metafore. Una responsabilità del terapeuta è di tenere sempre viva e rinnovata la propria capacità di metaforizzare. Io insegno nella scuola di specializzazione del Centro Milanese di Terapia della Famiglia: raccomando sempre agli allievi, futuri terapeuti, di prendersi del tempo per leggere romanzi e ascoltare musica.

EC: E funziona, ascoltare musica, per tenere viva la capacità di ricorrere a metafore? Più precisamente, che legame c’è?

MG: Ognuno sa qual è il linguaggio che gli è congeniale. Musica, danza, pittura… E naturalmente cinema, romanzi. Tutto quello che alimenta il suo immaginario e il suo bagaglio di metafore è prezioso per un terapeuta. Come dicevo, essere attenti alla dimensione metaforica non vuol dire “usare” strumentalmente metafore. Anzi i momenti migliori sono quelli in cui, nel flusso della conversazione, condividi un’immagine e vedi che quell’immagine provoca qualche emozione, rimane, le persone la riprendono e la usano a loro volta. E tu ti domandi “ma come mi è venuta in mente?”. Ecco, il bello è quando tutto questo avviene col minimo controllo della consapevolezza. Scopri solo a posteriori la fonte di quella metafora, e il perché la risonanza tra la storia del paziente e la tua l’abbia evocata. O magari non lo scopri. Per quanto mi riguarda, quando rintraccio quella fonte, spesso è una canzone.

EC: Qual è l’autore (gli autori) che è stato più significativo nella sua costruzione del discorso sulla metafora?

MG: Su tutti, i miei maestri Luigi Boscolo e Gianfranco Cecchin e la loro grande attenzione al linguaggio, alle parole e alle storie in terapia. Poi una lettura che mi ha cambiato la prospettiva è quella di George Lakoff, che ha spiegato la metafora come linguaggio del corpo. È ben reperibile “Metafora e vita quotidiana”. Un altro è Steven Pinker, che ha avuto un’intuizione che ha ispirato varie parti del mio libro, cioè che connettiamo le esperienze fra loro sulla base di strutture metaforiche astratte, e così siamo in grado di riconoscere situazioni che non conosciamo. Negli Stati Uniti questi psicologi cognitivi che si occupano di pensiero metaforico sono delle star, perché a un certo punto della carriera cominciano a scrivere libri su linguaggio e metafora nella propaganda politica.
Gregory Bateson, poi, ha fornito un’epistemologia ai terapeuti sistemici. Teorizzava una dimensione del “sacro” come esperienza libera dalla finalità cosciente, cioè da quell’atteggiamento che ci fa intervenire in modo finalizzato sul mondo, sull’ambiente, sull’altro, per cambiarli. Di quella “esperienza correttiva” fanno parte la metafora, il sogno, l’arte, la poesia. Sosteneva che una metafora intenzionale, “costruita” allo scopo di persuadere, fosse una bestemmia, una specie di violenza della finalità cosciente. Ed ecco che nella — per così dire — etica della metafora, ritorna l’analogia fra arte e cura della parola.

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