Dopo il mio post “Integrazioni, neotecnicismi post-narrativi, amnesie ed eclettismi vecchi e nuovi” ho sollecitato interventi di colleghi e sono arrivati i commenti di Gianluca Resicato, Massimo Schinco e Marco Bianciardi. Ho pubblicato quindi un nuovo intervento e questo ha indotto Gianluca Resicato, che ringrazio, ad aggiungere nuovamente alcuni suoi pensieri. È partito dal tema della responsabilità (ultimo anello di questa catena di pensieri), per arrivare al fatto che una teoria non può non assumersi dei rischi.
Il che, mi pare, interroga anche sulla questione da cui ha mosso la discussione. Mi ricordo che “mettere a rischio” è esattamente l’espressione che Barnett W. Pearce usa riferendosi a quello che succede a un sistema di premesse nel momento in cui ne incontra un altro. Una forma di “integrazione” di teorie cliniche cosa mette a rischio? E che livello di rischio è utile e necessario?
Leggete Gianluca Resicato e poi, per chi fosse appena arrivato, qui si trovano in ordine tutti gli articoli della serie.
Quello che mi ha colpito del tuo articolo parte seconda e mi ha sollecitato riflessioni è il tema della responsabilità. Trovo le tue riflessioni sul tema molto pertinenti e proprio il discorso sulla cibernetica dell’osservatore e sulla responsabilità che l’osservatore ha delle sue premesse e di osservare se stesso mentre osserva, proprio a partire da queste premesse mi ha sollecitato qualche riflessione in ordine sparso.
La premessa personale è che sono un appassionato di fisica e che leggo abbastanza del tema e mi informo cercando di capire. A Heisenberg come sappiamo dobbiamo la scoperta o meglio la formalizzazione della meccanica quantistica: nel 1927 egli formula il principio di indeterminazione che è un precursore della cibernetica del secondo ordine. Lo è in un’accezione semantica e non perché ci sia una sovrapposizione di fatto tra gli oggetti di osservazione. Il principio di indeterminazione ci dice in maniera chiara e sintetica che non esiste un’osservazione pienamente esaustiva (velocità e posizione delle particelle) e, soprattutto, ci dice che l’atto dell’osservare è un atto di scelta.
Questa fondamentale scoperta fa sì che nessun atto osservativo possa definirsi un atto neutro, ma racconta la storia di chi osserva, attraverso le scelte osservative. Definire questo campo è una precisa responsabilità del terapeuta. A tal proposito Francois Jacob (biologo, premio Nobel) diceva che “nel dialogo tra teoria ed esperienza, la teoria ha sempre la prima parola. Determina la forma della domanda, e quindi pone i limiti della risposta”.
Io direi, ampliando il discorso, che la teoria ha la prima, ma non l’ultima parola. Essa ci fornisce una sorta di necessaria impalcatura dalla quale partiamo, ma non è poi detto che il punto di arrivo sia sempre congruo con le nostre premesse. Questo proprio perché ogni volta in ogni microframmento dialogico, in terapia, compiamo degli atti di scelta, evidenziamo delle cose e tralasciamo certe altre, indirizziamo il dialogo in un modo piuttosto che in un altro. Tutto ciò è sempre congruo con le nostre premesse teoriche? Ad essere onesti non sempre, proprio perché quelle premesse sono incarnate e raccontano un nostro modo di vivere la teoria di riferimento, e anche le fallacie che noi riteniamo esserci nella stessa cioè i punti di idiosincrasia tra noi e la teoria che scegliamo (le teorie non sono una fede). C’è un libro di filosofia della scienza, Teoria e Realtà di Peter Godfrey-Smith, che trovo bellissimo e che evidenzia la parte più interessante del pensiero di Popper: cioè che le teorie scientifiche devono assumersi dei rischi. Ora Popper aveva delle idee piuttosto rigide sui tipi di rischi che una teoria deve assumersi, però aveva ragione a mio modesto avviso sul fatto che una teoria che non si assume dei rischi resta un’idea, non una teoria che produca una serie di ipotesi che trovino una loro verifica.
Tutto questo tradisce il principio dell’osservatore non neutro? Non credo, e non lo credo per il semplice fatto che il terapeuta nella stanza osserva e viene osservato e deve essere in grado di modificare le proprie attitudini osservative e, talvolta, le proprie premesse epistemologiche, in base al feedback dell’altro. Questo significa che le nostre teorie devono anche esse assumersi delle responsabilità, la prima di tutte è quella della verifica. Ora su cosa si intende per verifica si può discutere ed è un argomento complesso e vasto, ma non possono esimersi dal farlo.
All’ultimo convegno SIPPR, per esempio, ho assistito ad un intervento che assimilava l’entanglement quantistico alla capacità dei sistemi umani di restare connessi e di modificarsi per sempre anche dopo che l’incontro è avvenuto. Ecco questo è un tipo di teoria che non rischia nulla e che non può essere parte di una premessa terapeutica. Inoltre è palesemente errata perché il macro ed il micro non funzionano secondo le stesse leggi (decoerenza quantistica), vieppiù due particelle entangled una volta che l’entanglement sia svelato smettono di essere entangled, che è in palese contraddizione con l’affermazione di cui sopra.
Io credo, ed è una personale premessa, che partendo dalle nostre teorie di riferimento non dovremmo mai cessare di chiederci come le cose stanno, cioè cosa si cela dietro quel mistero fantastico che è il cambiamento e quali sono davvero i meccanismi in terapia che lo promuovono. In questo la nostra cornice di riferimento ha la responsabilità di ampliarsi per raccogliere una sfida complessa che non può essere, per tradizione sistemica, elusa.