Paul Weston (Gabriel Byrne) con Gina Toll (Dianne Wiest)
Paul Weston (Gabriel Byrne) con Gina Toll (Dianne Wiest)

Il collega Luigi D’Elia mi ha chiesto per il sito dell’Osservatorio sulla psicologia nei media un commento sulla serie TV “In Treatment”, di cui avevo parlato al termine della prima stagione. Ripubblico qui l’articolo uscito per l’Osservatorio, scritto durante la visione della seconda (grazie, Luigi!).

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Con colpevole ritardo sto riordinando le puntate della seconda stagione di “In Treatment”, grazie ai soliti contatti negli Stati Uniti che mi permettono di vedere gli episodi in inglese. La mia non è una presa di posizione contro il doppiaggio: è solo che in “In Treatment” il realismo dei dialoghi, la recitazione asciutta da “teatro televisivo”, per dirla con Aldo Grasso, soffrono parecchio la trasposizione in italiano. Così mi sono messo in cerca degli originali.
Intanto credo che sulle nostre reti satellitari la programmazione sia terminata, mentre negli Stati Uniti si annuncia la terza serie.
Avevo già scritto da qualche parte di trovare questo esperimento (ricapitoliamo: serial della HBO, che ripropone pari pari uno script israeliano; protagonista uno shrink, uno strizzacervelli; cinque puntate alla settimana, ogni puntata una seduta, venerdì supervisione) assai distante dalla psicoterapia raccontata in maniera spesso dozzinale in tanto cinema (non in tutto). Ma c’è un elemento che in questa seconda stagione è ancora più valorizzato, e scusate se la prendo un po’ alla lontana, partendo da un altro evento del 2009 che ha suscitato curiosità intorno al nostro mestiere. Fra un po’ capirete l’accostamento.

È successo, credo a cavallo dell’estate, che in coincidenza con la scadenza dei diritti sulle tavole del test di Rorschach, qualcuno le abbia pubblicate su Wikipedia inglese (a colori e ad alta definizione), con ampie spiegazioni per ciascuna macchia e senza trascurare le percentuali delle risposte e dei dettagli frequenti.
Comprensibilmente nella comunità professionale, e in particolare in quella dei rorschachisti, lo sconcerto è stato grande, tanto da far temere il tramonto dello strumento principe della psicodiagnostica: tutti sanno che un test proiettivo affida la propria attendibilità al fatto di essere pressoché sconosciuto al pubblico e pertanto di indurre risposte quanto più possibile “spontanee” e non condizionate.

Insomma, diciamo così: c’è un sapere psicologico che per essere utile deve restare segreto a quelli che ne sono l’oggetto.

Ora torno a “In Treatment” e vedo di chiarire il nesso che trovo con questa vicenda.
Nella prima stagione assistevamo al lavoro del terapeuta Paul Weston (con la faccia di Gabriel Byrne, semper laudetur) e alle vicende di alcuni clienti del suo studio. Ma, puntata dopo puntata, nella narrazione si faceva spazio il mondo di Paul: la crisi matrimoniale che Paul affrontava con Kate; le sue connessioni con il rovente transfert della cliente del lunedì, Laura; le questioni etiche e cliniche che attraversavano tutto questo, esplorate nelle puntate del venerdì col supporto della più anziana collega Gina.
Questioni che di solito non escono dai confini delle conversazioni fra professionisti, lì costituivano la materia prima di una avvincente narrazione. E non certo per un pubblico di esperti: “In Treatment” è stato insieme un esperimento di televisione “colta” e un prodotto di successo per l’emittente americana.

In questa seconda stagione gli autori osano ancora di più.
Nella prima puntata Paul Weston (che vive in una nuova casa a Brooklin, con un nuovo studio: il divorzio da Kate è ormai consumato) viene ricevuto in uno studio di avvocati: è stato denunciato dal padre di Alex, il pilota che abbiamo conosciuto nella prima stagione e che è morto durante il suo ultimo volo. Scoprirà che la legale che dovrà occuparsi del suo caso è Mia, una paziente di venti anni prima: una relazione terapeutica complessa, che ha lasciato strascichi che complicheranno la costruzione della difesa di Paul.
Al centro del primo episodio, dunque, ci saranno aspetti etico-legali della professione, come la responsabilità del terapeuta quando intorno alla morte di un cliente si configura l’ipotesi di suicidio, e persino la questione se prendere appunti durante le sedute tuteli il professionista davanti alla legge. E tutto questo diventa – magia di una sceneggiatura strepitosa e di interpreti notevoli – roba capace di tenerti incollato allo schermo e di farti maledire i titoli di coda.
Non solo: sempre di più la narrazione gira intorno ai limiti, alle fragilità e alle ferite di Paul, che è un uomo che cade, anche, e che ferisce a sua volta: mica quel maestro di vita e quella guida morale che certe volte la nostra tv ci propina.
Ancora più dell’anno scorso la vita privata di Paul, i suoi interrogativi di uomo e di professionista, quel che accade prima e dopo la seduta di terapia insomma, sono il cuore del racconto.

Allora secondo me un fenomeno come “In Treatment” va conosciuto anche perché è un segnale di una trasformazione culturale che coinvolge la nostra professione. Una disciplina che per parecchi anni ha fondato parte della sua efficacia sul fatto di essere segreta ai più oggi si misura con un modo di sentire – del quale la conoscenza orizzontale e la condivisione dell’informazione prodotte dalla rete sono insieme effetto, concausa e contesto – per il quale è sempre più difficile immaginare un esperto che fondi il suo “potere” sulla gelosa protezione della sua conoscenza.
Non so se mai la psicoterapia sia stata una torre d’avorio dall’alto della quale i professionisti guardavano, non visti, alla società che li circondava: certo oggi per ogni sapere è più adeguata la metafora del laboratorio di vetro.
Credo di non sorprendere nessuno se dico che un clinico – con esperienza non per forza pluridecennale, ma anche soltanto di dieci o dodici anni – misura questa differenza di clima, questa richiesta delle persone di essere considerate più competenti, di non affidarsi ciecamente e passivamente all’esperto.
La gente vuole saperne di più; qualche volta legge i libri che leggiamo anche noi e ultimamente guarda “In Treatment”.

In Italia, intanto, gli show televisivi divulgano una cultura psicologica folkloristica e un modello di terapeuta che apparentemente rinuncia al suo ruolo di esperto severo e distante, ma solo per scambiarlo con quello non meno severo e distante del fustigatore di costumi.
Ben venga anche quello. Ma intanto non si può che benedire esperimenti come “In Treatment” che contribuiscono a un maggiore pluralismo nell’immaginario sul nostro mestiere.

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