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Sono pregiudizi che circolano sulla cura della parola e sulla relazione terapeutica: ad essi proverò a contrapporre i miei pregiudizi.
Sono più veri di quelli? Diciamo che mi assumo la responsabilità di ritenerli piuttosto utili…
(Vignetta in alto: da APsA, American Psychoanalysis Association)
1. “In terapia trovi un esperto che ne sa più di te, ti dà le risposte e ti consiglia cosa fare”
Di cosa è esperto chi pratica la psicoterapia? Intanto di alcune teorie su come le persone stanno bene o si ammalano, sullo sviluppo psicologico, sulle emozioni, sulle relazioni. Ma queste competenze non producono nulla se non incontrano la competenza del paziente: sulla propria vita, sui propri desideri, sulla propria storia. Allora i due partecipanti (o più, qualora il setting sia di coppia o familiare) costituiscono una specie di team che mette insieme le rispettive competenze.
Per cui: a) no, il/la terapeuta non ha molte risposte; anzi è più utile se ha delle buone domande; e b) no, non elargisce consigli: i consigli, se va bene, non li segue nessuno; se va male, sono sbagliati. E in ogni caso è più utile accompagnare le persone nel costruire scelte proprie che indicare loro la “cosa giusta” da fare.
Va bene, dirà qualcuno, ma allora cosa ci sta a fare?
La competenza di un/una terapeuta sta nel creare un contesto in cui la conversazione, le domande, insomma la relazione, accolgano le persone nel chiarire aspetti della propria vita. Sta nell’usare le sue teorie senza prenderle come certezze assolute, ma come utili idee da confrontare con quella vicenda specifica. Sta nel saper guardare le cose da una prospettiva nuova e imprevista, con curiosità e senza giudizio. Non c’entra l’altruismo o il buon cuore: parlo di capacità che si appoggiano a studi, a tecniche e a una riflessione su di sé che accompagna il terapeuta in tutto l’arco della sua carriera.
2. “La terapia trova e risolve le cause di quello che ti succede”
L’idea che la terapia lavori sulle “cause” è ricalcata sull’immagine che abbiamo del medico: così il/la terapeuta identifica cause e le rimuove, o trova un modo per ridimensionarne l’effetto sul paziente, un po’ come fa un chirurgo o un gastroenterologo. C’è però che le cose della mente hanno uno statuto di “esistenza” un po’ diverso da quello di una infezione o di un danno del corpo.
Mi rendo conto che sto operando una semplificazione di cui mi sento già in colpa e che nemmeno la medicina pretende di affidarsi a una epistemologia radicalmente oggettivista. Ma diciamo che è un po’ diverso dire “Carlo ha una tibia fratturata” e “Carlo soffre per la sua relazione conclusa”. Della prima affermazione uno può dire “è vero”, o “non è vero”, o anche “è probabile” osservando una radiografia. Sulla seconda invece Carlo ha l’ultima parola, e se qualcuno volesse sapere della verità dell’affermazione dovrebbe chiedere a lui. E se è vera, è vera in un altro modo: in un modo che può modificarsi nel tempo e nella rinarrazione. La sua frattura non si modifica parlandone. Certamente il dolore risente degli effetti di una relazione di fiducia (lo sappiamo anche dagli studi sul placebo): ma il dolore, non quello che si vede sulla lastra.
Cercare “cause” ha più senso nel mondo fisico (a proposito: la tibia di Carlo ha ceduto a un colpo troppo duro in uno scontro diretto sul campo di calcetto), e un po’ meno nel mondo dei pensieri e dei significati, dove non esistono cose come forze o urti. Allora quel che emerge in terapia non è tanto il collegamento lineare fra un sintomo (o un malessere) e un evento causale, quanto l’inserimento di quel sintomo (o quel malessere) dentro una storia, dentro un quadro dove la domanda non è “qual è la causa?” ma più “in che rapporto sta con le altre cose che accadono nella vita di questa persona?”, “come sta insieme tutto quanto?”, anche quando al centro di quella rete di fatti c’è un evento “forte” che ha evidentemente innescato la sofferenza. Non per identificare cause da rimuovere, ma per unire i puntini in un disegno che abbia senso, per costruire una storia che sia un po’ diversa, o contenga qualcosa di più, da quella che il paziente conosce già. La prima cosa che fa la terapia d’altra parte è questa: è la scommessa che a quello che sembra insensato si può trovare, insieme, un senso.
Dieci terapeuti troveranno lo stesso senso? Probabilmente no. La differenza nel modo di unire i puntini è quello che distingue modelli diversi: come se ciascun approccio terapeutico avesse sue proprie regole narrative e raccontasse le persone da prospettive un po’ diverse.
3. “In terapia si parla del passato (e della mamma)”
Un pregiudizio connesso al precedente: è che nel passato che si trovano le cause di quello che accade oggi, e dunque le domande e l’esplorazione della vita del paziente (o della famiglia, o della coppia) guarderanno soprattutto indietro. Per esempio in qualche problema coi genitori (in un certo periodo si sarebbe pensato innanzitutto alla mamma: i padri vanno a lavorare, no?, che c’entrano loro?).
Anche in virtù di riflessioni sulla memoria e sul tempo psicologico, quello che oggi in campo sistemico pensiamo è che un ricordo è una ricostruzione che avviene nel presente (“il presente del passato“, dice questo libro), più che il recupero di una traccia oggettiva di qualcosa accaduta nel passato. Il passato non sta lì dove sta, con tutto il suo potere maligno e la sua influenza unidirezionale sul presente: l’esperienza del passato influenza il presente e la visione del futuro, e le idee sul futuro (timori, aspettative) influenzano il presente ma anche il modo in cui ricordiamo il passato, e la visione del presente influenza il modo in cui raccontiamo gli eventi passati e quello che ci aspettiamo dal futuro. È in questa rete di influenze fra le diverse dimensioni del tempo che si svolge la conversazione terapeutica. Le domande non sono solo del tipo “mi racconti quella volta che…?”, ma anche del genere ”se facessi questa scelta, come ti vedi dopo ?”, o “cosa accadrebbe se facessi l’altra scelta?” o “che effetto potrebbe avere per i tuoi figli questo periodo?” e così via.
4. “Se ci hanno indicato la terapia familiare per il problema di nostro figlio, ritengono che sia colpa nostra”
No, no, no e no.
Coinvolgere la famiglia non serve ad assegnare colpe. La colpa è un concetto che ha senso nel confessionale o in un’aula di tribunale, ma nella stanza di terapia si fa tutt’altro. La terapia della famiglia non si occupa di colpe ma di significati e di relazioni. Certo, in qualche caso c’è qualcosa che si poteva far meglio. Ma il punto non è deplorare l’errore, ma piuttosto capire insieme cosa ha impedito che andasse diversamente. La terapia della famiglia serve a inquadrare un problema in un contesto, guardare la sofferenza o il problema di un singolo come parte di una sofferenza o di una crisi più grande. Oppure a cercare risorse in altre parti del sistema: in questo senso a volte è utile pensare i genitori come i veri terapeuti dei figli, quelli che meglio di tutti possono ascoltare e tradurre il messaggio che sta dentro a un comportamento preoccupante di un altro membro della famiglia.
Vorrei dire una cosa molto seriamente.
So che riscuotono molto successo, ma il richiamo mediatico di personaggi — magari con grandi meriti passati — che si pongono come autorità morali, esperti giudicanti che si rivolgono ai genitori con aria sprezzante e annoiata, non è di grande aiuto a questo mestiere. Perché promuove una immagine sbagliata di questo lavoro, perché contribuisce a tenere lontane da un aiuto famiglie che potrebbero ricavarne giovamento ma che, giustamente, non ci stanno ad aggiungere al dolore anche un verdetto di incapacità o di cattiveria. Ecco, giudizio e moralismo non sono la sostanza di cui sono fatte le soluzioni ai problemi umani: sono anzi la sostanza di cui sono fatti quei problemi. Va bene per i talk show, ma la cura è un’altra cosa.
5. “Il/la terapeuta usa tecniche che ti cambiano, e magari senza che te ne accorgi”
Beh: sì e no.
È vero, ci sono terapeuti che usano tecniche che godono del conforto di ricerche quantitative che ne confermano il potere. La storia della terapia sistemica è anche una storia di tecniche più o meno efficaci, che aggiravano la volontà delle persone e le inducevano a comportarsi diversamente. Ma oggi molti di noi tendono a pensare che la grande fiducia per quelle tecniche ci nascondeva aspetti molto più cruciali. Ad esempio, la relazione terapeutica.
Allora: sì, la conversazione terapeutica è guidata da una tecnica. Anche il suonare uno strumento richiede una tecnica possibilmente allenata e acquisita. Ma non è la stessa cosa avere una tecnica e usare delle tecniche. Quando un terapeuta conversa, ovviamente non lo fa così come lo farebbe al bar o in altri contesti informali: lo fa seguendo dei princìpi tecnici. Questi danno forma alla relazione e lo guidano nella conversazione, nel fare le domande, nel proporre e attivare connessioni.
Ma tutt’altro è l’exploit di tecniche “miracolose”.
Sempre sulle tracce della metafora del suonare, un bravo musicista ha una tecnica solida, curata e perfezionata per anni, ma quella tecnica, quando suona, non si vede. Quello che si vede (e si sente) è una persona che crea musica. Se poi se ne esce con un numero di quelli che sembrano dire “ehi, guarda adesso come ti stupisco”, beh, lì la magia si rompe e lascia il posto a sfoggi di tecniche guidati da una intenzionalità un po’ vanesia. E quella non è mai la parte più interessante del concerto, così come le tecniche più o meno miracolose non sono mai la parte più importante della terapia — anche se tante ragioni fanno sì che le si racconti come decisive.
C’è un altro aspetto importante. Sì, da un po’ di tempo a questa parte assistiamo a un ritorno di fiamma per tecniche sorprendenti e presunte “risolutive”. Ma ammesso che abbiano un effetto (ammesso che l’effetto si possa attribuire proprio a quelle, in mezzo alle mille cose, quelle microscopiche e quelle più visibili, che avvengono in una relazione terapeutica) molti di noi credono che ci sia più di una buona ragione per stare alla larga da questi innamoramenti. Soprattutto una ragione etica: l’idea che in terapia possiamo innescare eventi e cambiamenti che aggirino la responsabilità delle persone ci piace sempre meno. Per quanto possa accrescere il senso di potenza e di efficacia di un terapeuta, il cambiamento purchessia non ci appare più come un obiettivo desiderabile della terapia: un obiettivo desiderabile è quello di favorire responsabilità e libertà di scelta.
6. “Il terapeuta è serioso ed enigmatico (e non parla mai di sé)”
Questa idea generalizza nell’immaginario il mandato di opacità dello psicoanalista, che è quella posizione per cui il clinico non parla mai della propria vita e se per caso incontra un cliente al supermercato deve essere abbastanza rapido da mimetizzarsi tra i fustini. È l’esatto opposto — altrettanto ideologico — dell’idea che il terapeuta “autentico” è quello totalmente “trasparente”.
Certo, la seduta non è un palcoscenico per l’autobiografia del/della terapeuta, ma a ciascuno sta di decidere cosa mostrare di sé e cosa no. L’inizio e la fine di tutto è l’impegno di coltivare e preservare la relazione terapeutica: a quello va subordinata qualunque altra scelta.
E sulla seriosità, beh, la terapia è un posto dove talvolta si sta in silenzio e talvolta si piange, ma fidatevi: si sorride anche un bel po’.
7. “Una terapia utile deve essere breve”
La terapia in poche sedute è stata il mito della terapia sistemica, alla sua nascita. Oggi siamo più portati a pensare che ci vogliono le sedute che ci vogliono, che non abbiamo il potere di far accadere le cose quando lo vogliamo noi, che i tempi del cambiamento dipendono da tanti elementi e che non tutti quegli elementi dipendono da noi.
Però ci è rimasta la convinzione che il tempo è prezioso, che ogni seduta dev’essere utile, anche quando non è decisiva.
A volte già una prima seduta porta ristruttrazioni importanti. Ad esempio emerge una domanda diversa e più utile di quella con cui il paziente o la coppia o la famiglia sono arrivati. Può succedere anche che alla fine di quella seduta ci si saluti: magari va bene così, o magari ci si rivedrà quando i tempi saranno maturi per dedicarsi a quella nuova domanda.
Insomma: né breve, né lunga. Una terapia dura quanto deve durare.
8. “Una terapia utile deve essere lunga”
Una terapia che si protrae per anni può soddisfare il desiderio di una conoscenza approfondita di sé, come in certe analisi che si fanno in formazione. Altre volte, magari con sedute più distanti, risponde al bisogno di un accompagnamento ravvicinato, di un monitoraggio costante nel corso di una fase della vita.
La lunghezza di una terapia ha a che fare con le necessità e i desideri della persona o della famiglia che vi si sottopone, con le possibilità di quel momento e con quelle del contesto. Ma se è vero che il terapeuta accorto non manda a casa un paziente prima di quanto sia utile, altrettanto (anzi, forse ancora di più!) si guarda dal prolungare una terapia che generi solo dipendenza.
E poi una terapia non dev’essere necessariamente “definitiva”: si può tornarci in un altro momento, dallo stesso clinico o da un altro, provare differenti prospettive e angolazioni per diversi momenti della vita.
Ancora: né breve, né lunga. Una terapia dura quanto deve durare.
9. “Per capire veramente, il/la terapeuta deve aver passato le tue esperienze”
“Dottore, lei ha figli?”: qualche volta significa “posso usare certi impliciti, certi riferimenti, una sorta di, diciamo, stenografia emozionale e andare dritto al punto?”, ed è quindi una questione di — diciamo così — economia della comunicazione, che non mette in discussione la possibilità di comprendere. Altre volte quella domanda, soprattutto se rivolta a professionisti giovani, vuol dire “come fai a sapere di cosa stiamo parlando, se non hai mai passato quello che sto passando io?”.
Aver fatto una certa esperienza non è garanzia di avere delle idee utili al riguardo. Terapeuti maschi non hanno mai partorito, terapeute donne non hanno mai avuto problemi erettili, un sacco di professionisti non hanno avuto gravi incidenti d’auto, non hanno disordini del comportamento alimentare né dipendenze, non hanno attraversato depressioni, non hanno mai tentato il suicidio, eppure tutti i giorni parlano di tutto questo.
Però tutti condividono la condizione umana, e se il terapeuta ha una vita fuori dalla stanza di terapia e non è convinto che quello che sta sui suoi libri sia il mondo, è meglio. Ma l’idea che se ha superato una malattia possa comprendere meglio una persona che la sta affrontando, o che aver tirato su dei figli lo metta in condizione di essere più competente per aiutare dei genitori, è fallace — sebbene comprensibile. Posso aver fatto quella esperienza, ma è la mia esperienza.
E soprattutto, ancora una volta: prima che sapere, il mestiere del terapeuta è fare domande. E quando pensi di sapere cosa l’altro prova, smetti di fare domande: le domande vere, intendo, quelle di chi non sa (e sa che non sa).
10. “Il/la terapeuta è una persona risolta”
Ahahahahah!
No, dai, era una battuta, vero?
Ah, non era una battuta?




