L’impressione è che (non in senso generale, ma con una frequenza che è utile registrare) fuori dalla “zona gialla” (e ancora di più fuori dall’Italia) la percezione di quello che sta succedendo sia piuttosto vaga e a tratti caricaturale.
Ancora ieri sera un giornale radio della RAI parlava di “Nord in quarantena”. Cosa che ovviamente, almeno fino a che le parole hanno un senso, non è, però tanti ricevono quell’informazione e si fanno un’idea a partire da quella. D’altro canto, mi pare circolare anche la convinzione che, in mezzo a quella che è una scocciatura di media portata, chiudere certe attività sia una scelta dettata dall’ansia eccessiva di qualcuno invece che da una precisa ordinanza del ministero.
Altri ancora non resistono alla tentazione di vedere tutto come la nemesi che si abbatte sui leghisti con l’elmo cornuto che vengono bloccati alla frontiera, loro che volevano i porti chiusi, ahah.

C’è il panico nei supermercati?

Foto di Ilaria Sabatini

Torno ora dal supermercato (oggi avrei dovuto prendere un treno per il lavoro ma ho dovuto rinunciare all’uno e all’altro). Gli scaffali sono mediamente forniti e, a guardarsi intorno, le persone sono mediamente tranquille.
Le foto sui supermercati razziati sono pittoresche, ma non ha senso prenderle come la misura di qualche cosa, meno ancora della paura di chi vive nelle zone lambite dal virus. È un fenomeno normale per cui se anche solo il mio vicino davanti allo scaffale comincia a fare incetta di tutto, io penso “forse mi conviene fare scorta, perché se va così, domani non trovo il latte”. Quello accanto a me mi vedrà prendere un cartone di latte invece della solita bottiglia, e così via. Non è un comportamento irrazionale: è una banale amplificazione sistemica di certi comportamenti, e certo in altri periodi non ne vediamo di così spettacolari, ma alcune foto sui social sono un po’ poco per diagnosticare che un pezzo di Italia è nel panico.

Per rinunciare alle alternative “è un disastro biblico” versus “è una sciocchezza” non è necessario essere sensibili alla complessità: è sufficiente sapere che (per dirla con Bart Kosko) il bianco e il nero sono due gradazioni del grigio. Fra “ecco l’apocalisse” e “non è successo niente” ci sono alcune altre possibilità, fra cui ad esempio “siamo in un momento piuttosto complicato“.

Tante persone diverse, tanti disagi diversi

Dal punto di vista sanitario, certo non è la peste e forse “muoiono soltanto i vecchi”. Ma se uno di quei vecchi avesse potuto morire anche solo una settimana più tardi, per lui e per un po’ di altra gente avrebbe fatto una differenza. Né stiamo parlando di una “banale influenza”, fosse solo perché una influenza che si presenta per la prima volta, per definizione tutto è tranne che “banale”.
Dal punto di vista della vita quotidiana, “un momento piuttosto complicato” significa che contempla una gamma molto varia di disagi. Non è solo che qualche milionario milanese questa settimana guadagnerà un po’ meno o che qualcun altro rinuncerà all’aperitivo dopo le 18: è che qualcuno perderà qualcosa e se ne farà serenamente una ragione, qualcun altro si troverà in difficoltà più grandi, per qualcun altro ancora sarà un guaio enorme. Intanto una dozzina di comuni vivranno ancora per un po’ isolati dal resto del mondo.

Foto Claudio Furlan – LaPresse 23 Febbraio 2020

Per dirne una: tanti genitori dovranno scegliere fra il lavoro e badare ai bambini che non andranno a scuola. Moltiplicate questa storia per non so quante migliaia. E aggiungete il fatto che nessuno sa dire quanto tutto questo durerà. Altro che leghisti con l’elmo.
Peraltro, se io mi fossi trovato a rinunciare a un volo prenotato per il nord Europa per, che ne so, realizzare un progetto di vita, sarei piuttosto infastidito dallo sghignazzare sui leghisti bloccati alla frontiera. Fra chi deve rinunciare a muoversi c’è che non ne risentirà affatto, ma c’è chi si muove per studio, c’è che si sposta per lavoro e c’è anche chi voleva farsi la prima vacanza con la moglie dopo vent’anni e francamente, prima di essermi messo nelle scarpe di ciascuno, non me la sentirei di separare quelli che meritano solidarietà da quelli che, tutto sommato, chi se ne frega. A parte i leghisti con l’elmo, intendo.

Insomma, non è che se non è la fine del mondo allora va tutto bene: rispondere al terrore sparso a piene mani da Libero con la negazione è giocare a ping pong sullo stesso tavolo di Sallusti.

Domande nuove

Il punto è che c’è una parte del paese (sempre nell’auspicio che non tocchi ad altre nei prossimi giorni) sta vivendo un “momento piuttosto complicato” in cui deve trovare risposte a problemi nuovi e addirittura, qualche volta, accordarsi su dei criteri per trovare quelle risposte. Cioè: se la medicina dal canto suo sta facendo – almeno lo supponiamo – quello che può per rispondere a una situazione che non conosceva prima, dall’altra noi tutti dobbiamo rispondere ad alcune questioni su cui non abbiamo avuto occasioni recenti di fissare dei principi condivisi (e dubito che sia possibile fissarne). Per dire: quanto vale la sopravvivenza di una settimana di un anziano ammalato? Quanti aperitivi? Quanti quarti dei guadagni del mese, per dire, di un commerciante? E di un operaio? E di un professionista? E di un industriale? E una settimana di sopravvivenza di due anziani? E di cinque?

Ora, al di là del tripudio di bianco e nero dell’informazione, la vita va avanti, un po’ circospetta e con l’amuchina in tasca, ma va avanti, come si va avanti in un “momento piuttosto complicato”: complicato dalla difficoltà delle domande che ci pone e dal fatto che quelle domande riguardano la salute, l’economia, l’etica e non ultima la psicologia; e infine complicato dalla molteplicità delle singole storie, che lo rendono irriducibile a un’unica definizione.

Per concludere: lo psicologo al tempo del coronavirus

Certo è una situazione nella quale è facile sentirsi sopraffatti ma altrettanto possibile è avvertire il senso di connessione e di interdipendenza che essa genera. Abbiamo la consapevolezza che gran parte del lavoro dipende dai medici e dai ricercatori, ma anche che una parte non esigua è legata a una assunzione di responsabilità reciproca. Sentiamo che nel mondo interconnesso i problemi reclamano una nostra partecipazione ma che, allo stesso tempo, la buona volontà dei singoli non è abbastanza.
In questi giorni i nostri ordini professionali hanno emanato linee guida da seguire nel rapporto con le persone e nella gestione dell’attività. Io lavoro in una zona che (per il momento) non è dichiarata a rischio, ma è importante tener conto che alcune persone possono avere le loro riserve a frequentare uno studio, e comunque non essere direttamente colpiti dal virus non ci esime dal tenere comportamenti prudenti. Spesso i pazienti mi domandano se l’appuntamento sia confermato e si ci siano problemi. Soprattutto se hanno una situazione di salute che li rende vulnerabili, la proposta alternativa è una seduta via Skype. Qualora invece siano disposti a venire in studio, l’occasione è preziosa per introdurre un patto di responsabilità e di protezione reciproca: se uno dei due ritiene di aver frequentato zone o contesti a rischio, o comunque in qualunque momento sente che la propria sicurezza e quella dell’altro è in pericolo, lo dichiara E, al di là, naturalmente resta la libertà di rinviare tutto a quando sarà passata la paura.

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