Curiosamente, fino a che non l’ho ripreso in mano stamattina, ero sicuro di ricordare che il sottotitolo di questo volume fosse “Un antropologo da marciapiede”. Che è quasi una crasi fra il sottotitolo vero e il titolo del primo capitolo (Un uomo da marciapiede, naturalmente, una delle tante citazioni che saltano fuori dal volume), ma svela quel che mi ha colpito dalla prima lettura: cioè il fatto che la teoria e la visione del mondo dell’antropologo qui emergano dall’esperienza del quotidiano, anche di quello più piccolo e apparentemente ovvio.

Conosco Felice da un bel po’ ed ho condiviso con lui più di quanto basti per rendere inattendibile una mia “vera” recensione di un suo libro. Però rivendico la possibilità che la mia prospettiva particolare mi metta sotto gli occhi aspetti della sua scrittura che magari non sono quelli che vede il suo lettore. Per dirne una, quando lo leggo non posso fare a meno di pensare al suo stile inestricambilmente legato, come la sua pratica e il suo pensiero, alla socialità e alla convivialità. Cioè: provate a lavorarci, con Felice, e ditemi se il meglio, la parte più importante e creativa di quello che viene fuori non è quella che nasce a tavola. Mentre voi aggredite la seconda porzione di pasta al forno e lui (che magari è alla quarta) vi parla guardandosi intorno, attento all’umanità e al mondo che si muovono, quasi quanto a quello che ha nel piatto e alla conversazione.

Ma una cosa che posso dire è che ho sempre avuto interesse per la scrittura di Felice Di Lernia perché, interessandomi da tempo di scrittura digitale e dei modi in cui le scienze umane (la mia, la sua…) possono trovare una declinazione in questo particolare ambiente di scrittura, ho sempre pensato a Felice come uno dei casi più riusciti di questo esperimento. Quando parlo della specificità della scrittura digitale non mi riferisco a quello stile pensato per tempi di attenzione compressi e consumo frammentato: al contrario, penso a una forma che renda conto della complessità con una curiosa diffidenza verso la separatezza delle discipline e dei campi del sapere, favorendo piuttosto connessioni ipertestuali e percorsi argomentativi batesonianamente abduttivi. Tutto ciò è perfettamente pertinente anche in questa opera cartacea, “analogica”, perchè si tratta di un libro che della vita online di Felice, della sua esperienza di blogger, è diretto discendente.

Foto da Bisceglieviva.it

Così si può parlare di come conosciamo, di come conviviamo, di razzismo, di politica, a partire da quello che si vede uscendo da casa o lungo un viaggio in treno, o in una coda in aeroporto. E dall’altra parte si può leggere di Morin o di Wittgenstein divertendosi e commuovendosi. Perché rifiuto dei limiti tradizionali delle discipline significa anche irriverenza nei confronti del linguaggio accademico, significa scegliere parole condivisibili e trasparenti. Spinto all’estremo, una scrittura nella quale l’autore si implica.
Eppure il vento soffia ancora è infatti un libro scritto in prima persona. Di Lernia ci mette dentro la propria esperienza e la propria biografia, le proprie debolezze e i propri amori. Uno di quegli amori si svela già dal titolo, che rimanda a una delle migliori canzoni di Pierangelo Bertoli (e insieme ad Alberto Bertoli, figlio e collega dell’altro, Felice ha presentato il libro in alcune occasioni, riscaldate dalla chitarra e dalle canzoni).

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