Massimo Giuliani e Massimo Schinco dialogano con Ada Piselli [*]
Versione Italiana delloriginale in inglese pubblicato da 
“Metalogos SystemicTherapy Journal”, n. 32/2018
metalogos-systemic-therapy-journal.gr/en

Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza
Dante
Inferno, canto XXVI

Massimo Giuliani e Massimo Schinco sono due psicologi e psicoterapeuti italiani. Si sono incontrati al Centro Milanese di Terapia della Famiglia (CMTF), fondato da Luigi Boscolo e Gianfranco Cecchin, dove entrambi hanno ricevuto un pezzo importante della loro formazione come psicoterapeuti e dove entrambi hanno svolto parte della loro attività professionale come clinici e come didatti nella scuola di specializzazione del CMTF e, per quanto riguarda Massimo Schinco, anche come co-direttore del Centro stesso insieme a Luigi Boscolo. Giuliani e Schinco condividono, seppure con alcune differenze, la passione per la clinica e per la musica (oltre che per una certa birra e per il caffè fatto come si deve). Intrattengono da anni intensi e proficui dialoghi professionali che hanno dato origine ad alcuni contributi scritti a quattro mani e ad una solida amicizia. Se i loro destini si sono fatalmente incrociati in via Leopardi, sede del Centro, le loro strade come studiosi si sono separate e re-incontrate molteplici volte, disegnando traiettorie affascinanti, non ortodosse, prolifiche.

Ada Piselli, psicologa e psicoterapeuta, didatta presso il CMTF, non è solo l’interlocutore-intervistatore, ma è, in questa relazione, il terzo. Negli ultimi anni Massimo Giuliani e Massimo Schinco l’hanno coinvolta in molti dei loro scambi e in alcune delle loro esplorazioni. Questi stessi anni hanno visto tutti e tre alle prese con passaggimolto intensi sia sul piano personale (nascite, morti, svincoli, persino un matrimonio) che sul piano professionale: sono state fatte delle scelte, con diversi gradi di libertà, che hanno portato a separazioni professionali, alla nascita di cose nuove e alla necessità di inventarsi comunque un contenitore originale per ospitare i loro dialoghi. Se dunque il Centro Milanese è stato terreno fertile per la nascita di questo curioso sodalizio, esso non ne costituisce più la cornice. Non casualmente dunque i temi della distanza e della vicinanza, dei confini, della pelle, del cambiamento, della creatività, del coinvolgimento e dell’individuazione, sono stati tra gli argomenti che li hanno occupati e appassionati di più, su cui si non confrontati maggiormente, pur con tutte le differenze reciproche. Per questo il tono di questa intervista è così colloquiale, eppure così rigoroso al tempo stesso.

Massimo Giuliani e Massimo Schinco hanno condiviso con i fondatori del Centro Milanese di Terapia Familiare esperienze professionali e personali e, a parere di Ada Piselli, anche la necessità di tenere insieme un pensiero complesso, multidisciplinare, eppure sempre rigoroso, frutto di formazioni ed esperienze e letture e frequentazioni anche distanti dall’alveo classico della terapia.

Luigi Boscolo e Gianfranco Cecchin infatti sono stati medici, psichiatri, psicoanalisti, psicoterapeuti sistemici, formatori, didatti, supervisori… Entrambi hanno fatto e scritto molte cose e ricoperto ruoli diversi. Entrambi si sono posti, separatamente, il problema di come tenere insieme idee, formazioni ed esperienze differenti, senza cadere nell’eclettismo, ma anzi mantenendo sempre un rigore (sistemico) di fondo. Boscolo con il modello epigenetico e Cecchin con l’idea dell’irriverenza.

Ada Piselli: Anche voi negli ultimi anni avete esplorato territori teorici e prassi diverse, spesso avvicinandovi ad autori e ad argomenti poco frequentati dalla clinica e dal modello sistemico in particolare (i sogni, le metafore, la rete, la creatività.)… Suppongo che anche voi vi siate posti il problema di “tenere insieme”. Come?

Massimo Giuliani: Oh, questo è stato un pensiero insistente per un po’ di anni. All’inizio intuivo che la mia idea di terapia doveva avere a che fare con qualcosa di artistico, e che non sarei riuscito a starci dentro diversamente, ma per un po’ non mi è stato così chiaro.
Al Centro Milanese di Terapia della Famiglia, Massimo Schinco fu mio docente per un po’, e lui questa faccenda di terapia, arte e creatività l’aveva assunta all’epoca come argomento fondante del suo lavoro. Avere a che fare con lui mi aiutò a chiarire che la connessione aveva senso e che c’era un modo di realizzarla.
Inoltre venivo da un periodo e da frequentazioni professionali in cui era molto sentita la questione della cosiddetta integrazione: cioè si poteva essere sistemici, ma bisognava conoscere il linguaggio della diagnosi e della psicoanalisi. Perché si doveva? Per intendersi fra clinici, mi dicevano; per avere un “linguaggio condiviso”. Questa storia del linguaggio condiviso mi pareva vagamente colonialista: perché il linguaggio condiviso non poteva essere il mio? Perché non un altro ancora? Perché a contendersi il primato di “linguaggio condiviso” erano il DSM e la psicoanalisi? Ma provai a starci, con molta buona volontà. Frequentavo contemporaneamente la mia prima scuola sistemica e una scuola di psicodiagnosi, che dava una robusta preparazione in campo psicodiagnostico e in una prospettiva psicoanalitica. Fu una buona idea, ma — oggi posso dire — per ragioni del tutto diverse da quelle che credevo in quel periodo. Tanto che, allora, presi a intrecciare le cose, a vedere famiglie facendo diagnosi individuali, a prendere in carico individui somministrando test proiettivi ma cercando di mantenere la barra sulla rotta sistemica. Non durò a lungo. Oggi sono felice di quelle deviazioni, per ragioni che hanno a che fare con quello che Boscolo chiamava epigenesi, anche se non lo compresi subito. Quel capitolo della mia formazione ha dato il meglio quando quel sapere, quel linguaggio che avevo appreso, quel modo di avvicinarsi al sentire dell’individuo, hanno cominciato a riemergere in un modo non strumentale, non determinato dalla mia finalità cosciente, direi.

Per facilità mi autocito: ho scritto di recente a proposito di Luigi Boscolo

“Con la sua idea che il terapeuta è, per così dire, la sedimentazione epigenetica delle sue esperienze, dei suoi apprendimenti e delle sue passioni, ci fece capire che la cosiddetta “integrazione”, se è un’operazione intellettuale, genera mostri a due teste: se invece è accoglienza da parte del terapeuta degli elementi della propria storia personale e professionale, è presa di coscienza della propria biografia e delle premesse stratificate nel tempo. In conseguenza di ciò, essa è un’assunzione di responsabilità. E in quanto unica e irripetibile, è un’esperienza artistica.”

Quello di cui Luigi Boscolo parlava negli ultimi libri, quelli scritti negli anni 90 con Paolo Bertrando, cioè che il modello del terapeuta sia anche il prodotto della sua storia personale, aveva a che fare con la responsabilità. Nel senso che se nasce nella mia storia e non da un principio superiore quanto astratto di “integrazione”, di quel mio personale modo di connettere i miei saperi io posso rispondere.
In quel periodo ascoltavo musicisti americani che all’epoca passavano per “avanguardia”, ma erano molto divertenti. Mi piaceva un chitarrista, Bill Frisell, che faceva dischi, insieme al sassofonista John Zorn, in cui ogni quindici o trenta secondi all’interno di un pezzo finiva una sezione e ne partiva un’altra di un genere musicale differente, cose così. Era un modo — tutto postmodernoprobabilmente — di dire qualcosa su categorie codificate, come i “generi”, per ricontestualizzarle, per utilizzarle in un modo che avesse un senso — poi ho scoperto — anche profondamente autobiografico. Frisell è un musicista colto, ma diceva “perché non dovrei suonare il country, che mi ha fatto innamorare della musica quando ero giovane?”. Cominciando a frequentare Boscolo e vedendolo lavorare, mi colpì come reintroduceva nel suo modo di fare ipotesi, nelle sue letture delle relazioni familiari, categorie psicoanalitiche che appartenevano alla sua esperienza passata, dalla quale per anni aveva cercato di separarsi: naturalmente ricontestualizzare, per dire, il “narcisismo” in quella cornice lo rendeva un concetto un po’ diverso all’originale. Trovavo tutto questo molto in sintonia con i musicisti che mi piacevano (Bill Frisell poteva suonarecountry, ma non eraun musicista country, sebbene fosse qualcosa che contenevaanche quello). Compresi il senso di quello che aveva chiamato “modello epigenetico” guardandolo lavorare e ascoltandolo spiegare quello che faceva; e, insieme, ascoltando le cose che facevano quei musicisti.
All’inizio degli anni 2000 ho cominciato a leggere tutto quello che esisteva nel campo della teoria dell’ipertesto, e a immaginare la relazione terapeutica come una narrazione ipertestuale e multilineare.I filosofi del virtuale, Pierre Lévy prima di tutti, mi hanno indicato un vocabolario per pensare al cambiamento: cominciai a pensare al “virtuale” come uno sconfinato insieme di possibilità; al percorso tra virtuale e attuale come una sterminata ramificazione di strade anziché come a un punto di partenza e un punto di arrivo. Questo, naturalmente, coinvolgeva la mia idea di terapia e di cambiamento. Apriva strade quanto mai distanti da qualunque idea di cambiamento strategico.
Connettere queste idee alla terapia mi è venuto abbastanza naturale, come poi è venuto naturale pensare alla seduta sistemica in termini di improvvisazione musicale o di struttura narrativa più “tradizionale”. Nel senso che smisi di domandarmi quale fosse il piano su cui arte e terapia potevano incontrarsi quando cominciai a pensare che il piano ero ioe che l’unico criterio di legittimità dell’operazione era la mia completa assunzione di responsabilità al riguardo.

Massimo Schinco: Per rispondere è necessaria una digressione nel mondo della musica. Quando leggo uno spartito, la mia attenzione apparentemente si suddivide in modo un po’ particolare. Una parte di essa deve essere concentrata sulle note che suono in quell’esatto momento, un’altra deve focalizzarsi su quelle che sto per suonare immediatamente dopo. Se non farò così, andrò incontro a irrimediabili difficoltà di tipo meccanico. È uno dei tanti motivi per cui vedi, sulla parte affidata a un musicista, un buon numero di segni a matita. Sono dei richiami fatti in modo che il corpo si predisponga a fare nel modo necessario o migliore ciò che dovrà essere fatto. A dire il vero, questa descrizione rende solo parzialmente ragione di quel che succede. Man mano che si progredisce nella pratica musicale, la lettura e l’esecuzione della musica somigliano sempre meno a una sommatoria lineare di singole note che si succedono nel tempo. In realtà ciò che si legge e si produce sono delle configurazioni di suoni, in cui ogni singola nota assume una identità (e non solo un valore matematico) a seconda del posto che occupa in quella configurazione. Quando questo inizia ad accadere, si sta iniziando a fare musica. Ma anche questo non è certamente un punto d’arrivo. Questa pratica è gratificante per il musicista, e rende onore alla musica e al suo compositore, quanto più si tende a curare la qualità dell’intera configurazione e al contempo quella di ogni singola e più piccola nota. La presenza di questa tensione è più importante del risultato acquisito. Essa schiude un mondo: a un certo punto si avverte che l’insieme delle configurazioni e delle singole note ha un legame fortissimo con qualcos’altro… Qualcosa che sta sotto, o sopra, o comunque altrove rispetto alla materialità di quella specifica musica. La musica obbedisce a quel “qualcos’altro” che la genera nel momento in cui il musicista entra in amorosa relazione con esso. Nei musicisti alberga ogni tipo di convinzione e di credo, anche i più improbabili. Tutti o quasi però ti diranno che c’è questa straordinaria tensione tra un che di metafisico, in cui ha origine il suono, e la fisicità della sua produzione, la materialità del suono prodotto. È straordinario. È come far l’amore amando. A un certo punto, ciò che ti interessa, è non perdere quel contatto amoroso e generativo. Tutto il resto è importante, ma in subordine. Rimanendo nella metafora dell’amore: se quel contatto si perde, i più raffinati giochi erotici diventano inconcludenti e insoddisfacenti. Oppure, l’eros si può estinguere del tutto.

Adesso posso iniziare a rispondere alla tua domanda. Quando ho conosciuto prima come allievo e poi come collaboratore Luigi Boscolo e Gianfranco Cecchin, è stato come avvicinare una musica del tutto nuova, strana, a volte apparentemente semplice ma molto difficile in realtà… Janacek? Bartok? Stravinsky? Qualcosa del genere. All’inizio, da buon principiante, ho cercato di eseguire tutte le notine una dopo l’altra… poi ho iniziato a cogliere le configurazioni… e poi a un certo punto BANG! Sono entrato in contatto con ciò che generava la loro musica. Da quel punto in poi, mi è interessato solo quello: non mi importava un fico secco di essere in linea con questa o quella teoria, di applicare questa o quella tecnica, di rispettare questa o quella ortodossia. Loro se ne accorsero, e fu in quel momento che il mio rapporto con loro cominciò veramente a cambiare. Il primo con cui strinsi una relazione più stretta fu Cecchin. Ci accomunava la sensibilità musicale, e lui mi incoraggiava a seguire la strada che accomunava percorsi musicali e percorsi terapeutici. A Cecchin debbo anche qualcos’altro di molto prezioso. Non credo che Henri Bergson fosse tra i suoi autori di riferimento, ma Cecchin incarnava meglio di chiunque altro la famosa affermazione di Bergson “Non si può conoscere e comprendere se non ciò che si può in qualche misura reinventare”. Una tale disposizione implica l’assunzione che il gioco è una modalità fondamentale di conoscenza e di relazione. Io questa disposizione — come dire — ce l’avevo dentro, ma era confinata nel privato. Non osavo investirla nella teoria e nella pratica terapeutica. Stare tante ore con lui mi aiutò a tirarla fuori e a lasciarmi andare. Gliene sono veramente grato: tutto ciò che ho fatto da un certo punto in poi, ivi compresa lo sviluppo della passione per un approccio trans-disciplinare alla mia professione di psicologo e di terapeuta, non penso che avrebbe potuto esserci senza questo passaggio. Con Boscolo, per molto tempo il collante credo che fosse rappresentato soprattutto dalla passione per la clinica. Nel senso che tutto (cinema, musica, letteratura, poesia, ricamo …) può essere bello, interessante, affascinante da applicarsi alla pratica sistemica, ma se si perde di vista la clinica e la relazione terapeutica, lo si può tranquillamente gettare via. Lui era piuttosto drastico da questo punto di vista. Più in là, a partire da anni per me decisivi, come il 2007, colsi in lui qualcos’altro di totalmente fuori dal comune, su cui ritornerò più in là.

Ora rispondo alla tua domanda. Per un bel po’ di tempo non mi sono quasi mai preoccupato di tenere insieme le cose. Viceversa, mi sono molto più preoccupato di tenerle ben separate finché era bene che rimanessero separate. All’inizio, come allievo, non dovevo confondermi le idee (questa era la raccomandazione che ci facevano Boscolo e Cecchin all’inizio degli anni 80). Poi come didatta, anche se dentro di me le idee erano chiare a sufficienza da lasciarle convivere, dialogare e interagire tra loro, non dovevo confonderle agli allievi. Ci tengo a ripetere che finché sono rimasto all’interno della scuola, io agli allievi ho sempre insegnato il modello di Milano, mica le cose mie. Poi, in quel triennio in cui fui co-direttore della scuola e quindi inevitabilmente il mio taglio personale venne più in evidenza, mi preoccupai di rendere chiara la distinzione tra la cornice teorico-tecnica, che doveva rimanere quella di Milano, e l’apertura ad ogni possibile sviluppo futuro, a condizione che, metaforicamente parlando, esso fosse in contatto con “la fonte della musica”; per questo e non per altro, ritengo di aver goduto dell’attenzione e della fiducia dei “padri fondatori”. D’altronde, lo sviluppo scientifico era necessario tanto quanto la cornice consolidata e riconoscibile, se non si voleva che la scuola andasse incontro all’entropia scientifico-formativa. Così come in musica bisogna mantenere una relazione viva con ciò che la genera, e dotarsi per quanto possibile di solidi mezzi tecnici e materiali per produrla, lo stesso è nella psicoterapia.
“Tenere insieme” è uno sforzo inevitabile quando si ha una responsabilità scientifica e organizzativa… ma “tenere insieme” è un’operazione che richiede chiarezza e quindi necessariamente comporta il fare delle distinzioni, a meno che non si vogliano produrre o perpetuare grossi pasticci. Quel periodo potrei definirlo come un periodo di ricerca di chiarezza. Mi era di grande sostegno non solo il lavoro di Ernest Hartmann sulla natura dei confini nella psiche e nei rapporti sociali e sul loro rapporto con le sorgenti della creatività, ma anche l’amicizia con lui. Quando Ernest è venuto a mancare è stato un momento doloroso, purtroppo coincidente con il rapido e inesorabile rovinarsi dei rapporti con il CMTF.
Man mano che i rapporti con la Scuola di Milano si deterioravano, fino a cessare del tutto, avveniva una sorta di cambiamento caleidoscopico. Ero molto libero, non dovevo spiegazioni a nessuno, dovevo solo esprimermi cercando di farlo bene. La priorità era diventata quella di rendere riconoscibile e organizzato ciò su cui stavo lavorando da circa vent’anni. Ricevevo molti inviti in questo senso, anche piuttosto autorevoli. Non so… è stato come se saltasse un tappo. È stato un periodo vulcanico. Per dire: in Polonia c’erano (e ci sono ancora!) studiosi che avevano una forte tensione di tipo trans-disciplinare: beh, sono andato in Polonia un mucchio di volte, ho prodotto un certo numero di presentazioni a convegni su argomenti anche apparentemente lontani dalla clinica. E poi venivano finalmente a maturazione, dopo tanti anni di lavoro, i connotati del mio personale modo di intendere la relazione terapeutica: sia per ciò che attiene i suoi fondamenti antropologico-filosofici, sia per le sue caratteristiche diciamo così, operative. È così che è venuta alla luce l’Eleogenetica, ovvero ciò che, almeno per me, tiene insieme le cose garantendo quella tensione trans-disciplinare necessaria affinché le nostre discipline psicologico-cliniche non avvizziscano fino a diventare insipide o peggio, potenzialmente dannose. Ed è diventata sempre più riconoscibile una comunità di persone, colleghi e non, a volte anche molto diverse tra loro ma tutte accomunate da questa tensione a rimanere in contatto, diciamo così, “con la fonte della musica”. Viceversa, non provo più attrazione verso gli ambienti o le persone ove questa tensione manca, o addirittura viene contrastata. Luigi Boscolo ci lasciò mentre mi apprestavo a mettere in ordine i punti chiave dell’Eleogenetica, che avrebbe visto ufficialmente la luce a Cracovia in un convegno dedicato alla percezione dell’Olocausto nel mondo contemporaneo. In quel convegno fu fondata la European Association for the Holocaust Studies, di cui sono Associate Member. A ripensarci, spero di aver portato nell’Eleogenetica qualcosa che a Boscolo, come ho accennato sopra, apparteneva in un modo assolutamente non comune. Essere un clinico straordinario era tutt’uno, in lui, con la capacità di cogliere — entrandovi in contatto — la sofferenza altrui. Non importa quanto fosse ben nascosta; lo faceva in modo diretto e naturale, proprio come se fosse la cosa più naturale del mondo, e questo spegneva ogni sentimento di vergogna e inferiorità per la propria sofferenza. Gli esseri umani soffrono, hanno debolezze e aspetti negativi, sgradevoli, pessimi a volte. È inutile girarci intorno, il punto di partenza è l’accettazione di tutto questo. È uno dei caposaldi dell’Eleogenetica, e la corrispondenza con il compianto Arno Gruen mi ha aiutato a comprenderne l’importanza. Peccato che Gruen e Boscolo non si siano conosciuti, credo che si sarebbero piaciuti.

Ada Piselli: Partiamo dall’inizio (ma è stato davvero questo il vostro inizio come psicoterapeuti?): dove tenete ora i testi di Gregory Bateson e quale rapporto avete con loro?

Massimo Giuliani: Lo recupero a periodi, a seconda delle necessità. Negli ultimi anni mi è stato molto utile per il mio lavoro sulla metafora. Penso che la lettura di Bateson resti un forte e autorevole richiamo a un modo di interagire col prossimo. Penso sia necessaria a contrastare le tendenze interventiste e strategiche che un terapeuta può avvertire. Penso che sia molto lucido nella sua critica alla separazione tra le discipline, che ha un senso dal punto di vista accademico e quasi nessuno sul piano epistemologico e scientifico.
Credo sia necessario tenerlo sempre presente fra gli autori guida e allo stesso tempo, da un po’, cerco di evitare di fare di Mente e natura qualcosa di troppo vicino alle Sacre Scritture.
Diciamo che vado in cerca di nuove fonti di ispirazione e di autori che sostengano con una adeguata cornice epistemologica i pensieri che sto mettendo in fila nell’ultimo periodo. L’ossessione della terapia come arte mi sta portando a rileggere Feyerabend, al quale già mi avvicinai anni fa e che infatti tanto nuovo non è. Intanto, quando afferma che per la scienza le eccezioni e l’inatteso sono preziosi quanto le regole mi sembra interprete di un approccio cecchiniano. Diceva Cecchin: se per la scienza — riassumo a memoria — ci sono novanta probabilità che un fatto abbia determinate conseguenze, a me interessa capire soprattutto quell’altro dieci per cento. Più in generale, mi sta a cuore il modo in cui ricolloca la creatività nel progresso scientifico, assegnandole una posizione non più secondaria, ancillare, ma libera rispetto alle metodologie quantitative.

Massimo Schinco: Come giustamente suggerisci, Bateson non è stato l’inizio. Quando è arrivato, però, ha contribuito molto a rendere riconoscibili delle configurazioni che stavano in quella specie di tavola di Rorschach che era il backgroundculturale di uno come me, che ha iniziato il liceo nel 1970 e ha finito l’Università nel 1980. Cerco di darti un’idea. In modo un po’ indefinito e disorganizzato, con tante incoerenze tra fantasticherie e concreta condotta di vita, c’era proprio un discrimine, a quei tempi, tra gruppi di giovani dotati di sensibilità differenti. C’erano quelli che credevano che il mondo è come lo si vede — e ti devi regolare di conseguenza senza tante storie — e quelli che perlomeno “sentivano” che la mappa è una cosa e il territorio è un’altra… anche se poi le mappe fanno parte del territorio e quindi non è facile sbrogliarsela. Per riprendere le parole di Bateson stesso, molti di noi non si riconoscevano nel “mondo come è”; a un certo punto però si creava un ulteriore discrimine. Non tutti diventavamo coscienti del fatto che farsi abbagliare ingenuamente dall’immagine di un “mondo come dovrebbe essere” portava a ogni sorta di deriva ideologica o para-religiosa. Però, anche se lo capivamo, non sapevamo come uscirne. Il pensiero di Bateson aiutò molto a fare chiarezza. Mise in luce la centralità delle questioni epistemologiche e, in un’epoca di eccessi ideologici, radicò nuovamente l’uomo nel suo ambiente naturale, nella biologia, anche se la “sua” visione estetica della biologia era molto più arricchente di quella a cui eravamo abituati. Devo dire che la passione e la sensibilità di Bateson per il vivente mi hanno sempre affascinato. La mia impressione personale è che Bateson sia entrato in profonda risonanza con i processi di sviluppo, molto più che con quelli di cambiamento. Di fatto, la sua visione del cambiamento consiste nell’assecondare, disturbandoli il meno che sia possibile, i processi naturali dello sviluppo. È una visione che, se applicata in una certa misura, è molto saggia, permette di astenersi da inutile e stupida violenza e previene le catastrofi ecologiche come quelle in cui ci stiamo trovando ora. Se però viene assunta in modo assoluto, fa torto all’essere umano da un punto di vista antropologico-filosofico, perché squalifica quel suo libero arbitrio e quella capacità di visione che lo rendono umano in modo unico, cioè fortemente progettuale, visionario ai limiti dell’impossibile, tenace, folle nell’amore come nel suo contrario. In senso ultimo, in una visione di quel tipo non c’è nemmeno posto per la psicoterapia. E invece la psicoterapia a Bateson deve molto, se pensiamo al modo in cui egli ha messo in luce il legame profondo tra la qualità della relazione e la qualità delle emozioni e dei pensieri. Questi sono per me dei contributi preziosi. Tornando a quelli che viceversa potrebbe essere i limiti del suo pensiero, ho scritto più volte in proposito: un eccesso di razionalismo che gli preclude la passione per la cura e lo confina in immanentismo un po’ pasticciato, dove la sua tensione per il sacro non può trovare risoluzione. Quindi, per concludere, dove tengo Bateson? Tra gli attrezzi, grandi, belli e potenti… è un formidabile aratro epistemologico, capace di rovesciare anche le zolle più dure. Poi però bisogna seminare, e la semente deve essere trovata altrove. L’originario gruppo di Milano trovò questa semente in una visione di alto profilo della relazione terapeutica, realizzando un connubio straordinario e fecondo di risultati e successivi sviluppi. Ma la potenza risiedeva nell’unione quasi nuziale dei due elementi, relazione terapeutica ed epistemologia sistemica. Viceversa, negli ultimi anni di insegnamento purtroppo ho constatato che molti, troppi allievi e giovani terapeuti sistemici sono insufficientemente preparati dal punto di vista della relazione terapeutica. Leggono Bateson o autori a lui ispirati; alcuni lo fanno con entusiasmo, molti perché costretti. In tanti sono ossessionati dall’idea di apprendere delle tecniche, sperando che questo migliori il loro senso di autoefficacia e soprattutto la loro posizione su un mercato troppo avaro di riconoscimenti decorosi. Ma la loro capacità di stare in presenza di persone sofferenti, di discernere quanto e come investire in empatia, di saper regolare le caratteristiche della relazione in funzione del livello e del tipo di sofferenza con cui si devono confrontare, purtroppo tutto questo spesso è gravemente carente. Quando si fa formazione alla psicoterapia, su questo argomento si deve dare molto e non aver paura di chiedere molto. Anche di fermare, se è il caso, perché non tutti sono capaci di stare correttamente in presenza della sofferenza psichica. Allora, e solo allora, lo studio di Bateson può diventare veramente prezioso per uno psicoterapeuta.

Ada Piselli: Quali sono state le esplorazioni teoriche più appassionanti degli ultimi anni? Cosa vi ha aiutato a non perdervi e a ritrovare sempre la via di casa?

Massimo Giuliani: Negli ultimi anni l’interesse al linguaggio e all’espressione artistica mi ha indotto ad entrare con maggiore decisione nella questione del linguaggio metaforico in terapia. Sono partito dagli psicologi cognitivi che hanno studiato il pensiero metaforico e ho trovato che negli ultimi decenni del secolo passato avevano indicato nella metafora un interfaccia fra corpo e mente. È un terreno sul quale si era avventurato Bateson, che aveva avuto intuizioni preziose e anticipatrici. Negli anni più recenti ho affrontato la questione con l’aiuto di George Lakoff e di Steven Pinker. In questo momento quello che mi interessa di più è continuare ad occuparmi di questo.
C’è qualcosa nella questione della metafora che va parecchio al di là del trovare delle strategie linguistiche per essere più persuasivi in terapia. Tanto che guardare le cose attraverso la lente del pensiero metaforico mi ha riportato a considerare l’epistemologia costruttivista forse ancora più che, a suo tempo, la lettura di von Foerster (dopo la quale mi ero sentito più sedotto dagli autori sociocostruzionisti).
Inoltre negli ultimi anni ho ripensato a tutta la faccenda della terapia cosiddetta “narrativa”. Ho pensato che se si deve parlare di narrativa bisogna farsi un’idea di cosa la narrativa sia: non è sufficiente dire che “in terapia raccontiamo storie”, o “inventiamo storie” o “riscriviamo storie”. Cos’è una storia? Cosa vuol dire “scrivere storie”? Avevo l’impressione che in casa narrativista le idee fossero un tantino vaghe. Mi sono messo a cercare di capire meglio delle questioni di narratologia. Cos’è una storia, ad esempio, e cosa la differenzia da un resoconto o una concatenazione di fatti, scene, ricordi? Parliamo spesso di “buone storie”: cos’è una “buona storia”? Ci ho studiato un po’ su e mi sono trovato profondamente insoddisfatto di quello che si dice in giro sulle “storie” in terapia. Ho scritto da qualche parte che quando la terapia sistemica è diventata narrativaha rinunciato senza rendersene conto a parecchi degli elementi narrativi della terapia delle origini. Magari quelli nascosti sotto qualche strato di ideologia strategica e interventista. A cominciare dalla scansione temporale della seduta familiare, quella descritta in Paradosso e controparadosso: che era in effetti una struttura narrativa, una impaginazionedella storia.
In un convegno della Società Italiana di Psicologia e Psicoterapia Relazionale proposi di “deletteralizzare” Paradosso e Controparadosso, come Hillman suggeriva di fare con Freud. Nel nostro caso: non prendiamolo come un testo scientifico; prendiamolo come la storia di quattro terapeuti geniali che provarono a spiegare in un certo modo le cose che facevano. Un romanzo esso stesso, su quattro protagonisti che hanno lo straordinario talento di trasformare in romanzi le vite dei loro pazienti. Le spiegazioni che fornirono al loro lavoro (le teorie sul paradosso, il doppio legame, le strategie terapeutiche) sono un elemento della storia, il punto di vista dei protagonisti. Quando leggiamo un romanzo facciamo per forza nostro il pensiero del protagonista? Naturalmente no, ma ci facciamo toccare, entriamo in relazione con esso. In ogni caso, abbiamo un pensiero suquel pensiero.
Su un versante più scientifico, ho trovato grandi aperture attraverso autori che solo per questioni di frammentazione accademica dei saperi non consideriamo attinenti alla psicologia. Al mio interesse per il digitale e i media devo l’approfondimento di Marshall McLuhan, che conosciamo tutti come il teorico del “villaggio globale” e invece ha scritto pure cose che hanno implicazioni psicologiche (e sistemico relazionali, persino) formidabili. Il suo concetto dimediumnon si circoscrive alla radio e alla televisione, ma abbraccia tutto quello che connette gli esseri viventi. Tutto quello che li mette in contatto e li separa. La scrittura, i mezzi di trasporto. I vestiti, le case, le città. Al pari della metafora batesoniana del bastone del cieco è riuscito a farmi immaginare una realtà in cui le persone sono tutte interfacciate. In un percorso forse un po’ bizzarro, la lettura di McLuhan mi ha riportato a un autore che avevo letto in gioventù, lo psicoanalista Didier Anzieu. La comune metafora della pelle — della “seconda pelle”, anche — legava questi due autori e, per inciso, mi ha spinto a fare qualche pensiero sulla pelle in terapia, e sulla terapia nei casi di certe patologie dermatologiche. Ma questo è un altro discorso, e spero di trovare il tempo per dire qualcosa al riguardo.

Massimo Schinco: delle esplorazioni teoriche più appassionanti degli ultimi anni (prendo come riferimento gli ultimi dieci) hanno origine in quelle degli anni della formazione universitaria, quando ero in psicoterapia dal Dott. Francesco Mina. La psicoterapia da lui praticata ruotava intorno alla produzione onirica, così come essa si struttura nei nove mesi di vita intrauterina. Va da sé, in un approccio di questo tipo, che la coscienza non può essere considerata, in modo riduzionistico e materialista, una sorta di secrezione dell’attività cerebrale. Benché convintamente ostile al riduzionismo e al materialismo, il Dott. Mina era un appassionato sostenitore della scienza e del metodo scientifico. Scomparve prematuramente nel 1994… Là dove è ora ha sicuramente una visione molto più ampia di tutto quanto, ma mi piace pensare che, se fosse rimasto qui con noi, alcuni recenti contributi di fisici teorici post-quantistici lo avrebbero entusiasmato. Faccio un nome che brilla per chiarezza e per le implicazioni epistemologiche: Efstratios Manousakis della Università della Florida. Questi studiosi stanno dando corpo e spessore scientifico alle intuizioni di filosofi e studiosi a cavallo tra il XIX e XX secolo, come Henri Bergson, William James, Gustav Fechner. Lo studio della natura della coscienza, dei suoi aspetti transpersonali e della memoria individuale e collettiva è per me tutt’uno, o quasi, con lo studio del sogno. Il 2007 fu un anno importante per queste esplorazioni teoriche. Iniziai una serie di discussioni molto stimolanti con i colleghi della International Association for the Study of Dreams. Per ciò che attiene lo studio della coscienza voglio in questa sede menzionarne due: il caro Art Funkhouser, con cui continua una bella amicizia e una stimolante vicinanza scientifica, e il compianto Robert Van De Castle, un uomo autorevole, anche temuto (aveva un caratterino…) su cui i giudizi della comunità si sono divisi, chi apprezzando la sua audacia esplorativa, e chi considerandola più che altro una sorta di deragliamento metodologico degli ultimi anni. Insieme ad altri studiosi peraltro diversi da lui per approccio teorico e mentalità, come Ernest Hartmann e Montague Ullman, Van De Castle era un convinto sostenitore della continuità tra stati di coscienza notturni e diurni. Se si prende sul serio questa continuità, vi sono molte ricadute sul modo in cui intenderemo la creatività umana, le relazioni e le vicissitudini degli incontri tra persone. Sgorgò tra noi, a dispetto della differenza d’età, un’amicizia intensa e una istintiva alta stima reciproca. La sua presenza (Bob ci ha lasciati all’inizio del 2014) mi diede molto coraggio nell’esplorazione dei nuovi territori che apparvero improvvisamente davanti a me insieme a Brundibar. Brundibar è una piccola opera per bambini del compositore Boemo Hans Krasa (1899–1944). Scoprii Brundibar visitando la città–lager di Terezìn, nella Repubblica Ceca. Brundibar è una storia di solidarietà, resilienza, creatività, gioia a dispetto di tutto, che mi colpì dritto nel cuore, spaccandolo in un certo senso in due, perché capii che non avrei avuto pace se non avessi portato materialmente Brundibar nel mio mondo, quello in cui risiedevo e lavoravo abitualmente. Brundibar ti insegna che ciò che apparentemente non può stare insieme, come la bellezza, la gioia e l’estremo dolore, invece sta insieme fin dall’inizio. Sono distinguibili ma non separabili. Sta a noi coglierli insieme, invece che distanziarli a scopo autoprotettivo; sta a noi renderci vulnerabili a queste contraddizioni della vita. Una vulnerabilità che ci rende fortissimi … come peraltro cantano i bambini nell’opera. Ho partecipato a una messa in scena di Brundibar nel 2008, sperimentando sulla pelle che cosa vuol dire la permanenza degli affetti al di là del tempo e dello spazio. Tematica fondamentale per noi psicoterapeuti, che entriamo costantemente in contatto con problematiche trans-generazionali e fenomeni di cambiamento non-locale. L’avvicinamento all’autore che mi avrebbe aiutato di più per mettere ordine in questi ambiti avvenne progressivamente. Era Montague Ullman, psichiatra, ricercatore e psicoanalista; non feci in tempo ad incontrarlo fisicamente, perché lui mancò proprio nel 2008. Ma nel 2013, mentre mi trovavo a Danzica a parlare di sogni e terapia sistemica, presentando un contributo in cui le idee di Ullman avevano un ruolo importante, mi trovai, senza saperlo, seduto vicino a Judy Gardiner, che fu la compagna di Ullman e ne tiene viva in giro per il mondo l’eredità umana e scientifica. È nata così una grande amicizia che ha avuto un ruolo chiave nella nascita di ciò che ho chiamato Eleogenetica.

Ada Piselli: E, a proposito, quale è oggi la vostra casa teorica? Cosa la tiene insieme?

Massimo Giuliani:È la casa sistemica di Milano, quella costruita da Luigi Boscolo e Gianfranco Cecchin. È una casa abbastanza grande, e con abbastanza stanze da ospitare idee diverse. So che, mentre io cerco di ricontestualizzare Ipotizzazione, circolarità e neutralità, ci sono colleghi che stimo che lavorano per consegnare quel capitolo alla storia e per archiviarlo definitivamente. Ma stare in quella casa non contempla il collocarsi di qua o di là: contempla però avere la disponibilità a discuterne. Il modello sistemico di Milano non è una macchina “chiavi in mano”, un insieme di regole chiuse: è una cornice dinamica, dove l’ultima parola non esiste perché non ha senso che esista. E non mi sembra strano che oggi, a poca distanza dalla morte di entrambi i Maestri, con l’emergere delle generazioni successive emerga una molteplicità di posizioni. Anni fa, introducendo la prima edizione di “Frontiere del Milan Approach”, un convegno periodico in cui ciascun docente illustra le proprie personali linee di ricerca, dissi: “oggi il Milan Approachdiventa un ipertesto”. Probabilmente era vero. È un modello molteplice e non dogmatico. Che c’è di meglio?

Massimo Schinco:Cercherò di rispondere a questa domanda in modo un po’ più ordinato di quanto ho fatto finora, perché è il tipo di domanda che lo esige.
Da un punto di vista antropologico–filosofico, i miei punti di riferimento stanno prevalentemente nel personalismo di matrice ebraico–cristiana e nella fenomenologia: Henri Bergson, Gabriel Marcel, Edith Stein, Emmanuel Lévinas… ma anche Karl Jaspers, Henri Maldiney, Maurice Bellet.
In questa cornice trovano posto teorie che magari si sono originate in contesti di pensiero molto diversi. La tensione tra cornici filosofiche e teorie è fondamentale! Da una parte, le teorie mettono alla prova le cornici: infatti, per quanto sia bella una cornice filosofica, c’è sempre qualcosa che le sfugge, che non la convalida in modo assoluto. Dall’altra, le cornici impediscono alle teorie di diventare cornici a se stesse, auto-convalidandosi in modo circolare. Che è precisamente quello che è avvenuto tante volte alla teoria dei sistemi e al costruttivismo radicale.
Bene, da un punto di vista meta-psicologico le teorie a cui faccio riferimento sono principalmente: la teoria degli ordini implicati di David Bohm, la teoria dei sistemi dinamici e — nella misura in cui riesco a capirlo — tutto il fermento post-quantistico applicato sia allo studio della coscienza che dei cambiamenti sociali.
Su un piano più strettamente applicativo, per quanto riguarda la creatività, il suo rapporto con il sogno, l’arte e la resilienza, faccio riferimento agli studi di David Peat, sia quelli realizzati in tandem con David Bohm che da solo, a Ernest Hartmann e in particolare a Montague Ullman, il cui impianto teorico è fortemente connesso alla teoria degli ordini implicati di Bohm.
Da un punto di vista clinico e teorico — tecnico, in terapia familiare faccio per molti aspetti riferimento al modello di Milano, con una attenzione più accentuata però ai fenomeni non-locali e transgenerazionali, al tempo futuro inteso come attrattore, al ruolo che gli individui giocano nel sistema operando decisioni di cui sono responsabili, alla “giocosità” della conversazione terapeutica e all’importanza delle rappresentazioni di affetti nella ritualità delle sedute familiari. Il mio modo di concepire la relazione clinica poi, con individui, famiglie e gruppi, è stato fortemente influenzato dai contributi di Viktor Frankl e di Arno Gruen. Infine, menzionando nuovamente Hartmann, il suo lavoro sui confini mi ha aiutato moltissimo a entrare in contatto con i bambini caratterizzati da plus-dotazione.
In tutto ciò la teoria degli ordini implicati e la sua traduzione in chiave relazionale da parte di Ullman hanno un ruolo speciale, perché implicano un cambiamento di paradigma. Non si tratta più di fare connessioni tra elementi separati, ma di rilevare come attraverso elementi distinti si esprimano e si individuino, in tanti modi diversi, delle realtà condivise in termini di immagini, memorie, emozioni e affetti riconducibili a ordini implicati che le generano. Il che mette nelle mani del soggetto, della sua tanto vituperata “finalità cosciente”, la responsabilità di gestire, esprimere, trasformare e mettere a frutto il mondo dell’immaginario e degli affetti che la vita gli ha affidato. Responsabilità irriducibilmente individuale da una parte, ma che può essere affrontata solo all’interno di una comunità che si relaziona in modo realistico, ovvero senza negare, squalificare o opprimere la debolezza, la vulnerabilità e quanto di “sgraziato” si annida in ogni singolo essere umano: questo è il nucleo dell’Eleogenetica, che è la mia casa teorica e cerca di tenere insieme tutto ciò che ho elencato sopra.

Ada Piselli:C’è qualcosa che vorreste aver conosciuto prima? Se poteste parlare oggi al giovane terapeuta che siete stati, cosa vorrebbe sapere da voi?

Massimo Giuliani: Forse dirò una cosa banale. Ricordo gli anni in cui ero molto volenteroso, mi iscrivevo a scuole, studiavo, cercavo libri, ma cominciavo a capire che questa professione assomiglia molto a un mestiere artigianale: per imparare non c’è nulla come lavorare. Guardavo i colleghi più grandi, i miei docenti, i miei supervisori, o terapeuti con cui mi capitava di lavorare in équipe, che avevano idee che a me non venivano. Formulavano ipotesi che mi facevano pensare con invidia “ma come gli sarà venuta in mente?”.
Oggi ho un bagaglio di storie cliniche sufficientemente nutrito da riuscire anch’io in quell’impresa che, da giovane, mi sembrava appannaggio dei terapeuti veramente esperti, quelli “arrivati”. E non mi sento arrivato da nessuna parte, anzi trovo che saperne un po’ di più sia molto utile ma che nello stesso tempo aumenti il grado di complessità e la necessità di riflettere costantemente su quello che si fa: perché avere più idee comporta la grande responsabilità di avere sempre un’idea di quello che quelle idee producono, di quello che ti fanno vedere e quello che ti nascondono.

Massimo Schinco:Probabilmente il giovane terapeuta che sono stato vorrebbe sapere molte cose dal terapeuta “stagionato” che sono ora, ma non credo che gliele direi. Le cose è giusto saperle quando è ora, non prima e possibilmente non dopo, se no si fanno solo danni. Ho viceversa molte cose da dire ai giovani terapeuti e gliele dico volentieri in sede formativa e di supervisione, certo come sono che loro non sono me, e sono del tutto differenti da me. Quindi con loro posso parlare liberamente.

Ada Piselli:E, ultimo, cosa vorreste chiedere al vecchio (più vecchio!) terapeuta che sarete?

Massimo Giuliani: Di non sentirsi obbligato! Di ritenersi libero di fare anche altro. Questa professione si può fare benino solo quando non si dipende da essa. C’è stato un periodo della mia vita — certamente i primi anni, quelli del grande investimento di energie e di finanze — in cui pensavo di dover diventare assolutamente un terapeuta, che quello fosse l’unico obiettivo che avesse senso. Oggi, passati un po’ di anni, ho deciso di pensare che quell’investimento l’ho sufficientemente messo a frutto. Così ora penso che vorrei fare questo lavoro solo finché il farlo mi farà stare bene.
Allora al me stesso del 2037 vorrei dire: spero ti sia organizzato per tempo per campare anche d’altro che non sia la terapia. Non che sia necessario, ma così, giusto per tenere una porta aperta…

Massimo Schinco:Invecchiare… quanto, e come, dipende solo in piccola parte da noi. Se mi sarà concesso di diventare più vecchio di ciò che già sono, potrò con più chiarezza guardare in viso il vecchio terapeuta che è con me da sempre, e finalmente gli reciterò il “nunc dimittis”. Spero che mi concederà di congedarmi da questo compito così imbevuto di dolore umano. Sono curioso rispetto a una qualche sorta di “buonuscita” che mi spetterà lasciando il ruolo e che certamente mi accompagnerà dall’altra parte, ma non so precisamente come.

Ada Piselli: Qualche anno fa avete condotto un gruppo di supervisione per giovani terapeuti che si chiamava “invenzioni a più voci” e che scherzosamente, ma forse nemmeno troppo, avevate sottotitolato “gruppo di sopravvivenza”. L’immagine che accompagnava la presentazione del gruppo era Bach con gli occhiali dei Blues Brothers: una perfetta sintesi! Ed infatti sopravvivere, non strettamente in senso fisico, è una questione cruciale per chiunque pratichi questo mestiere. Che si deve imparare, ma non si può del tutto insegnare. Che necessita di una serietà assoluta, ma anche di leggerezza. Che presuppone una preparazione importante e la capacità di re-inventare tutto in ogni relazione.
Si sopravvive quindi se ci si mantiene liberi e curiosi. Liberi e curiosi di esplorare altri territori, altre discipline, altri mondi, liberi anche di fare altro, per tornare alla clinica rinfrancati e arricchiti. Non si finisce mai di studiare. E di imparare. E questa deve essere una scelta.
Si sopravvive se non si perde mai di vista l’Altro e la relazione. Se ci si mantiene attivamente sensibili al dolore, e alla gioia. Se ci si lascia toccare, un po’. Se si mantiene un altrove, fuori dalla terapia. Se ci si ricorda sempre di essere fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni, certo, e i pazienti.
Si sopravvive quando ci si legittima ad utilizzare parti del sé (professionale e personale) in maniera creativa, dentro ad una cornice etica e teorica rigorosa di cui è necessario mantenere sempre consapevolezza.
Si sopravvive molto meglio quando non si è da soli. Quando si trovano compagni di avventura che accolgono, pungolano, stimolano. Quando si può condividere la fatica e l’entusiasmo. Quando ci si mantiene aperti.
Bateson avrebbe forse detto che si sopravvive quando ci si mantiene connessi.
Io preferisco coinvolti. Ma i Beatles lo hanno cantato molto meglio di me:

“And anytime you feel the pain
Hey Jude refrain
Don’t carry the world upon your shoulders
For well you know that it’s a fool
Who plays it cool
By making his world a little colder”
(Hey Jude, 1968)


[*] Massimo Giuliani è psicologo e psicoterapeuta. Insegna nella Scuola del Centro Milanese di Terapia della Famiglia e per breve tempo è stato docente all’Università di L’Aquila. Si interessa di narrativa e di musica, e di cosa c’entrino entrambe con la psicoterapia. È direttore responsabile di Connessioni, la rivista del Centro Milanese di Terapia della Famiglia, e ha fondato una casa editrice digitale. Dai linguaggi del digitale e del virtuale è arrivato a occuparsi di linguaggio metaforico, in terapia e non. Il suo ultimo libro è “Corpi che parlano. Psicoterapia e metafora” (Durango Edizioni). info@massimogiuliani.it

Massimo Schinco è psicologo e psicoterapeuta. Adjunct Professor presso la Scuola del Design del Politecnico di Milano, conduce CPG di Clinica della Famiglia presso l’Università di Pavia. È stato co-direttore nel triennio 2012–2014 del Centro Milanese di Terapia della Famiglia ed è membro della European Family Therapy Association; è inoltre membro della International Association for the Study of Dreams ed è Associate Member della European Association for the Holocaust Studies; nel 2014 ha dato origine all’Approccio Eleogenetico al cambiamento e alla crescita. Appassionato di musica, suona il violino nella Orchestra Sinfonica Amatoriale Italiana. È autore di tre libri e numerose pubblicazioni sul tema del cambiamento creativo. massimo.schinco@polimi.it

Ada Piselli è psicologa e psicoterapeuta, didatta presso il Centro Milanese di Terapia della Famiglia. Negli ultimi anni si è interessata al rapporto tra identità, memoria e luoghi e su questi argomenti ha tenuto alcune lezioni presso il Politecnico di Milano, dipartimento di Design. Ha curato la pubblicazione di Alteridentità (2015) per Durango Edizioni. ada.piselli@gmail.com

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