La psicoterapia spiegata a chi fa un altro mestiere / 3

“Reflection of a staircase and an elevator in a mirror composed of triangular parts” by Erik Eastman on Unsplash

Di là una famiglia seduta a semicerchio, probabilmente in un momento difficile della sua storia. Di qua, persone che prendono posto sulla sedia e si dispongono a guardare e ascoltare in silenzio. Quando tutti sono pronti, di qua si spengono le luci. Si apre il sipario. Si comincia. In quel rettangolo luminoso va in scena la quotidianità di un dolore, di un conflitto, di un lutto.
Ma non è teatro e non è cinema: è un setting di terapia della famiglia, anche se di un tipo sempre più raro. 
La terapia della famiglia è nata come un lavoro artigianale che si fa in gruppo: uno o due terapeuti a condurre la seduta, alcuni loro colleghi a seguirla dalla stanza accanto, attraverso un vetro, senza essere visti (dalla parte con la luce spenta quel vetro è trasparente; da quella con la luce accesa è uno specchio). Le voci le ascoltano attraverso un impianto audio collegato con un microfono posto davanti ai conversanti, o calato dal soffitto.
Dalla loro parte, a coprire quel rettangolo, una tenda pesante, che si scosta soltanto una volta spenta la luce. 
Ovviamente le persone di là sanno della presenza dei colleghi di qua. Sanno che si occupa di loro un gruppo di terapeuti che pensa insieme, che durante la seduta si potrà incontrare per consultarsi e scambiarsi le idee, ciascuno da una prospettiva differente, e che metteranno insieme le proprie risorse — e le proprie prospettive — per essere più utili possibile a quella famiglia.

Come dicevo, quel modo di lavorare oggi è una eccezione. Non soltanto perché adattare i locali e mettere insieme tanti terapeuti costerebbe troppo, ma anche perché col tempo ci siamo abituati ad essere più espliciti con le persone, a lavorare più alla luce del sole, a condividere i nostri pensieri con loro mentre ci vengono in mente.

La pratica del lavoro con lo specchio nacque in un periodo in cui i terapeuti della famiglia pensavano che un osservatore non direttamente coinvolto nel processo avesse uno sguardo più “esterno”, più “oggettivo”, che vedesse meglio del terpeuta che partecipava in prima persona, e che la quantità di informazioni che emergevano nel corso della seduta richiedesse l’intervento di un punto di vista “superiore”. Poi hanno cominciato a pensare che essere “oggettivi” sia una illusione, e che ognuno, quando osserva qualcosa — quando osserva una interazione umana, poi — ha davanti agli occhi la propria storia, le proprie premesse. Non si può guardare le cose come se non avessimo una storia alle spalle, come se fossimo al di sopra di tutto. Non si può guardarle se non attraverso quella storia. Quella storia non è lo schermo che impedisce di vedere bene; è la lente che mostra, anche se non esiste una lente neutra.
Quando i terapeuti hanno cominciato a rendersi conto di questo, hanno capito che il valore di quell’altro punto di vista non stava nel fatto che era “esterno”, ma nel fatto che era, appunto, un altro punto di vista. Molti di loro hanno attraversato un travaglio anche doloroso, che li ha portati a ripensare le loro idee e le loro pratiche. Hanno conservato, quando possibile, la cosa che sapevano fare meglio: lavorare insieme. Due ore di relazioni dentro una famiglia sono una mole formidabile di informazioni e di complessità, e più punti di vista sono utili. Ma hanno cominciato a pensare che, al di là o al di qua dello specchio, i loro modi di vedere le cose non stanno in un ordine “gerachico”: hanno tutti lo stesso valore, perché tutti sono il frutto dell’interazione fra quella realtà e la storia di chi la guarda. Così non esiste un osservatore “esterno”: l’osservatore, dovunque si collochi, sta sempre dentro fino al collo nelle cose che osserva: non gli sono estranee. Sempre entrano in qualche risonanza con qualcosa che lo riguarda, e sempre il resoconto che quell’osservatore ne fa è filtrato attraverso la sua storia.

Spero di spiegarmi bene e che non sia complicato seguire quello che sto dicendo, perché da qui deriva la grande ricchezza e il fascino di questo “artigianato”. 
Provo a spiegare una delle conseguenze di portata enorme di questo nuovo modo di vedere.
Un tempo, una delle linee guida che i terapeuti della famiglia cercavano di seguire con zelo era la “neutralità”. Essere “neutrali” significava fare di tutto non solo per non parteggiare per l’uno o l’altro dei membri della famiglia — considerate che spesso i familiari che affrontano un problema hanno punti di vista, ragioni e idee in contraddizione fra loro, magari fino al conflitto — ma proprio per sentirsi equidistanti da tutte le loro posizioni.

Labirinto degli Specchi di Petřín (Zrcadlové bludiště Petřín)

Ma un po’ alla volta in quel principio hanno cominciato a sentirsi stretti, sebbene nessuno potesse negare che riuscire a non prendere posizione davanti a persone in conflitto è spesso indispensabile per non essere arruolati nella loro battaglia e per poter continuare ad aiutarli. Ma il problema era: se non è possibile essere al di sopra e oggettivi, come si fa a restare neutrali? Se il terapeuta-osservatore è lì con la propria storia e le proprie premesse, come fa a pensare di essere davvero equidistante da ogni punto di vista? Non è meglio ammettere di non poter esserlo, anziché cercare di convincersi del contrario? Anziché pensare di non avere un punto di vista?
Dunque nel 1987, uno dei terapeuti di quella scuola milanese di cui vi ho parlato nell’articolo precedente (era Gianfranco Cecchin), prese posizione in uno storico articolo e disse: no, io non posso essere neutrale; però posso cercare, dentro di me, di mantenere una posizione di curiosità.
Non so se è chiaro il salto di pensiero: vuol dire che davanti a un comportamento che mi pare deplorevole, davanti a una idea che non capisco, davanti persino a un delirio del tutto fuori dal mondo, posso fare di più che mantenere una posizione di neutralità asettica: se provo ad essere curioso, mi domanderò: “come è possibile che queste persone abbiano trovato un modo di stare insieme, di guardare il mondo, che nella mia esperienza è così impensabile? Cosa fa sì che qualcuno abbia un’idea che a me appare così assurda? Cosa tiene in vita persone e relazioni che, per quello che so io del mondo, potrebbero essere morte, finite, devastate, e invece sono lì davanti a me a fare da una vita cose che mi sembrano tanto incomprensibili?”.

È come se il terapeuta passasse da una posizione in cui si fa forte di quello che sa, delle proprie certezze e della propria obiettività, a una posizione in cui si fa forte… di quello che non sa. Perché se parte da lì ha un mondo di domande a disposizione, e se fa domande — ma domande per sapere, non domande per confermare quello che già pensa — scopre mondi che non avrebbe immaginato. E le persone li scoprono con lui.

Ma ancora, una posizione “curiosa” è tutto il contrario di una posizione moralista. E se davanti a quella famiglia o a quel paziente un tereapeuta cade in una posizione moralistica e di giudizio — e non se ne accorge — ha smesso di essere terapeutico. Finito. Chiuso.

Ecco, dicevo, per varie ragioni capita sempre meno di trovare uno specchio unidirezionale in uno studio di terapia della famiglia. In contesti di formazione e di ricerca è possibile avere un setting organizzato in quel modo e un gruppo di colleghi con cui condividere e discutere le sedute.
Ma anche fuori di lì, quando può, un terapeuta cerca in ogni caso di non essere solo. Lavora con qualcuno con cui va d’accordo, o porta il suo lavoro in supervisione, e comunque cerca di essere sempre connesso con una rete di colleghi con cui scambiare idee ed esperienze.
Io da anni lavoro con una collega (si chiama Elisabetta Mendini). Conduciamo insieme le nostre sedute con le famiglie. È complicato lavorare in équipe, è un po’ come suonare. Bisogna trovare l’intonazione e il ritmo, e poi il feeling, in una relazione il più possibile libera da competizioni. Ci vuole tempo e pratica, e poi non si riesce a lavorare con chiunque. Ci si sceglie, diciamo.

Photo by Mike Wilson on Unsplash

Lavorare in due, anche senza lo specchio, è un’esperienza di grande complessità. Alla polifonia dei punti di vista dei familiari si aggiunge la polifonia delle voci dei terapeuti. Le sedute sono molto lunghe, si fanno molte domande; a un certo punto può succedere che si faccia una pausa, che i terapeuti si appartino per ragionare insieme su quello che hanno visto: troveranno che condivideranno dei pensieri e delle ipotesi, che la conversazione ha suggerito loro idee simili, che alcuni passaggi hanno risuonato allo stesso modo; ma scopriranno anche di avere idee diverse, alcune più chiare e condivisibili, altre più difficili da far proprie da parte dell’altro. Probabilmente queste ultime sono quelle più importanti, perché in quello che salta agli occhi a tutti c’è l’ovvio, mentre nelle risonanze impreviste ci sono informazioni preziose. Magari i terapeuti si faranno domande per comprendere meglio le strade imprevedibili da cui arrivano quelle idee: cosa ti ha suggerito quell’ipotesi invece di un’altra? Cos’è che della tua biografia si intreccia con questa storia tanto da amplificare tanto certi aspetti, e magari lasciarne in secondo piano altri? Cosa ti ha fatto vibrare certe corde? E saranno reciprocamente di supporto in questo lavoro.

Altre volte questa conversazione fra i terapeuti sarà esplicita, condotta davanti alla famiglia. I due terapeuti sposteranno le sedie in modo da trovarsi uno davanti all’altro e confrontarsi, e lasciare in posizione di ascolto la famiglia. 
Ma, al di là di quel momento saliente e così intenso, tutta la seduta sarà animata dal continuo intrecciarsi e confrontarsi delle storie e dei punti di vista. Quello che produce una conversazione terapeutica organizzata in questo modo è di una complessità persino impossibile da descrivere. Immaginate due terapeuti che osservano la conversazione fra i membri della famiglia, e intanto osservano ciascuno la conversazione fra il collega e ciascun membro della famiglia, mentre ciascuno di questi osserva la conversazione fra i suoi congiunti, e fra essi e i terapeuti, e intanto ciascun terapeuta osserva la relazione tra il collega e i membri della famiglia, e autoriflessivamente la relazione fra sé e i membri della famiglia; e mentre osserva tutto questo, osserva i membri della famiglia che osservano tutto questo. E osserva se stesso nell’atto di osservare eccetera eccetera. 
A rendere ancora più complesso il quadro c’è il fatto che qualche volta i terapeuti della famiglia scelgono di lavorare con un collega dell’altro sesso. Così tutta quella complessità si moltiplica ancora per tutte le sfumature e le sensibilità diverse, e distribuite anche in gran parte dalla cultura di appartenenza, con cui un uomo e una donna guardano alla storia di una famiglia (e con cui un uomo guarda una donna che guarda quella storia, intanto che una donna guarda un uomo che guarda quella storia, e ciascuno guarda se stesso e i propri sistemi di premesse, anche di genere, attraverso i quali guarda quella matassa di realtà).
(Se non bastasse tutto questo, considerate che a volte i terapeuti registrano la seduta per avere altre possibilità di ragionarci su: in quel caso potranno godere di una ulteriore prospettiva, che sarà una prospettiva su tutte quante quelle prospettive, ma prometto che mi fermo qui).

Vivian Maier, Autoritratto fotografico allo specchio

E mentre tutti questi fili si intrecciano emergono pensieri che prima non c’erano, e si aprono spazi che prima non esistevano. E non perché i terapeuti forzino qualche genere di cambiamento, ma perché esplorando esplorando, il mondo si allarga. E perché in quella siutazione i membri della famiglia fanno una cosa che spesso, soprattutto se si attraversa un problema o un conflitto, non è così abituale: si ascoltano l’un l’altro. Si mettono ciascuno in posizione di ascolto e di rispetto del punto di vista dell’altro, e si osservano nell’atto di osservare.
Se non c’è più lo specchio fisico, ce ne sono infiniti virtuali.

Fateci caso: dove la psicoanalisi si muove su una direzione verticale (il profondo, il subconscio…), il lavoro che sto descrivendo e la teoria a cui fa riferimento (la teoria sistemica) privilegia una dimensione orizzontale: disegna reti di relazioni, di pensieri, confronta punti di vista, amplia spazi di racconto. Quella grande biodiversità dei pensieri terapeutici, a cui accennavo nel primo articolo, genera ogni volta metafore diverse attraverso cui guardare il mondo.

Vorrei raccontarvi un paio di aneddoti che raccontano come l’evoluzione di questi strumenti non avvenga semplicemente in seguito alla riflessione teorica, ma come spesso la teoria si complessifichi per l’effetto di nuove esperienze pratiche. Come dicevo, vedo la terapia della famiglia come una specie di artigianato. Si apprende leggendo tanti libri, ma nello stesso tempo lavorando “a bottega”. Per cui, nel suo sviluppo è importante la riflessione teorica ma anche, di pari passo, l’esperienza.
La prima di queste due storie è ben nota fra i terapeuti della famiglia perché è raccontata in un articolo molto letto e studiato; la seconda è una storia piccola piccola e riguarda chi vi scrive.

Un terapeuta norvegese, Tom Andersen, stava lavorando dietro lo specchio con altri due colleghi: insieme supervisionavano una terapia condotta da un giovane terapeuta. Per tre volte lo chiamarono a confrontarsi e gli consigliarono di fare domande un po’ più “ottimistiche”, ma ogni volta il giovane professionista sembrava ricadere nella visione cupa che la famiglia portava. Tom Andersen notò che nella stanza di supervisione c’erano dei microfoni: propose così di spegnere l’impianto di là e accenderlo di qua. La famiglia e il terapeuta, così, assistettero alla conversazione fra i terapeuti supervisori riguardo la terapia. Questo generò un clima in cui fu possibile aprire una conversazione più fiduciosa. I terapeuti ragionarono a lungo su quel modo di rompere la “unidirezionalità” dello specchio, e quell’esperienza indicò ai colleghi di tutto il mondo una direzione nuova.

La seconda storia è su quella volta che nello studio dove cominciai a svolgere la professione, tanti anni fa, identificai una parete da aprire fra due stanze, per installare lo specchio unidirezionale. Non mi sembrava vero. Ma la delusione arrivò quando il padrone di casa mi intimò di non toccare quella parete, che era il muro portante del palazzo! Così mi ritrovai senza lo specchio unidirezionale. Ma questa fu l’occasione, per me e la collega con cui lavoravo allora (Adriana Valle) di allenarci a un modo di lavorare che ci vedeva entrambi presenti nella stanza, e di prendere atto che lavorare in un modo diverso ci faceva pensare in un modo diverso. 
Col tempo, quel modo per me è diventato la regola. Nel lavoro che svolgiamo insieme Elisabetta Mendini ed io la conduzione “polifonica” della seduta è il centro del nostro modo di lavorare e della nostra riflessione teorica.

E con questo articolo ho provato ad aggiungere qualcosa su come funziona quell’artigianato così vivace ma relativamente poco conosciuto che è la terapia della famiglia. Anche stavolta, il discorso è ben lontano dall’essere esaurito. Non sono sicuro di aver sciolto dei dubbi in così poco spazio, ma spero almeno di aver generato qualche curiosità.
Per riprenderlo, potrei scrivere la prossima volta di una parte molto cospicua di questo lavoro. Credo che sia la parte che incuriosisce di più chi si accosta alla questione: la terapia di coppia.
A presto, dunque.

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