Ieri sera, uscito dalla metropolitana, ho realizzato che avevo viaggiato senza timbrare il biglietto all’ingresso. Me ne sono accorto perché alla mattina ho un certo numero di biglietti in tasca e, come ne timbro uno, lo trasferisco in un’altra tasca per non fare confusione. Ieri sera avevo un biglietto di troppo nella tasca di destra. Se fossi stato fermato da un controllore, avrei avuto fino all’ultimo la certezza di avere un biglietto in regola, e sarei rimasto molto sorpreso di non avere nella tasca di sinistra il biglietto giusto.
Com’è possibile? L’ho fatto migliaia di volte, e solo nella giornata di ieri l’avevo fatto altre cinque. Non c’era ragione per cui non lo avessi fatto la sesta.Avrei scoperto prima la disattenzione se fossi dovuto passare attraverso un tornello per prendere il mezzo, ma nella metro della mia città si entra e si esce liberamente.
Non ho “dimenticato” di regolarizzare il biglietto: piuttosto “ricordavo” erroneamente di averlo fatto. Com’è possibile? L’ho fatto migliaia di volte, e solo nella giornata di ieri l’avevo fatto altre cinque. Non c’era ragione per cui non lo avessi fatto la sesta.
Adesso molti di voi avranno capito dove vado a parare, sebbene la sproporzione tra il mio fatterello e quello di cui si parla sia scandalosa: come si può paragonare il mio biglietto al bambino “dimenticato” in auto?
Il punto è che (almeno in parte) la forza di questo processo che riguarda i nostri gesti abituali, i nostri automatismi, le nostre routine, non è proporzionale (non soltanto, almeno) all’importanza di quell’atto: è in gran parte funzione della sua ripetitività.
Certo che ti ricordi di tuo figlio: l’hai abbracciato, gli hai fatto le ultime raccomandazioni e sei rimasto a guardarlo correre verso la maestra. Come? Era ieri?

La forza di questo processo che riguarda i nostri gesti abituali, i nostri automatismi, le nostre routine, non è proporzionale (non soltanto, almeno) all’importanza di quell’atto: è in gran parte funzione della sua ripetitività.In metropolitana i tornelli e il controllore non servono soltanto a stanare i furbi: sono un “supporto” esterno anche per me, che di solito a timbrare il biglietto ci tengo: un punto interrogativo esterno a te che svela e smonta quell’automatismo. Perché quando hai un ricordo certo o qualche altro genere di certezza, da solo non ne esci. Serve un evento esterno, una domanda, un piccolo choc che ti decentri, che ti faccia vedere “da fuori” il tuo ricordo certo. Il controllore, quella frase sul display. Le mie tasche differenziate.

Ancora: scusate se vi sembra sacrilego l’accostamento tra fatti così incommensurabilmente diversi. Temo però che le dimensioni della posta in gioco c’entrino solo in parte con questi automatismi. Molto c’entra quanto quell’atto si sia ripetuto fino a un certo momento, e probabilmente quanto sia semplice. Può darsi che abbiamo meno probabilità di lasciare in auto il figlio che il sacchetto della spesa (“ma certo che il latte è in frigo, guarda bene, ce l’ho messo ieri pomeriggio!”), ma d’altra parte su quest’ultimo non abbiamo una casistica.
L’altra settimana, al termine di un viaggio in auto per il quale mi ero servito di Waze per trovare un posto sconosciuto, l’applicazione spegnendosi mi ha dato un messaggio del tipo: “Hai tirato giù tuo figlio dal seggiolino?”. (Sì, l’ultima volta una quindicina di anni fa). L’ho trovata una buona idea. La macchina suppliva a quel “punto interrogativo esterno”. È probabile che prima o poi anche questa trovata diventerà abituale e abbastanza ripetitiva da non costituire più quel piccolo “choc”, penseremo distrattamente “toh, meno male che inventano queste cazzate” (a prescindere da dove sarà il nostro bambino: sicuramente al sicuro, ma non è questo il punto), e allora dovremo inventarne un’altra.
C’è qualcosa di crudele e forse di innaturale in questo modo di funzionare. Probabilmente siamo progettati per giovarci di un certo margine di ripetitività nelle azioni quotidiane – che ha un suo evidente senso, diciamo, “economico” – ma non dell’elevato grado di automatizzazione a cui affidiamo in gran parte le nostre vite. E non c’entra quanto amiamo i nostri figli.

Allora, io ho comprensione per tutti quelli che in queste ore hanno la necessità di crocifiggere la mamma di Arezzo. Però a tutti costoro auguro di avere sempre nella vita qualcuno che non li lasci senza domande, che provveda a quel piccolo choc, che metta amichevolmente in discussione le loro sicurezze: “non sarà che hai lasciato la spesa in macchina?”; “sei sicuro di farcela da solo?”; “Ah, porti a scuola tua figlia: vado da quelle parti, facciamo la strada insieme?”; “hai considerato la possibilità che il tuo odio non sia utile né a quella madre, né al suo bambino, né a nessuna delle cause sacrosante che hai in testa?”.

PS: questo post era originariamente uno status di Facebook. Grazie a chi (in buona parte mamme) ha commentato per raccontare “quella volta che” una banale distrazione intorno a un atto ripetitivo avrebbe potuto diventare una tragedia e invece il caso ha voluto che non fosse così. Sono ricordi pieni di senso di colpa e di inadeguatezza, che però dicono come distrazioni che incubano tragedie non solo sono possibili per chiunque: probabilmente sono già capitate a tutti. Il gas, il freno a mano. La mamma che tira dritto davanti alla scuola, ma la bambina è abbastanza grande da farglielo notare. È solo il caso fortunato che quasi sempre fa sì che la cosa finisca con un sospiro di sollievo.

Grazie a Catello Parmentola per un paio di considerazioni.

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