Questo è il testo della relazione che avevo preparato per il mio intervento a Biennale Democrazia il 26 marzo 2015, per l’evento “Passaggi d’identità”, al quale ho partecipato con Adriano Zamperini e con Alessandro Lombardo che ha coordinato.
Non coincide totalmente col testo che ho presentato – parzialmente improvvisando – e che sarà disponibile in video sul sito di Biennale Democrazia.

 

1. Dove comincio e dove finisco

Non fece in tempo, Marshall McLuhan, a rendersi conto di quanto fosse profetica la sua visionaria affermazione “Nell’era elettrica abbiamo come pelle l’intera umanità”.

A McLuhan, sociologo che ha detto cose illuminanti sui media, dobbiamo l’intuizione che essi funzionano come altrettante estensioni della nostra pelle. Dove i “media” non sono solo i mezzi di comunicazione come li intendiamo: a McLuhan interessava la televisione altrettanto che l’abbigliamento, le case e i mezzi di locomozione. Tutto quanto è pensato per arrivare a toccare gli altri, o per consolidare i nostri confini, è un medium. Le pareti dei nostri appartamenti, le mura delle città, le culture, i treni, sono in questo senso una seconda pelle. I mezzi di comunicazione estendono metaforicamente i confini della nostra epidermide.

A dispetto delle apparenze, niente di nuovo: il passaggio a cui assistiamo con lo sviluppo dei nuovi media non segna una discontinuità radicale rispetto al passato. La storia dell’evoluzione delle tecnologie è la storia dello sforzo di espandere la propria pelle oltre i confini corporei. Oggi viviamo — né più, né meno — un capitolo di quella storia.

Identificare i nostri confini attiene a una delle questioni storiche della psicologia. È il problema di definire l’individuo e la sua mente, e viene da lontano, da prima che si cominciasse a riflettere sui media. Alcune tradizioni racchiudono la mente dentro i confini dell’individuo (dentro la sua pelle), altre devono ricorrere alla descrizione di circuiti più complessi che comprendono anche l’individuo, senza i quali nulla di quest’ultimo sarebbe comprensibile.

Che dentro quei confini ci sia anche “quello che ci appartiene” lo diceva William James più di cento anni fa: un altro profeta.

Gregory Bateson scrisse: ”Supponiamo che io sia cieco e che usi un bastone e vada a tentoni. In quale punto comincio io? Il mio sistema mentale finisce all’impugnatura del bastone? O finisce con la mia epidermide? Comincia a metà del bastone? O alla punta del bastone? Tutte queste sono domande senza senso.”

Dunque pensare a vari strati di pelle che racchiudono un “me” più prossimale o che lo proiettano a contatto con la pelle di qualcun altro mi offre una buona metafora per parlare di dove comincio e soprattutto di dove finisco.

Anche se parlarne come di un “confine”, sebbene mutevole, già non mi soddisfa più. La pelle non è una barriera passiva: è un vero e proprio organo. Sente, comunica, sceglie. È dotata di sensori chimici che le permettono di percepire e selezionare. Lascia entrare delle sostanze e ne libera altre dal corpo all’ambiente circostante.

Prima di arrivare qui, oggi, a parlarvi di queste cose, ho fatto un piccolo esperimento con gli appunti di questa relazione. Ne ho estratto dei brani e li ho pubblicati — virgolettati e attribuiti a un autore inesistente — sulla mia bacheca Facebook.

Alcuni amici hanno fatto delle domande, altri hanno scritto commenti che hanno perturbato il mio testo. Hanno suggerito implicazioni che non mi erano venute in mente e che un po’ hanno modificato quello che penso e che vi sto dicendo. La mia “pelle”, così, ha lasciato entrare sostanze che un po’ mi hanno modificato.

Dunque se io sono definito dai miei confini, il “me” che vedete ed ascoltate parlare con voi in questo momento non è esattamente lo stesso che ieri sera parlava con mia figlia, e anche quello non era lo stesso che poche ore prima faceva una seduta familiare in studio. La mia pelle non incorpora gli stessi pezzi di realtà in ciascuno di questi contesti.

Ripensiamo a Bateson e al bastone.

Io sto scrivendo la mia relazione per questo incontro. Spargo online dei pezzi dei miei pensieri. Altre persone li raccolgono, li integrano, li modificano, li perturbano in qualche modo e me li restituiscono.

Fra parentesi: è così da sempre. Sebbene sia più chiaro agli autori di articoli scientifici di scienze “dure” che a noi cultori di scienze umane, ogni creazione è sempre in qualche misura creazione di una mente più ampia. Un articolo di biologia porta anche sette o otto nomi di autori, perché il docente o il collega che ha messo a disposizione fonti altrimenti irreperibili dà in qualche modo un contributo autoriale insostituibile. Nel nostro ambito invece tendiamo più a mettere in evidenza il nostro nome per dire “questo libro sono io, qui comincio e qui finisco, proprio come le pagine fra il davanti e il dietro della copertina rigida”.

Ma dicevo della mia relazione e di ciò che l’ha perturbata.

Dunque: in quale punto finisco io? Il mio sistema mentale finisce alla punta delle mie dita? Sul display del dispositivo? O sulla tastiera dei miei amici? O anche oltre?

Conosco una persona che per il suo recente compleanno “tondo” si è regalata il “viaggio della vita”. Sta attraversando Europa e Asia con molti mezzi e alloggia in posti ben poco turistici. Io e molti altri suoi amici seguiamo il suo viaggio attraverso le foto che pubblica quotidianamente su Facebook. È piuttosto appassionante condividere un’esperienza personale e profonda; intima e pubblica insieme. Forse intima perché condivisa con persone che in qualche modo ha scelto. Sui social network si può scegliere fin dove espandere la propria pelle; è un fatto poco considerato da quanti paventano la fine di qualunque forma di riservatezza (e non parlo di cose così; parlo della facoltà di scegliere con chi, fra quanti sono in contatto con noi, condividere ciascun contenuto).

Per qualche giorno abbiamo anche perso di vista la nostra amica, e ce lo aspettavamo. Lo aveva annunciato. È stato quando ha visitato Auschwitz. È rimasta sconnessa per scelta, forse nella convinzione che se una cosa non si può condividerla con una profondità almeno paragonabile a quella con cui si sperimenta, è meglio non provarci nemmeno. Meglio il silenzio e lasciarsi attraversare dall’esperienza, e ascoltarla, e ascoltarsi.

L’altro giorno sulla sua bacheca appare il messaggio:

“Sono nel deserto di Gobi e all’improvviso mi sono ritrovata collegata!”

Ce l’ha comunicato con divertimento e anche noi abbiamo trovato buffo che dal cuore desolato della Mongolia fosse possibile aggiornare il proprio status quando spedire una email dall’ufficio non è sempre un atto banale.

Nei commenti a quello status ci ha raccontato l’esperienza sconvolgente di poco prima, del camminare da sola nel mezzo del deserto, nello “spazio vuoto”. Prima di ora non era possibile raccontare la solitudine in diretta.

Dunque si può tacere e scegliere di restare soli con le proprie emozioni calde, e ascoltarle, o si può scegliere di condividerle, e scegliere con chi, forse dissipandone un po’ l’impatto. Cioè: si può decidere fin dove espandere la propria pelle. Chi sa farlo, anziché affidarsi ai limiti dati dal dispositivo, ne ricava un’esperienza migliore.

Discutendo dell’esperienza della nostra amica, una conoscenza comune commenta con una storia propria:

“(…) qualche mese fa ho fatto una breve esperienza di viaggio abbastanza solitaria e remota: da sola in un cottage di fronte all’oceano sull’isola di Lewis. La connessione mi ha permesso di essere sola ma non isolata, di condividere emozioni ma anche di sperimentare una solitudine molto profonda, di essere molto lontana, quasi inaccessibile, ma di potermi avvicinare, in modo selettivo, e di sentire la vicinanza di coloro con cui avevo scelto di condividere momenti. Esperienza bellissima.”

“Sola ma non isolata”, “condividere ma anche sperimentare una solitudine profonda”, “essere lontana, ma potermi avvicinare”, e poterlo fare “in modo selettivo”. L’esperienza della distanza e del confine non si riduce a stare lontano o stare vicino ma diventa un modo di regolare avvicinamento e distanziamento. “Allontanarsi” e “avvicinarsi” sono concetti di livello meta rispetto a “lontano” e “vicino”. In ciascuno dei due c’è il “lontano” e il “vicino”.

2. Due gradi e mezzo

Nel mio mestiere, la psicoterapia, una delle parole chiave di maggiore fortuna è “empatia”. È una specie di dogma, non si mette nemmeno in discussione: il terapeuta è empatico o non è. Uno dei miei maestri che non ci sono più, Gianfranco Cecchin, non aveva in simpatia la parola. In una conversazione con l’altro maestro, Luigi Boscolo, decise che le avrebbe preferito “tele-patia”. Che, dove  “en-patia” ha a che fare col “sentire dentro di sé”, non significa proprio stare fuori e distante. Significa però poter regolare la distanza, poter fare un passo avanti e uno indietro se lo si desidera. Peraltro, qualche volta un passo indietro aiuta a vedere meglio. Lo sa il matematico che ogni tanto deve allontanarsi dalla lavagna piena di numeri per avere un’idea di quello che sta facendo. Non può sentirsi “dentro” il processo se non fa un passo indietro per contemplarlo.

Dicevamo del regolare l’espansione della nostra pelle nella comunicazione e dell’avere abbastanza competenza e consapevolezza per farlo. Tornando alla metafora del bastone, Niels Bohr disse che la relazione col bastone può essere “salda” o “lasca”: più stretto tengo il bastone, meno lo sento. Sentirò con la pelle e i muscoli della mano e del braccio la strada e le irregolarità del terreno. Se lo tengo “molle”, “lasco”, invece, sentirò solo il bastone muoversi nella mano.

Può essere una buona metafora per dire che il modo di evitare l’assoggettamento alla tecnologia è sviluppare una consapevolezza del rapporto con essa, anziché starne lontani.

Chi ha una relazione “salda” con la tecnologia ha il vissuto di comunicare con esseri umani: la macchina “scompare”. Chi ha una relazione “lasca” sente di interagire con una macchina (sono quelli che dicono “a me non piace il computer”, come se il mezzo fosse il fine). Le prime volte che guidiamo la macchina guardiamo le leve, il volante, le lucine, le lancette… Quando diventiamo esperti guardiamo la strada, pensiamo all’arrivo. La presenza del mezzo sfuma. Nella comunicazione online sperimentiamo la presenza di altri individui, in una sorta di “prossimità virtuale”, che è una forma di vicinanza non fisica ma psicologica. Anche  quest’ultima non è una scoperta dei social network. Tuttavia ci interessa più di prima comprendere in quanti modi possiamo essere “vicini”. Il “mondo piccolo” è sempre più piccolo: i “sei gradi di separazione” ipotizzati da Stanley Milgram sono oggi circa due e mezzo.

Per essere chiari, io non sostengo che questa elasticità estrema della nostra pelle porti solo conseguenze buone. Credo che viviamo tutti in una specie di choc fra l’avere tutto molto vicino e il sentire distanti delle cose importanti di cui vorremmo mantenere il controllo. Più che in passato abbiamo possibilità di toccarci l’un l’altro ed entrare in con-tatto, ma più che in passato percepiamo lontane e invisibili le cause di quello che ci succede. È sotto gli occhi di tutti che stiamo più male ma non sappiamo perché. Abbiamo meno soldi ma non vediamo la mano che ce li ha sottratti.

Sentiamo il mondo vicino e ci pare di comprendere tutto. Nello stesso tempo, i “centri” nei quali si decidono le cose importanti li sentiamo distanti e ignoti (“Ce lo chiede l’Europa”, ci dicono. Ma chi è? Che faccia ha? Con chi prendersela?). Persino il cibo che mangiamo è spesso prodotto a grandi distanze da noi e non ne sappiamo nulla. La nostra salute dipende da variabili sempre più incontrollabili. Il mondo ci è contemporaneamente squadernato e occulto. Credo che un prodotto di questo choc sia il cosiddetto complottiamo, che è l’idea paradossale che le cose siano misteriose e nello stesso tempo facilmente spiegabili.

Io sto proponendo una metafora orizzontale e di movimento: tatto, contatto, toccarsi. Per entrare in contatto ci muoviamo, ci espandiamo l’uno verso l’altro. Non sopra, non sotto: verso. Noi siamo definiti da quello che la nostra pelle tocca e ingloba.

Altre metafore di quello che ci definisce sono metafore verticali e immobili. Quella di maggior successo è la metafora delle radici, secondo la quale l’identità è piantata nel terreno della tradizione, dal quale trae nutrimento e legittimità. È la tradizione, il passato a definirci: a dirci chi siamo.

3. Le radici e la pelle

Maurizio Bettini ha scritto “Contro le radici”: sembra un titolo impertinente e cinico, ma Bettini è un latinista. Di tutto può essere accusato tranne che di disprezzo per le “radici” e il passato. Fa capire come il nostro bisogno di maneggiare concetti astratti (l’identità lo è) facendo ricorso a concetti concreti ci ha portato a reificare la metafora delle radici: tanto che non si può pensare all’identità senza ricorrere a quelle.

È una metafora che viene utilizzata ampiamente oggi nel discorso identitario e tende ad essere una metafora che esclude: l’identità definita attraverso le radici è un’identità che ha bisogno di chiudere fuori qualcuno. Che posto hanno in questa metafora coloro che non condividono le “radici” dell’albero? Possono essere qualcosa di più che uccelli che si posano sui suoi rami per poi volare via appena possibile?

A volte le metafore si ipostatizzano e cristallizzano un significato univoco, costituendo così dispositivi di autorità (nel senso che spiega ancora Bettini: “Se dunque si congiungono per via di metafora radici e tradizione, si fa di quest’ultima qualcosa non solo di biologicamente necessario, ma anche di fondamentale nell’esperienza e nell’identità di una persona”).

Ad esempio, l’uso tradizionale e identitario che si fa solitamente delle radici considera solo una parte di un processo: il nutrimento attraverso le radici va verso il tronco, i rami e le foglie. Ma le foglie, che sono state nutrite dalle radici, quando muoiono cadono a terra: verso le radici. Lì, per l’azione di altri esseri viventi, diventano nutrimento per il terreno e la pianta: e così — circolarmente — le radici tornano a nutrirsi del presente, che le alimenta e le trasforma dopo essersene nutrito.
Noi siamo certamente definiti dal modo in cui ci nutriamo per tramite delle nostre radici; ma almeno altrettanto lo siamo dal modo in cui retroagiamo con le nostre radici e le trasformiamo.
E in che modo possiamo retroagire sulle radici? Raccontandole. Abbiamo delle radici perché le raccontiamo e le rielaboriamo e le attualizziamo nella memoria, nella narrazione e rinarrazione. E a chi raccontarci se non a qualcuno che non conosca la nostra storia?
Abbiamo bisogno di qualcuno che ci faccia domande e a cui fare domande: chi sei? Raccontami di te. Non ti conosco e non posso conoscerti attraverso le lenti con cui conosco me. Posso solo farti domande.

Per coltivare le nostre radici, dunque, abbiamo bisogno dello straniero.

Ma mi domando se nuove metafore non renderebbero conto in maniera meno ambigua del fatto che noi non siamo definiti solo dal passato da cui veniamo, ma anche dalle connessioni che stabiliamo nel presente e dal futuro a cui tendiamo.

Cosa cambia nel nostro modo di percepirci se ci pensiamo non come piante radicate in un terreno? Se pensiamo per esempio ai luoghi, alle città e alle tradizioni a cui apparteniamo come a una pelle.

La pelle racchiude ma vive per il tatto e il contatto. Delimitando nello spazio, conserva l’identità ma per farlo ha bisogno di comunicare con l’esterno e di far entrare sostanze dall’ambiente. Non è una semplice barriera, è un filtro attivo: regola le nostre relazioni con l’altro, con quello che è fuori di noi.

La pelle ha un irresistibile bisogno della pelle dell’altro:  anche attraverso il contatto con un’altra pelle, presiede alla regolazione del calore. Nei bambini piccoli presiede alla regolazione delle glicemia. Modifica l’ambiente circostante perché filtra sostanze e le lascia passare, e seleziona quelle da cui saremo modificati. Ci mette in contatto con l’esterno perché è un organo di senso: non soltanto perché presiede al tatto, ma perché vibra al suono. Poi racconta la nostra storia: ne porta i segni e le ferite (la pelle si vede: le radici no).

La tradizione è una seconda pelle che resta viva solo cambiando continuamente, come la pelle che rinnova completamente tutte le sue cellule nell’arco di alcune settimane. Ma una tradizione-pelle, diversamente da una tradizione-radice, è un corredo che cerca il contatto con altre tradizioni e che in quel contatto si contamina e si modifica. E non pretende di essere unica.

Io, per esempio, sono nato in una città dell’Abruzzo montano dalla pelle pallida. Quella della mia città natale è una pelle che condivido con molte persone: era una pelle fresca e spessa, oggi è una pelle lacerata e segnata da cicatrici.

Ho toccato altri luoghi-pelle e di molti di quelli ho ancora una memoria tattile, ricordo l’impressione sulle dita. Alcune di quelle sono diventate un’altra mia pelle. Così è stato con la pelle calda e sudaticcia di Roma, così con quella levigata di Milano.

Ho sfiorato e toccato molte persone; con alcune di queste ho tessuto una pelle comune.

Infatti la pelle non ha a che fare soltanto coi natali. Mi sento qualche volta comodo e in buona compagnia dentro la pelle della mia professione. Una pelle dentro la quale si sta bene, poi, è quella comune delle persone che hanno la stessa passione. Che passano ore dentro quella pelle a parlare di musica, di scrittori o di film.

Le persone con cui ho uno strato di pelle in comune sono quelle con cui mi piace stare connesso e che ho voglia di rivedere quando posso. Alcune sono quelle con cui ho scelto di vivere. Gran parte della mia vita si svolge dentro quella pelle, gran parte delle cose importanti accadono o risuonano lì dentro.

Tutti i miei strati di pelle definiscono quello che sono in un dato momento. In alcune di esse si sta comodi e protetti, in altre filtra più il freddo o i suoni di fuori, ma in ciascuna c’è un’esperienza diversa, c’è un odore diverso e una luce tutta sua.

Dentro una pelle comune, poi, ciascuno ha la propria, che è diversa da tutte le altre. Ha un proprio colore e i segni lasciati dalla vita, diversi da pelle a pelle. Ma ciascuna di queste sta dentro quello strato esterno che appartiene anche a molti altri.

Le radici sono piantate o no; la pelle può toccare e non toccare, ma può anche sfiorare, avvicinarsi, sentire calore senza contatto eccetera. È una connessione col mondo che non ci costringe a immaginarci per sempre piantati in un posto per poterci riconoscere. Le radici sono in un posto, un involucro come la pelle può essere composto di tanti strati e con tante altre pelli può essere in contatto più o meno stretto. Possiamo essere all’altro capo del mondo, ma la nostra pelle, il nostro involucro, ci definisce e ci rende riconoscibili. E sarà a casa dovunque troverà contatto, calore e un posto morbido dove fermarsi.

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Grazie per i commenti su Facebook (in ordine di apparizione) a Laura Bert, Lorenza Boninu, Maristella Sartor, Elena Nicolini, Claudia Boscolo, Massimo Schinco, Costanza Jesurum, Barbara Summa, Adriana Branchini, Bianca Mollicone, Marco Tarantino, Daniele Muriano.

Per gli scambi in privato grazie a Massimo Schinco e Ada Piselli.

Le amiche Facebook “viaggiatrici” sono Marina Callegari e Adriana Branchini.

Grazie ad Adriano Zamperini per le conversazioni in treno sulla vicinanza psicologica e a Tito Sartori per tutto il lavoro svolto insieme che un giorno o l’altro vedrà la luce.

 

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