di Gianluca Ganda e Massimo Giuliani
(articolo scritto nel 2007 per i siti del network di Vertici.com)

Introduzione

La terapia sistemica cui ci riferiamo è il corpus di conoscenze e di tecniche che sono state elaborate a partire dai primi anni 70 a Milano, conosciuto nel mondo come “Milan Approach”, così come Lynn Hoffman scelse di chiamare l’approccio in questione. Il battesimo ad opera di una terapeuta familiare americana è l’ulteriore testimonianza che questa modalità terapeutica non può essere guardata e compresa appieno se viene disgiunta dalle connessioni che ha avuto da sempre con il dibattito epistemologico internazionale sulla terapia familiare e con un mondo culturale in veloce e radicale modificazione.

Il “Milan Approach” si affianca, in particolare, agli altri approcci della terapia familiare, relativi al periodo noto come “cibernetica di primo ordine” (per una trattazione più approfondita dei vari approcci e stili terapeutici si rimanda a Gurman e Kniskern, 1995, e Bertrando, 1997) e con essi è in rapporto dialettico, al punto che Bertrando (op. cit.) mostra come ciascuno di quegli approcci può arricchire di contenuti il Milan Approach. Quest’ultimo, più che un modello, appare oggi come un “metamodello”, che aggiunge alla terapia familiare uno sguardo di “secondo ordine”. Non si pone in discontinuità con un sapere precedente, ma si propone come modello epigenetico (si intende per “epigenetico” un sapere che nasce sulla base dei saperi precedenti, senza annullarli; vedi Boscolo e Bertrando, 1996).

Proveremo, in questo articolo, a chiarire questa premessa partendo dalle radici principali del Milan Approach, che sono da rintracciare negli studi sulla comunicazione del gruppo del Mental Research Institute di Palo Alto, nella Teoria generale dei sistemi e nella Cibernetica. Ma non solo: ricorda Luigi Boscolo come, ai tempi del primo gruppo milanese guidato da Mara Selvini Palazzoli, i colleghi del team si trovarono a considerare che nelle loro teorie ricorrevano, ad esempio, Dostoevskij e la letteratura frequentata in gioventù altrettanto che le teorie psicologiche alle quali si erano formati. Ed è l’esempio più chiaro di cosa si intenda per un sapere epigenetico che si costruisce nel tempo.

La teoria della comunicazione del Gruppo di Palo Alto

Uno dei pilastri del modello milanese è il lavoro sulla comunicazione di Paul Watzlawick e del suo gruppo (Watzlawick, Beavin, Jackson, 1967; Watzlawick, Weakland, Fisch, 1974). La prospettiva per cui ogni sintomo è una forma di comunicazione offriva un modello assai efficace per intervenire in maniera incisiva e rapida su disturbi che fino ad allora avevano costituito una sfida importante per i clinici: Mara Selvini Palazzoli ne era restata colpita e aveva coagulato attorno a sé una nutrita squadra di psicoanalisti disposti a tentare una via nuova per curare, ad esempio, i disturbi alimentari – ai quali da sempre si dedicava, da psicoanalista – con un metodo più soddisfacente di quanto molto spesso non si dimostrasse quello analitico tradizionale. Coinvolse nell’entusiasmo della scoperta un buon numero di colleghi. Tra loro Luigi Boscolo, Gianfranco Cecchin e Giuliana Prata, con i quali avrebbe pubblicato nel 1975 “Paradosso e controparadosso”. Era il nucleo fondatore del Milan Approach.

Le ricerche di Palo Alto si rifacevano ai lavori dell’antropologo Gregory Bateson; questi però, tempo dopo ritirò la propria “benedizione” al gruppo, reo a suo avviso di aver messo le sue idee al servizio di una tecnologia tesa a cambiare altre persone. L’idea del gruppo era che il sintomo si comprendesse alla luce del contesto relazionale del “paziente”. Esso era, in un certo senso, un modo “normale” di rispondere a un contesto di comunicazione “insano”. In particolare il comportamento schizofrenico era visto come la risposta coerente a un contesto di comunicazione paradossale, il cosiddetto “doppio legame”.

La teoria matematica dei tipi logici di Russell veniva posta a fondamento di un modello della comunicazione sana: così come non può darsi una classe che sia membro di sé stessa, allo stesso modo il paradosso comunicativo viene visto come un “incidente logico” nella comunicazione. L’individuo destinatario di una comunicazione paradossale si trova in una situazione relazionale indecidibile e pertanto fonte di angoscia.

Bisogna dire che Bateson, cui spetta la paternità del concetto di doppio legame, avrebbe negli anni successivi sottoposto a una severa e continua revisione il concetto nonché la sua applicazione alla comprensione della psicopatologia. E lo stesso Russell ebbe a dolersi del fatto di aver frettolosamente bandito come “errore logico” il paradosso, disconoscendo dunque le fondamenta stesse della teoria su cui Watzlawick e i suoi collaboratori avevano costruito il loro modello.

L’eredità di quel pensiero che resta al modello sistemico è il gusto del paradosso e l’interesse per le teorizzazioni batesoniane, che più avanti il gruppo di Milano studierà nell’originale, e non più attraverso l’interpretazione che ne fu fatta a Palo Alto. Ma soprattutto resta l’attenzione alla comunicazione, alla relazione e al contesto come matrice di significato.

Assunti della Teoria dei sistemi

Sino al periodo successivo al secondo conflitto mondiale, con qualche timida eccezione, si riteneva che i sistemi orientati ad uno scopo potessero essere spiegati solo se si attribuiva ad essi un principio vitalistico, quale superamento del meccanicismo riduzionista. Questo atteggiamento, proprio di una scienza ancorata alle prassi positivistiche e alla riduzione alle cause efficienti, fu messo in discussione con l’introduzione della Teoria dei sistemi (per una trattazione più esauriente si veda Capra, 1996, e Malagoli Togliatti, Telfner, 1983).

La Teoria dei sistemi si sviluppa quando viene riconosciuto che fenomeni fisici e biologici possono presentare in sé la caratteristica di essere un’entità intera dove parti fra loro differenti sono interconnesse e fra loro interagenti. Parti in relazione tra loro tali per cui la loro somma è comunque diversa dall’intero. Dove un qualsiasi cambiamento in una delle parti influenza la globalità del sistema. Diviene fondamentale considerare la presenza di un ulteriore elemento, invisibile alla logica meccanicistica, i “rapporti organizzanti” cioè “schemi di relazioni insiti nella struttura fisica dell’organismo” (Capra, op. cit., p. 36). Ogni sistema, nella propria organizzazione, possiede caratteristiche proprie rispetto alla modalità di elaborare le informazioni, all’adattamento al mutare delle circostanze, all’autorganizzazione, all’automantenimento, indipendentemente dalla sua composizione (Guttman, p. 40).

La teoria dei sistemi ha costituito una rivoluzione che ha alimentato la speranza in una scienza unificata e onnicomprensiva dei sistemi: “Sia che si tratti di organismi, sia che si tratti di società, le caratteristiche essenziali dell’organizzazione sono costituite da nozioni quali quelle di totalità, crescita, differenziazione, ordine gerarchico, ascendenza, controllo, competizione ecc.” (von Bertalanffy, 1967, p. 86). Insomma: il tutto è più della somma delle sue parti, perché è “un tutto integrato, le cui proprietà derivano dalla relazione delle sue parti” (Capra, op. cit., p. 38), oltre che dalle loro caratteristiche. Non basta cioè conoscere bene gli individui di un insieme per sapere cosa fanno. L’illusione di Laplace di poter prevedere le conseguenze di un evento conoscendo lo stato iniziale e il modo in cui gli elementi di un insieme reagiscono alle forze cui sono sottoposti, viene a cadere.

Per sostenere questa tesi però è necessario passare dall’attenzione ai singoli elementi all’attenzione per le relazioni che uniscono questi elementi. Per dirla con Gregory Bateson, una mano non è cinque dita: è quattro relazioni.

Il concetto di sistema (dal greco systanai, “porre insieme”) ci permette di ampliare la prospettiva di osservazione e, di conseguenza, le possibilità di cambiamento. Se un sistema è un insieme di persone che comunicano fra loro ed intessono relazioni, allora quest’insieme è più che la somma delle parti, le singole persone: l’unità di osservazione, ilfocus del lavoro è la relazione anziché la mente individuale, e il contesto in cui essa si trova; è anche la loro connessione strutturale e “la danza di parti interagenti […] vincolata da limitazioni fisiche […] e dai limiti imposti in modo caratteristico dagli organismi” (Bateson, 1979, p. 27). È un salto di prospettiva che, nella terapia, implica l’abbandono dell’etichetta di “paziente” come della patologizzazione, e piuttosto l’assunzione di una prospettiva che colga la complessità delle relazioni.

Assunti della Cibernetica

A cavallo con il secondo conflitto mondiale è nata anche una nuova branca della scienza chiamata cibernetica, definita come “la scienza del controllo e della comunicazione nell’animale come nella macchina”. Requisiti essenziali per l’operatività dei sistemi sono la comunicazione e la regolazione attraverso la comunicazione. Diventa quindi fondamentale il concetto di “informazione”: l’informazione riguardante i risultati delle attività passate è riportata nel sistema, influenzando così il suo comportamento futuro. Questo processo, denominato retroazione autocorrettiva, è l’interesse della Cibernetica.

Un sistema tende a mantenersi in uno stato di equilibrio (omeostasi) e a regolare gli stati di disordine; a tale scopo mette in atto dei meccanismi per correggere la sua azione. Il sistema sfrutta il continuo scambio di informazioni che c’è fra i suoi elementi. Modifica la propria struttura per raggiungere un nuovo ordine.

La grande novità della cibernetica nella cura della schizofrenia in particolare è la possibilità di pensare al sintomo come un prodotto delle tendenze omeostatiche del sistema. Il “malato” è visto come “paziente designato”: designato dal sistema familiare a “produrre” un comportamento tale da garantire che nulla cambi, che un conflitto potenzialmente distruttivo non appaia alla luce, che un mito condiviso e necessario all’unità familiare non venga messo in discussione.

Ma la cibernetica di cui abbiamo parlato fin qui è definibile come una cibernetica “morfostatica”. Si occupa, cioè, del modo in cui i sistemi rimangono uguali a sé stessi. È la cibernetica del feedback negativo, della retroazione che minimizza il cambiamento e garantisce l’omeostasi del sistema.

Maruyama (1963) usò l’espressione “seconda cibernetica” per definire la cibernetica che si occupa del feedback positivo, una cibernetica “morfodinamica”: la retroazione positiva provoca infatti un cambiamento, una perdita di stabilità e di equilibrio. L’informazione in uscita rientra non per minimizzare la deviazione, ma per amplificarla.

La prima cibernetica riguarda piuttosto il qui e ora, i pattern che mantengono la stabilità; la seconda, che guarda al cambiamento, introduce la dimensione temporale diacronica nell’osservazione del sistema.

Descrivere il funzionamento dei sistemi in funzione di anelli di retroazione introduce una prospettiva che supera la causalità lineare alla quale si usa ricondurre i fenomeni che osserviamo. La causalità lineare vuole che, ad esempio, A sia la causa di B. A sua volta, B potrebbe causare C che determina D. Ma se a questo punto immaginiamo D come un’informazione che retroagisce su A, abbiamo un’idea di cosa sia la causalità circolare. La cibernetica applicata ai sistemi viventi offre allora una prospettiva per osservare sistemi complessi in un’ottica che renda ragione del livello di complessità di cui ci si occupa.

Heinz von Foerster (1982) distingue “macchine banali” e “macchine non banali”. Le prime sono caratterizzate da un input “x” e da un output “y”. Dal momento che esse sono prevedibili e indipendenti dalla storia, saremo sempre in grado di prevedere y. Nelle macchine non banali, al contrario, la risposta può cambiare nonostante lo stimolo resti identico. Questo perché esse sono sensibili ai propri stati interni che von Foerster indica con “z”. Al contrario delle macchine banali, dunque, esse sono determinate dalla loro storia, e sono in larga misura imprevedibili.

Gli studiosi cileni Humberto Maturana e Francisco Varela (1980, 1987) forniscono un ulteriore contributo per una scienza dei sistemi complessi. Essi sostengono che i sistemi viventi sono “autopoietici”, cioè in grado di auto-organizzarsi, autoriprodursi ed evolvere. Sono, insomma, più sensibili al loro stato interno che alle condizioni esterne.

Questo vuol dire che i presupposti sistemici per cui gli elementi di un sistema sono interdipendenti viene a cadere davanti all’evidenza che non è possibile cambiare “da fuori” lo stato di un sistema? No. Vuol dire, però, che in nessun modo è possibile modificare intenzionalmente lo stato di un sistema: il suo cambiamento non dipende da un intervento esterno. Uno stimolo dell’ambiente può, per così dire, perturbare un sistema: in qual modo, poi, il sistema interpreterà quella perturbazione, in che modo esso si riorganizzerà per compensare i cambiamenti, è del tutto funzione delle caratteristiche del sistema e della sua storia.

I sistemi viventi, dunque, sebbene termodinamicamente aperti, sono chiusi dal punto di vista dell’organizzazione. Ciò comporta che il luogo della conoscenza, nei sistemi autopoietici, è interno al sistema: la vita è conoscenza, e la conoscenza è il cambiamento di uno stato interno. Per queste ragioni il contributo di von Foerster da una parte, e di Maturana e Varela dall’altra, è noto con il nome di costruttivismo: la conoscenza – la vita – è un processo di costruzione della realtà, non di percezione di qualcosa che esiste oggettivamente “là fuori”.

Queste nuove teorie (v. Bertrando e Toffanetti, 2000, p. 287 e segg.) aprono la strada, a cavallo degli anni 80, alla cosiddetta “cibernetica di secondo ordine” (parliamo di cibernetica “del secondo ordine” nel senso che essa compie un salto di ordine logico, dal sistema osservato al sistema osservante che osserva il sistema osservato: in definitiva, è una cibernetica della cibernetica) o cibernetica dell’osservatore: se la realtà è una costruzione, e non qualcosa da conoscere oggettivamente, non è rilevante tanto il modo in cui funzionano i sistemi che osserviamo, quanto il modo in cui li conosciamo, il modo in cui funzioniamo come osservatori mentre ne abbiamo cognizione. È una vigorosa spallata al mito dell’oggettività nelle scienze umane.

Se gli individui di un sistema osservato sono interconnessi e si influenzano reciprocamente, non possiamo trascurare che anche l’osservatore influenza il sistema e ne è influenzato: troviamo utile pensare che l’osservatore sia in un certo senso “parte” del sistema che osserva, e che la sua importanza nel co-costruire la realtà osservata non sia trascurabile.

Un sistema autopoietico, si è detto, costruisce da solo le regole del proprio funzionamento in maniera del tutto originale e peculiare.

Cosa comporta tutto ciò, in terapia?

Fondamentale è cercare con il sistema una definizione del bisogno, conoscere come esso organizza, struttura e individua i propri bisogni.

Dunque il Professionista che si accosta alla realtà di un sistema non si limita a “fotografare” ciò che “esiste”, ma lo costruisce mentre lo conosce. Possiede così di volta in volta mappe (cioè teorie ed ipotesi) locali e provvisorie, mai definitive: e se “la mappa non è il territorio”, allora le nostre teorie ed ipotesi smettono di essere riferimenti esclusivi e diventa importante, accanto ad esse, l’ascolto dell’individuo e del sistema, la conoscenza delle loro mappe, delle loro premesse sulla realtà.

Il terapeuta, il consulente, pertanto non forniscono interpretazioni bensì ipotesi, tentativi di connettere e rendere coerenti e dotate di senso le relazioni e i comportamenti delle persone che partecipano al processo.

A loro, a chi consulta, è rimandata la responsabilità e il potere di accettare e di confermare il senso.

Allo psicologo è lasciata la responsabilità di accettare la storia di una persona, del sistema di cui è parte, pur decostruendola per farle acquisire un nuovo senso, attraverso la messa a fuoco delle aspettative e delle rappresentazioni di chi è nel sistema stesso.

I sistemi oltre la cibernetica: le evoluzioni del Modello Milanese

La progressiva messa in discussione del terapeuta come osservatore oggettivo ed esperto della realtà si accompagna alla “crescente consapevolezza della natura sociale di ciò che prendiamo per ‘vero e giusto’” (McNamee e Gergen, 1992, p. 16): se per il costruttivismo il luogo della conoscenza era il sistema nervoso, nella visione che emerge tra gli psicologi sociali e i sociologi esso è da rintracciare nella costruzione del mondo che si attua entro i vincoli e le possibilità del linguaggio.

Le narrazioni (quelle presunte “esperte” e le altre) non sono più ordinate gerarchicamente: se la realtà è nel linguaggio e nel consenso, essa è inevitabilmente polifonica.

A partire da quest’assunto, il costruzionismo sociale si fa critica politica, radicale messa in discussione del sapere psichiatrico. In Italia il modello sistemico milanese lo adotta come nuova cornice di pensiero. Negli USA (cfr. Hoffman, 1990) alcuni studiosi lo usano come grimaldello per scardinare i modelli terapeutici e per superare la cibernetica e le idee sistemiche.

Mentre in Italia le idee costruzioniste e la narrativa si integrano col pensiero batesoniano in un modello sistemico sempre più fedele all’ottica della complessità, altrove qualcuno conierà il termine “post-Milano” per designare un modello terapeutico “leggero” che rinuncia (o almeno crede di rinunciare) ad avere premesse teoriche “forti”.

Le terapie “post-moderne” e conversazionali hanno spesso solo un tenue legame con la tradizione sistemica (Minuchin, 1998), rinunciando alla centralità della relazione e alla causalità circolare.

Il Milan Approach, dal canto suo, entra nell’era post-moderna non rinunciando ad avere alle spalle una teoria, ma piuttosto col disincantato convincimento che le teorie sono degli utili quanto provvisori punti di vista.

Nasce così un approccio polifonico nel lavoro con la famiglia, con l’azienda, con il sistema scolastico: più voci permettono ad ognuno di trovare valore in ciò che dice e ricevere conferma implicita del proprio essere, trovando una nuova connessione col sistema. La polifonia delle voci e delle narrazioni costruisce un contesto in cui tutti i punti di vista sono importanti e legittimi e tutti insieme descrivono la realtà. La qualità del Terapeuta, del Consulente, del Formatore è quella di saper mantenere aperto un dialogo con i colleghi e i clienti, cercando di capire e rispettare il punto di vista di tutti. Ogni sistema ha le sue proprie soluzioni, e la sfida del Consulente, del Formatore e del Terapeuta Sistemico è quella di scoprirle insieme ad esso senza sovrapporre le proprie, giacché non può esistere un solo modo di vedere le cose.

Attribuiamo al sistema una capacità critica e la possibilità di trovare le proprie soluzioni: in questo senso, nell’ambito della terapia familiare, ci sentiamo vicini – più che ad un punto di vista che vuole, per esempio, nei genitori la radice dei problemi dei figli – ad una prospettiva che vede nei genitori i principali esperti della famiglia e delle risorse che il sistema può attivare.

Restano i punti cardine consolidati del lavoro sistemico (v. Bertrando e Toffanetti, 2000, p. 248 e segg.) ; ad esempio:

–   l’ipotizzazione (vale a dire la creazione di una spiegazione plausibile che connetta i comportamenti e le credenze di tutti i membri del sistema, vera solo fino a che risulta utile al dialogo: v. Selvini Palazzoli et al., 1980, e Boscolo, Cecchin, Hoffman, Penn, 1987);

–   la circolarità (la capacità di condurre la conversazione basandosi sulle retroazioni della famiglia e di pensare per rapporti e differenze: v. ancora Selvini Palazzoli et al., 1980, e Boscolo, Cecchin, Hoffman, Penn, 1987);

–   la connotazione positiva (l’utilizzo degli aspetti positivi per spingere al cambiamento: la nostra esperienza ci insegna infatti che ridefinire in positivo i problemi umani li ristruttura come situazioni con una via d’uscita e di lavorare sul profondo valore evolutivo di una crisi, di un problema, di una difficoltà; v. Selvini Palazzoli et al., 1975).

Ad essi se ne affiancano di nuovi:

–   la creatività, la curiosità e l’irriverenza che ci permettono di privilegiare quanto accade nella relazione anziché quanto prescritto dalle teorie di riferimento, e che sostengono continuamente la capacità di “sorprendersi” trovando aspetti evolutivi sempre nuovi nella relazione con il Cliente (v. Cecchin, 1987 e 1992);

–   l’attenzione agli affetti e alle emozioni: gli affetti dell’individuo sono la via d’accesso al sistema, al suo linguaggio, alle sue premesse;

–   l’attenzione alle narrazioni e al tempo come connessione non lineare ma ricorsiva tra passato, presente e futuro (Boscolo e Bertrando, 1993).

La psicologia clinica possiede uno strumento di lavoro particolare poiché coincide con l’oggetto su cui si lavora, la relazione. La psicoterapia diventa allora lo strumento di approccio alle relazioni umane; le relazioni che definiscono gli individui e le relazioni che influenzano il comportamento degli individui.

La modalità sistemica, al di là della contrapposizione tra un modello lockiano (“per quale motivo?”; “qual è la causa efficiente del sintomo?”) e un modello kantiano (“a quale scopo?”; “qual è la causa finale?”) della psicopatologia (Cingolani, 1995), si preoccupa di fornire una spiegazione circolare degli eventi: quale pattern determina il sintomo e ne è determinato? Anche Cecchin e Apolloni (2003) sottopongono a critica il ricorso, nelle scienze umane, alla causalità efficiente, l’unica forma di causalità cui il pensiero scientifico riconosca una legittimità: guardare anche alla causa finale permette di evidenziare l’effetto pragmatico sull’organizzazione del sistema di comportamenti tradizionalmente ritenuti “patologici” e di dar loro un senso che faccia emergere le risorse, le capacità di un individuo o di un sistema.

Nell’indagine sistemica, di fronte ad un comportamento, ad una comunicazione (un “sintomo”) non ci chiediamo solo “quali circostanze hanno causato questo fatto?” ma anche “a che cosa serve questo evento in questo particolare sistema relazionale?”.

Il terapeuta si interessa ai modi in cui i membri del sistema si influenzano l’un l’altro. Il comportamento di un individuo, un gruppo o un’organizzazione, ha un effetto su chi riceve e ascolta il messaggio: è una comunicazione. Il significato di un atto comunicativo dipende da molti elementi: le caratteristiche del messaggio, di chi lo emette e di chi lo riceve, del luogo in cui questa comunicazione avviene – quell’insieme di aspetti e contrassegni che chiamiamo contesto.

Si lavora sulla “danza delle parti interagenti“, senza avere la pretesa di controllarle o di controllare l’evoluzione che prenderanno. È “una danza che crea” e crea ciò che il sistema, la rete di relazioni che evolvono, può diventare.

 

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