È successo che conversando via internet abbiamo scoperto che da tempo conduciamo riflessioni parallele sulle implicazioni ipertestuali della relazione d’aiuto. Silvana Quadrino (psicologa e terapeuta della famiglia) e Giorgio Bert (medico e libero docente di Semeiotica Medica all’università di Torino) sono i fondatori dell’Istituto Change di Torino, centro e scuola di counselling che ha avuto un ruolo cruciale nella nascita e nello sviluppo del counseling in Italia e che tuttora è all’avanguardia nell’impegno per la definizione di questa professione, delle sue specificità e delle sue differenze rispetto alle discipline circostanti.

La conversazione che segue è pubblicata anche sul sito dell’Istituto Change.

Massimo Giuliani: Giorgio, so che stai lavorando su un’idea di “memoria come ipertesto e come palinsesto“. Dicevi da qualche parte che “in una situazione professionale non psicoterapeutica, che è poi quella che conosco, il difficile è non farsi trascinare nella propria rete ipertestuale o in quella dell’altro, senza tuttavia ignorarla o semplificarla”. Mi sono domandato cosa intendessi… Per come l’ho capita io ha a che fare con il non imporre le storie preesistenti – del professionista, del cliente – e aprirsi piuttosto alle storie nuove che emergono. A questo proposito mi ha ispirato il concetto di “virtuale” (l’ho preso da Pierre Lévy, un profeta della rete): mi piace pensare alla conversazione nella relazione d’aiuto come una possibilità di “virtualizzare” le storie preesistenti. Se due testi si connettono, quello che emerge è l’ipertesto: e, nella nuova cornice ipertestuale, i due testi originari mutano di significato… Parliamo della stessa cosa?

Giorgio Bert: In parte è come dici tu, ma per me esiste un altro tipo di problema. Premetto che la mia esperienza nasce dal lavoro medico e da quello formativo. Mi capita che nel corso di uno scambio comunicativo mi compaia di botto e senza che via sia alcuna evidente connessione con quanto mi viene detto un’immagine della mia storia personale, precisissima fin negli aspetti visuali: diciamo ad esempio la mia maestra di terza elementare che mi detta il necrologio del duca d’Aosta da poco morto a Nairobi. Vedo con chiarezza ogni particolare della stanza, i mobili, l’illuminazione dell’ambiente. Non posso recuperare questo ipertesto nel colloquio medico o formativo, perché ne ignoro l’origine e comunque non c’entra niente con quanto sto ascoltando. Il rischio è, e ho imparato (quasi!) a sfuggirlo, di correre dietro al quell’immagine producendone altre e altre ancora, tutte interconnesse e sempre più distanti dal contesto: il risultato (grave sul piano pedagogico e comunicativo) è la perdita dell’ascolto, così che la narrazione da dialogica diventa monologica.
Altra cosa è quando il link che apre il mio ipertesto è connesso con quanto l’altro sta dicendo: in tal caso è possibile con un opportuno commento facilitare a lui l’uscita da una narrazione ristretta e rendere possibile una conarrazione con una nuova cornice ipertestuale nella quale i significati siano condivisi: è il ponte che scavalca il fossato tra due mondi (io/tu), che ovviamente non possono coincidere. È l’ascolto come relazione. Ma il problema che mi incuriosisce e in qualche modo mi preoccupa è il primo…

M.G.: …Ma in quel caso ti è mai capitato di realizzare, dopo, che una connessione c’era? Il fatto che si sia aperta quella “finestra” diventa in qualche modo un’informazione? Mi viene in mente quello che succede nella navigazione ipertestuale, quando ti ritrovi in un ambiente talmente diverso da quello dal quale provieni che dici “no, non c’entra niente” oppure “mamma mia, dove sono finito?” e torni indietro. Però nella navigazione questa forma di “disorientamento” ti rende ancora più “autore”, perché devi costruire un senso al percorso. Ti torna utile domandarti: che senso ha quel link?

G.B.: Be’, certo che una connessione deve esserci: quel link ha forzatamente un senso. Quanto suggerisci è ciò che consiglio ai nostri corsisti nel modulo autobiografico che conduco: dare senso al percorso è uno degli elementi della conoscenza di sé; è peraltro già abbastanza istruttivo scoprire che la mente agisce spesso “in automatico”, senza che vi siano chiare catene causali: molti pregiudizi e interpretazioni indebite funzionano così, emergono improvvisi e noi siamo bravissimi a dar loro un senso logico, a posteriori. Si tratta di scorciatoie mentali, le cosiddette euristiche, su cui stiamo lavorando molto in questo periodo. Per quanto mi riguarda in quanto professionista, è importante riuscire a non mettermi a seguire quel percorso durante il colloquio, perdendo così l’ascolto e la relazione. Resta il fatto che in molte occasioni il senso di quel link è destinato a rimanere ignoto, e il percorso all’indietro risulta impossibile… e non consigliarmi un intervento psico, mi raccomando… ci sono cose che hanno il diritto di rimanere ignote. Quello che conta è essere consapevoli di quei movimenti mentali automatici e di non credere quindi che ogni nostra valutazione abbia ordinate basi cognitive.

Silvana Quadrino: Io sto sempre di più cercando di evidenziare le somiglianze e le differenze fra l’intervento terapeutico e l’intervento di counselling sistemico. Nella formazione dei counsellor e nella teorizzazione sul metodo sto lavorando sul concetto di “commento”, che ha appunto la funzione di creare nuove narrazioni unendo ipertesti, ma mi sembra che protegga di più il counsellor da tentazioni eccessivamente interventistiche che dobbiamo riservare alla psicoterapia. In breve, il modello del commento è una frase del tipo: “Mentre lei parlava mi veniva in mente che… Mi chiedevo se questo fa venire a lei qualche altra idea”. Io insisto molto sull’alternanza rigorosa: IO ho pensato, LEI come si aggancia a questo pensiero? Non dobbiamo mai dimenticare che il counsellor non ha una formazione personale approfondita, non ha necessariamente studi di psicologia (ammesso che servano) e ha bisogno quindi di un metodo rigoroso.

M.G.: Ho una curiosità: parli del tuo “modello” del tipo “Mentre lei parlava mi veniva in mente che… Mi chiedevo se questo fa venire a lei qualche altra idea” come un modo di aprire link più “proprio” del counseling che della terapia: in che senso? Te lo domando perché la vedo come una domanda che io userei in terapia, e allora mi viene da pensare che mi sfugga qualcosa di sottile che tu hai colto.

S.Q.: La differenza fra il “mi fa pensare che” in terapia e nel counselling è sottile ma non invisibile: io in terapia mi sento di dire, per esempio: “Quello che sta raccontando mi fa pensare a quanti pesi si è caricato sulle spalle in questi anni… mi chiedevo se le riesce di pensare che potrebbe anche lasciarne scivolare qualcuno”: insomma, posso inserire una immagine che nasce da una ipotizzazione che porgo al cliente per verificare se e quanto è utilizzabile per lui. Nel counselling io chiedo ai corsisti di tenere l’ipotizzazione molto più sotto traccia. Allora l’intervento diventa: “Mentre lei parlava pensavo che le cose che le sono successe sono un po’ dei pesi che lei porta… è una descrizione che somiglia a quello che mi stava dicendo?”. La differenza è la minore spinta al cambiamento, che io ritengo fondamentale nel counselling: scommettiamo sul fatto che una traccia narrativa nuova produca qualcosa, ma non necessariamente un cambiamento (lasciar cadere dei pesi): magari anche solo (solo!) la consapevolezza di essere appesantiti, e non cattivi o stufi del proprio partner. È un discorso lungo che sto coltivando e ricamando da tempo, adesso finalmente ho un po’ di tempo per finire il primo vero testo di tecnica del counselling sistemico, potrebbe essere una base su cui discutere!

M.G.: Mi stuzzica l’idea che una differenza fra terapia e counselling sia nel genere di link, se continuiamo a cercare ispirazione in questa metafora. Nell’ipertesto esistono collegamenti esterni e collegamenti interni, cioè da un testo di partenza verso un altro testo oppure all’interno del testo di partenza. Il maggiore “rischio” che ci si può permettere in terapia – se può essere un altro modo di dire quello che intende Silvana – lo accosto all’esplorazione ipertestuale di un testo “altro”: una storia su “lasciar scivolare dei pesi” è un altro testo rispetto a quello del cliente che parla dei pesi che porta addosso, e che intorno a questi pesi ha costruito una narrazione che lo rappresenta. La storia non è contenuta nel testo “originario”. Domandare “la mia metafora somiglia a quello che mi stava dicendo?” ti porta a un’altra pagina della stessa storia: con l’effetto – forse non meno benefico – di trovare sollievo proprio nei confini di quella storia di prima. Tanto che, scommetto, il cliente stesso – una volta riletta la sua storia dei pesi sulle spalle – avrà persino delle probabilità di seguire dei link nuovi verso chissà dove, con le proprie risorse, quando una nuova metafora gli avrà permesso di vedere quella storia “di partenza” come meno ostile e meno sgradevole.

S.Q.: Siamo proprio sulla stessa linea di riflessione: è effettivamente così. Negli interventi di counselling gli ipertesti più “trattenuti”, appena suggeriti ma senza portarli fino alla costruzione di testi alternativi, hanno davvero l’effetto di far produrre al cliente, magari due incontri dopo, la riflessione: “Ho cominciato a pensare che magari non è necessario che io me li porti tutti, quei pesi”. L’idea di base che ho del counselling è la scommessa sulla normalità: è normale avere difficoltà, è normale sentirsi bloccati, è normale trovare uscite e risposte alle difficoltà. Per questo l’intervento del counsellor è leggero, e non deve lasciare il ricordo che qualcun altro abbia fatto succedere qualcosa. Se il mio cliente, dopo 3 o 4 incontri, si accorge di aver pensato da solo la sua soluzione il mio intervento è riuscito. E ti assicuro che succede!

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