Antonella Morlacchi, psicologia e psicoterapeuta, ha lasciato un commento al mio post sul dibattito nato da una puntata di Porta a Porta che si occupava di attacchi di panico e psicofarmaci.

Nell’articolo dello scorso 8 marzo – che avevo scritto per il sito dell’Osservatorio Psicologia nei Media e che ho riportato in questo blog – io non parlavo della trasmissione, che non ho visto, ma delle lamentele che sono seguite: come in tante altre occasioni, la psicoterapia è stata espulsa dall’informazione e fra i colleghi psicoterapeuti si è riaperta la secolare questione del diritto a una decente par condicio nei media. Ho commentato la faccenda con argomenti che, volendo provare ad affrancarsi dalla rivendicazione pura e semplice, mi hanno procurato in altra sede una velata accusa di collaborazionismo con chi somministra antidepressivi alle donne incinte (?): mi è venuto pertanto il sospetto di essere stato poco chiaro.

Per tornarci su approfitto allora del commento di Antonella, peraltro abbastanza articolato da rendere difficile risponderle attraverso una replica stringata. Lo faccio con questo nuovo post.

Per cominciare, provo a riassumere le questioni che Antonella solleva:

1. Il programma, a detta di alcuni rappresentanti di un pubblico non esperto ma nemmeno sprovveduto, è stato un impudico spot dell’approccio farmacologico: per di più, promuoveva l’idea che esista una visione corretta e affidabile (quella medica) e un’altra vaga, culturalmente frammentata e con poche certezze (quella psicologica);

2. ma è possibile avere un’idea univoca di un oggetto tanto complesso come l’essere umano? E se sì, ha senso?

3. perché la straordinaria varietà del panorama delle psicoterapie è intesa come confusione invece che segno di complessità? Non capita forse che anche nella medicina somatica un dentista, un neurologo, un ortopedico, un fisioterapista, un osteopata e così via, trattano – vedono, dico io – in modi diversi una cefalea? Ciascuno, naturalmente, con argomenti scientificamente ineccepibili?

Per quanto mi riguarda, trovo insopportabile questa informazione così parziale e trovo sconfortante che chi dovrebbe informare non voglia fare il minimo sforzo per informarsi. Penso che il problema sia antico: chi si ricorda di una trasmissione di Piero Angela di quindici o sedici anni fa, forse più, che si chiamava “Serata depressione”, con in studio i soliti noti della farmacologia? E a chi capita di svegliarsi di prima mattina e di ascoltare il programma “Italia, istruzioni per l’uso” su Radio Uno?

Detto questo, ciò che volevo intendere nel post da cui siamo partiti è che secondo me gli psicoterapeuti, quando cadono nel tranello della disfida su cosa “funzioni di più”, perdono un’occasione.

Antonella parla della complessità con cui abbiamo a che fare quando ci muoviamo nel mondo delle emozioni e dei significati: certamente una complessità maggiore di quando ci muoviamo nel dominio riduzionistico dei neurotrasmettitori.

Perché – a mio avviso – non ha senso “comparare” farmacoterapia e psicoterapia? Perché sono due linguaggi incommensurabili.

Io dico che i farmaci – se sono azzeccati – “funzionano”; e che la terapia – se fatta bene – “funziona”. Solo che la parola “funziona” ha un significato diverso in una frase e nell’altra.

Sappiamo bene che l’esperienza di chi prova gli uni o l’altra è totalmente differente. Ciascuno dei due, se ti dirà che l’esperienza ha “funzionato”, ti racconterà qualcosa di non comparabile.

Il primo ti dirà che si è liberato di un sintomo, il secondo ti riferirà di un’esperienza assai più complessa. Temo che gli spazi interpubblicitari di un salotto televisivo siano adatti più al primo linguaggio che al secondo. Più alla stenografica secchezza di una diagnosi che alla ricchezza narrativa di una storia di vita.

Fra parentesi: lo so che ci sono delle terapie che hanno come obiettivo quello di liberare una persona da un sintomo e che non sono interessate a qualcosa che assomigli a un percorso di conoscenza, a una ricerca di significati, a un’attività autoriflessiva. È possibile che questo smentisca parzialmente quello che sto dicendo. Eppure ho l’idea che, sebbene non sia nel “contratto” terapeutico esplicito, anche una terapia strategica – quella che si pregia di eliminare un sintomo in maniera indolore e in poche sedute – finisca per essere un lavoro di costruzione del sé dentro una relazione terapeutica. Per chi l’avesse letto o avesse voglia di farlo, lo spiego nell’ultimo numero della rivista “Connessioni” che ho curato con Pietro Barbetta, in un articolo nato dall’intervista a una donna ex anoressica.

Questo mi fa pensare che, al di là delle differenze epistemologiche (anche qui: incommensurabili), politiche, pragmatiche, un qualche esiguo comune denominatore in questo panorama tanto vasto da perdersi – che è poi quello delle terapie “della parola” – lo si possa trovare.

Dicevo, mi interessa poco il dibattito su cosa “funzioni” di più. Lasciamo gli psichiatri organicisti e i loro esperti di marketing a fare il loro mestiere a Porta a Porta, a Domenica in, a Uomini e Donne e da Marzullo, se gli va. Se vogliamo partecipare, non ha senso farlo per gareggiare, ma semmai per dialogare con un’altra cultura su idee di “cura” talmente differenti che possono confrontarsi – se hanno abbastanza curiosità per farlo – ma non competere l’una con l’altra.

Dopodiché cerchiamo altri spazi dove parlare di quello che facciamo noi. Mentre in Israele, negli Stati Uniti e in altri posti, uno dei fenomeni televisivi del momento è una fiction sulla psicoterapia – con la telecamera dentro lo studio dell’analista – qui da noi sgomitiamo per qualche scampolo di talk show.

Infine, non c’è solo la televisione. Anzi, davanti all’avanzare del web, dei nuovi mezzi di comunicazione – in cui le persone non dipendono da quel che passa questo o quel convento, ma anzi si scambiano informazioni e comunicano liberamente – questo è il momento in cui la tv e i media tradizionali hanno meno potere che in qualunque altro periodo. Ne hanno, ma a differenza di dieci anni fa oggi quantomeno lo condividono con i nuovi media.

La Rete offre oggi mille possibilità di fare informazione e cultura senza dover chiedere per favore: nemmeno a Bruno Vespa.

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