“In treatment” è una delle cose più innovative che si siano viste in televisione negli ultimi anni. In Italia è appena passata su una tv satellitare.
Prodotta dalla HBO e diretta da Rodrigo Garcìa (figlio dello scrittore Gabriel Garcìa Marquez), la serie è la trascrizione praticamente fedele dell’israeliana “BeTipul”. È centrata sulla figura dello psicoterapeuta Paul Weston (Gabriel Byrne): cinque puntate alla settimana, tre pazienti dal lunedì al mercoledì, una terapia di coppia il giovedì, infine il venerdì la seduta di supervisione di Paul da Gina Toll (supervisora? terapeuta? collega/rivale? “Alcuni confini sono diventati labili qui”, ammetteranno i due personaggi in una puntata cruciale).

Non si era mai vista in televisione (né nella fiction né in quella sua buffa caricatura che è il giornalismo degli psicovarietà) una figura di terapeuta così verosimile e così estranea a tutti i più frusti e offensivi luoghi comuni dello psicologo a raggi X, sicuro di sé e improbabile maestro di vita.
La sceneggiatura è al bacio. Ogni battuta, ogni sguardo hanno un peso specifico raro, non c’è una parola o un sospiro che sia casuale.
Non è un documentario né un film-realtà, eppure il linguaggio di “In Treatment” non è quello televisivo. Come dice Aldo Grasso, l’impianto narrativo è teatrale. Ibseniano, dice addirittura il critico del Corriere. Se si cerca un riferimento nel cinema, forse bisogna pensare a Bergman. Due personaggi in una stanza per venticinque minuti: non c’è azione, quel che accade è evocato essenzialmente dalla parola.
È difficile immaginare qualcosa di più antitelevisivo, ed è interessante che per un esperimento tanto radicale, la televisione si rivolga al nostro mestiere.


In Treatment – Season 1 Episode 01 – Pilot di First-Episodes

Da tutto questo, si stenterebbe a credere che la serie sia diventata un cult negli Stati Uniti. Eppure.
Una domanda interessante è in che modo contribuirà a costruire un’immagine socialmente condivisa del terapeuta: Paul, diversamente dai precedenti televisivi e cinematografici (dall’esilarante Richard Gere di “Analisi finale” in giù, di figure bislacche e inverosimili di terapeuti da piccolo e grande schermo se ne contano a decine), è una persona. Non la macchietta di un superuomo infallibile, né un occhio che scruta le vicende umane dall’alto.
Il suo lavoro si confronterà con i suoi drammi personali, e questi finiranno per sfondare la porta della stanza di terapia. Il dolore di Paul si intreccerà nella trama dei dolori cui cerca di dare sollievo.

Se proprio volessi trovare qualcosa da ridire, ecco, la terapia come emerge da “In Treatment” appare un viaggio doloroso e straziante. Immagine ingiusta, in fin dei conti, parziale quantomeno. Nell’esperienza del sottoscritto – no, non soltanto del sottoscritto – in terapia spesso si sorride anche. Perfino si riesce a ridere, talvolta.

Se riuscite, recuperatelo in lingua originale (il doppiaggio, per quanto pregevole possa essere, sottrae qualcosa a un’opera che è fatta di dialoghi, primi piani e poco più) e guardate le puntate nella giusta cronologia anziché nell’inspiegabile successione decisa dai programmisti italiani.

P.S.: torno su questo post, qualche mese dopo averlo scritto, perché è giusto ricordare alcune piacevoli eccezioni di terapeuti e di terapie raccontati con competenza, magari affidandosi a chi il mestiere lo conosce. E mi vengono in mente due casi su cui magari vorrei tornare un giorno: il dolente Nanni Moretti di “La stanza del figlio”, scritto con la consulenza di Paolo Migone; il gruppo in terapia di “Ma che colpa abbiamo noi” di Carlo Verdone (che si è avvalso di Gaetano Giordano), con la trovata dell’analista che muore in seduta mentre la sigaretta le si consuma fra le dita.

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