Questo post è piuttosto lungo e forse nemmeno scorrevole, ma spero che non sia abbastanza  confuso da impedire che qualcuno aggiunga la propria voce e lasci un commento. Ci terrei molto. Metto anche in conto di aver scritto cose non precisissime, muovendomi fra due territori (la terapia sistemica e il jazz) ed avendo più pratica del primo che del secondo.
Allora: che c’entra l’improvvisazione jazz con la terapia? Vedi il volume “Suoni inauditi” di Davide Sparti (c’è una mia recensione qui, ma me ero occupato anche sul sito TerapiaSistemica.info: dalla recensione pubblicata in questa pagina riprendo alcuni dei pensieri che alimenteranno questi appunti).

Per Sparti “la vita è un esercizio di improvvisazione” (p. 222), e la dimensione improvvisativa è innanzitutto una forma di interazione sociale, una “pratica culturale” la cui indagine riguarda la sociologia; gli strumenti dell’indagine sono l’etnometodologia e l’analisi della conversazione.
La mia idea è che tale indagine riguardi anche la psicologia e che sia di assoluta importanza per lo psicoterapeuta.

Ora, è noto che le metafore del testo e della narrazione hanno da tempo affiancato le metafore cibernetiche nel lavoro sistemico con le famiglie e i sistemi umani, anzi, talvolta si sono riproposte di superarle nella direzione di un linguaggio meno legato alle macchine e alla biologia. Vedi al proposito questo storico articolo di Lynn Hoffman, che mi dette anni fa il permesso di pubblicarne on line la traduzione che ne avevo fatto assieme ad Adriana Valle:

“Terapia familiare: prima parte” sembra aver trovato un finale provvisorio nel fatto che il paradigma cibernetico può aver terminato la sua corsa. Come potrebbe apparire una “Terapia familiare: seconda parte”?
(da “Costruire realtà: un’arte di lenti”)

Ma Lynn Hoffman non si limitava a descrivere il modo in cui le nuove metafore avevano preso il posto di, o si erano affinancate a, quelle già note:

Pensando in questo modo alla costruzione di significati, si potrebbe dire che persino la scelta delle modalità sensoriali in psicoterapia è derivata socialmente. Pochi decenni fa, in base all’interesse per la psicologia umanistica, la parola chiave era “sentimenti”. I più recenti modelli cognitivi hanno dato la priorità ai modi di “vedere”, e presumo che nel futuro il crescente interesse per le metafore della “voce” indicherà un differente modo di “ascoltare”. (ivi)

Dunque nel 1990 Lynn Hoffman tentava di profetizzare – con buon successo, potremmo dire oggi – quali metafore negli anni successivi avrebbero dato forma alla psicoterapia di derivazione sistemica.

Il mio punto di vista è che altrettanto illuminante è la metafora del “suonare insieme” o dell’”improvvisare collettivamente su un tema”.

L’ipotesi è che nel concetto di musica improvvisata, non scritta, che nasce mentre alcuni la suonano e altri l’ascoltano, si possa rinvenire un atteggiamento che in campo sistemico è stato l’approdo (temporaneo?) di un percorso che ha cambiato il modo di fare terapia: vale a dire quello che va dall’osservanza rigida del modello e dalla posizione di controllo dell’esperto a una posizione di collaborazione fra terapeuta e clienti, dove quello che emerge non è una costruzione predeterminata ma una qualità emergente della relazione. “Un modello molto diverso, che fosse meno strategico e strumentale e più collaborativo ed esplicito”, nelle parole di Lynn Hoffman (dall’articolo citato).

L’”irriverenza” di Gianfranco Cecchin, l’atteggiamento del terapeuta che usa le proprie teorie senza ritenerle verità definitive e anzi potendole mettere “fra parentesi”, e che richiede però una profonda conoscenza delle regole, per potersene affrancare, sembra avere analogie con il rapporto che c’è fra l’improvvisatore e uno standard jazz nell’improvvisazione boppistica. Che dire della famosa frase di Charlie Parker: “master your instrument, master the music; then forget all that shit and just play!” (“padroneggia il tuo strumento, padroneggia la musica, poi dimentica tutte quelle stronzate e suona!”), se non rimpiangere il fatto che il terapeuta milanese e il genio del sax hanno operato in momenti e luoghi troppo diversi per poter incontrarsi?

Il discorso sarebbe da approfondire, e mi piacerebbe farlo con l’ausilio di musicisti e di persone competenti sul jazz e sulla musica improvvisata. Mi riservo di farlo: ma ho il sospetto che la terapia di Cecchin si possa ritenere profondamente parkeriana.
(Un altro approfondimento possibile: la collaborazione fra Charlie Parker e Dizzy Gillespie e quella fra Luigi Boscolo e Gianfranco Cecchin; se trovo un po’ di tempo, non sarebbe male provare ad approfondire; anche questa credo possa essere un’ipotesi gravida di conseguenze interessanti).

Altri spunti risalgono a una sera di qualche anno fa, quando assistetti a una performance del sestetto di Paolo Fresu. Fresu stava lavorando da anni sulle partiture di “Porgy and Bess” di Gershwin. Due aspetti mi rimasero impressi di quella serata (oltre la musica):

1. Ad un certo punto della serata (che si svolgeva all’aperto in estate, nella piazza di una località lacustre) l’orologio della torre iniziò a battere le ventidue, giusto mentre il gruppo stava per attaccare uno dei brani in programma. Si fosse trattato di un concerto di musica classica, i musicisti si sarebbero fermati ed avrebbero atteso che tornasse il silenzio. Con grande divertimento dei presenti, invece, il batterista del sestetto (Morton Lund?) prese ad improvvisare “duettando” con l’orologio: in un certo senso, l’orologio con i suoi battiti ritmici non era “esterno” alla musica, i confini fra il palco e quello che accadeva fuori da esso sfumavano. Quel che accadeva di imprevisto non era di “disturbo” alla musica, ma anzi ne diventava parte. Questo suggeriva alcune idee sul setting, i suoi confini, le sue regole, la sua minore o maggiore flessibilità.

2. Il lavoro che da anni Fresu conduceva su “Porgy and Bess”, col contributo di varie formazioni di musicisti, in cui le partiture originali davano luogo ad arrangiamenti e soluzioni sempre diverse e che evolvevano nel tempo, mi ricordava da vicino un articolo di Carlos Sluzki, “Strange attractors and the transformation of Narratives in Therapy”, tradotto (“La trasformazione terapeutica delle trame narrative”) sul n. 36/1991 di Terapia Familiare. In esso Sluzki illustra un modo di fare terapia per cui le storie portate dalla famiglia o dal cliente evolvono gradualmente nell’arco della terapia: evolve la natura delle storie e la narrazione delle storie.

Già nella recensione del libro di Sparti ricordavo che negli anni 80 la critica jazz era impegnata nel decidere se gli “improvvisatori radicali” (il chitarrista Derek Bailey su tutti, v. il video poco più avanti, ma anche una schiera di musicisti che un cercava di introdurre un linguaggio improvvisativo che rifiutava strutture e vincoli alla creatività) fossero veri musicisti, in grado di improvvisare decentemente su uno standard oltre che di emettere suoni apparentemente causali. Il decano della critica jazz italiana, Arrigo Polillo, padre della storica rivista “Musica Jazz”, era particolarmente ostile alla musica di questa corrente emergente.


Qualche anno fa Salvador Minuchin (sul “Journal of marital and family therapy”; in Italia la ripubblicò “Terapia familiare”) propose una polemica simile: dov’è finita la famiglia, e la terapia della famiglia, nella terapia postmoderna e conversazionalista?

Allo stesso modo i critici più “critici” sui musicisti improvvisatori si domandavano “che fine ha fatto il blues in questa musica improvvisata? Si può ancora chiamare jazz?”. Come quei musicisti, i terapeuti conversazionalisti rivendicano un modo di fare terapia che “liberi” le persone (i clienti in primis, ma in buona misura anche i terapeuti) dalla “tirannia” dei modelli e delle idee precostituite.

Darek Bailey: Nell’uno e nell’altro caso la questione del rapporto fra avanguardie e tradizione sembra rilevante; e in entrambi i casi si potrebbe rispondere: è davvero possibile non avere regole? Il rifiuto di regole e struttura non è esso stesso, paradossalmente, una regola che struttura fortemente la relazione e la comunicazione? E in effetti, nell’uno e nell’altro caso, argomenti del genere erano i preferiti (e, diciamolo, i più difficilmente oppugnabili) di quanti guardavano con più prudenza che entusiasmo a simili “svolte”.

Questi sono solo alcuni aspetti da esplorare per approfondire la metafora della terapia come “jam session” di musica improvvisata (e della formazione alla terapia come training all’improvvisazione collettiva), non solo nell’analogia tra due forme di interazione creativa, ma anche nelle somiglianze tra le questioni epistemologiche che riguardano ciascuno di questi ambiti.

massimo giulianiPsicologia, psicoterapia e...cura,improvvisazione,jazz,musica,sistemicaQuesto post è piuttosto lungo e forse nemmeno scorrevole, ma spero che non sia abbastanza  confuso da impedire che qualcuno aggiunga la propria voce e lasci un commento. Ci terrei molto. Metto anche in conto di aver scritto cose non precisissime, muovendomi fra due territori (la terapia sistemica e...Psicologia, metafore, cultura (Il blog di Massimo Giuliani, psicoterapeuta a Brescia e Milano)